Cuore infermo/Parte Quarta/I
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I.
Ma gli ultimi rami coperti di fiori odorosi non giungono a celare che i balconi del primo piano. Quelli del secondo piano guardano, liberi, le colline verdi e bianche di agrumi e di olivi, onde si circonda leggiadramente Sorrento. Il grande terrazzo, la piccola torre rotonda che lo signoreggia, il belvedere con cui termina la torre e che sovrasta a tutto, si adergono nel pieno orizzonte e vedono il mare da Capri sino a Castellammare. La villa che giace nella campagna, gode così una doppia delizia: nel pianterreno e nel primo piano la calma perfetta, la penombra fresca e discreta, la sicurezza della solitudine; più su la libertà larghissima della luce, il vivido aere che solleva, la vastità del cielo, le alture popolate di case, i villaggi che digradano alla costa... lontano, le banderuole delle barchette che sbattono al vento marino.
La villa non ha giardino d’attorno. Dal portone sino al cancello che dà sulla via di Massalubrense, un grande viale separa le aiuole di vainiglia, di viole brune, di geranii fiammeggianti, di margherite simili a stelle, di verbene piccine e multicolori. Il resto è parco: tra i boschetti di cedri, le grandi piante dei limoni, quelle più piccole dei mandarini, tra le larghe espansioni delle magnolie, tra i polverosi, alti e sottili eucalitti, serpeggiano i viali gialli. In qualche crocicchio un tavolino di legno rustico, circondato da sedie. Tra i boschetti qualche casettina microscopica, dove i custodi serbano gli arnesi da lavoro e le piantine delicate che vogliono far riprodurre. Quel parco è grandioso, di un verde bruno, denso, lucido e consistente; dal terrazzo sembra un lago di verdura, lago senza onde, immobile.
La villa non ha nulla del castello o della casa colonica; non è una riproduzione delle fattorie svizzere, delle villette gotiche, rococo o rinascimento. È un edifizio bianco, moderno, svelto, senza uno stile determinato. Larghe le finestre, grige le gelosie. Due ale che si avanzano per le scuderie, le cucine, le camere dei servi. Al pianterreno le anticamere, stanza da bigliardo, stanze da bagno, una piccola serra a cristalli. Due piani per i padroni. Mobilio elegante, campagnuolo; qualche stanza un po’ vuota: un vuoto amabile, che sembra così naturale in villa. Su due balconi riuniti verso l’oriente, una grande voliera, dove saltellano, si beccano, urtano contro il fil di ferro, gorgheggiano i canarini. Si sale al primo terrazzo per una scala a chiocciola, alquanto larga, che ha un finestrino in vetri colorati ed istoriati: il terrazzo è nudo. La torricella è una cameretta rotonda, con due balconi, mobiliata in tela grigia e rossa; dentro, alla rinfusa, sediolini, tavolinetti, sgabelli, mensole, un pianoforte verticale, oleografie pei muri, albums gittati qua e là, cannocchiali e tutti gli oggetti inutili, possibili ed impossibili, che si fanno con quel biondo legno sorrentino, dalle incisioni ingenue, rosse, gialle e nere. Una scalettina a chiocciola porta sul belvedere. Da quest’ultimo terrazzo, per tutta la casa, per tutto l’orizzonte, per tutto il parco, spira una dolce tranquillità: la dolce tranquillità che ha Sorrento, che nulla le può togliere, nè l’inverno, nè il vento aquilonare, nè la tempesta, nè le strane convulsioni degli uomini.
Verso occidente, sul limitare fra il parco ed una viottola scorciatoia, è una piccola chiesa, la cappellina gentilizia, dove le dame di casa Sangiorgio vanno, tutte sole, a pregare il buon Dio.
Beatrice aveva affrettata la partenza per Sorrento. L’estate era inoltrata, soffocante; il travertino del palazzo Sangiorgio a Napoli, riscaldato una volta, non si rinfrescava che nell’autunno.
Le amiche, le conoscenze venivano a fare le loro visite di congedo. Era una fuga. Napoli diventava una città pesante, borghese, il rifugio dei provinciali. Per le vie si incontravano certi tipi grassi e grossi, in una fioritura di stoffe, di cappelli-giardini, di oreficeria brillante. Nelle ore della sera, la borghesia, gli impiegati, gli studenti, i negozianti, tutti quelli condannati dalla loro condizione sociale, dalle loro finanze, a non uscire da Napoli, andavano a sedere in Villa: divertimento alquanto volgare, ma poco costoso. Non era più concesso ad una dama che si rispettasse, di rimanere ancora in città. Anche Beatrice si sentiva stanca. Non molto; ma a volte, veniva assalita da certe languidezze che non le piacevano punto. Era naturale. Nell’inverno, matrimonio, viaggio, stagione a Parigi, ritorno, stagione a Napoli, balli dappertutto, agitazioni dappertutto. Su tutto questo, Marcello e suo padre che non volevano lasciarla in pace: era stata costretta a dare delle spiegazioni, subire delle scene, a scansarne delle altre peggiori... e che so io! Figurarsi se i suoi nervi, malgrado la loro equabilità, non dovessero esserne stracchi. Per questo desiderava il riposo.
Certo ella sapeva che a Sorrento non cessa completamente la vita mondana e chiassosa dell’aristocrazia; ma ne diminuisce la febbrile attività. Vi è sempre lo Stabia Hall a Castellammare, sempre le sale dell’albergo Tramontano a Sorrento, dove si balla spesso; ma è un ballonzolo di villa, in abito corto di mussola e cappello coperto di fiori: si termina a mezzanotte, si va a letto ad un’ora modesta. Si fanno lunghe gite in carrozza, a piedi, a cavallo, in barchetta; ma ci si va di buon mattino, si fa colazione sull’erba o sull’arena, dove si può riposare un’oretta. Sulla via maestra di Massalubrense vi è un tentativo di corso; però è un buon genere mancarvi spesso. Le dame non hanno giorno di ricevimento; se capitano visite da Napoli o dai vicini villaggi si possono ricevere e non ricevere in tutte le ore; le consegne non sono sottoposte a dicerie maldicenti. Al mattino vi è naturalmente l’obbligo del bagno di mare alla spiaggia; in settembre cessa. Ogni tanto si dà una recita di filodrammatici, si imbastisce alla lesta un concerto: nulla di formale. La vita si rallenta. Si respira in certe ore; e ne hanno bisogno i polmoni affaticati che hanno troppo vissuto nell’atmosfera artificiale del gas, dei profumi falsi, degli aliti ardenti, dei fiori morenti. Il lusso sminuisce: poco, ma sminuisce. Appunto perchè fa caldo, è bello non iscollarsi troppo, poichè sembrerebbe bisogno volgare, quello che è raffinatezza elegante. Con diciotto abiti nuovi, dieci o dodici cappellini, quattro ombrellini, sei ventagli, stivalini e guanti analoghi, una dama può decentemente passare due mesi a Sorrento.
Più ancora: si può, senza traccia di carattere borghese o selvaggio, restarsene in disparte, lasciando andare gli svaghi campagnuoli. Non manca il buon gusto, anzi ne è una squisitezza quel ritirarsi due mesi in una vita quieta, per prepararsi a quella turbinosa dell’inverno. Piace alle donne darsi l’aspetto di gentili eremite, di pensose solitarie. Si richiede sovente di esse, corrono notizie, si fanno supposizioni, si desidera lungamente di rivederle; in quella loro assenza esse sanno di rifiorire. La loro bellezza, in quel riposo, diventa più rosea, più brillante, e quando riappariscono, dopo essere state tanto evocate, alle antiche seduzioni una nuova indefinita è venuta ad aggiungersi.
Questo sapeva Beatrice. Senza mancare alle convenienze sociali, di cui era rigorosa osservatrice, ella poteva ottenere il po’ di riposo che voleva. Ella non discendeva alla spiaggia per i bagni marini, non avendone alcun bisogno: stava benissimo in salute. Evitava le gite mattinali a cagione del sole che non amava molto — e lo diceva. Riceveva poco: i giovanotti allegri e le signorine troppo gaie avevano finito per dichiarare, che non si poteva soffrire il silenzio della sua villa. Erano in due soli ad abitarla, la villa: Beatrice e Marcello. Costui quasi sempre assente, a Castellammare, a Meta, a Capri, lontano o semplicemente in visita in qualche villa vicina; Beatrice con quella sua aria freddina e sorridente che incoraggia appena a metà le visite, i complimenti. Il conte Sangiorgio, il vecchio, in Calabria, a sorvegliare certi lavori di taglio. Il duca Mario Revertera, a Viareggio, dietro la marchesa di Monsardo.
L’egoismo amabile della duchessa di Sangiorgio si espandeva piacevolmente in quella solitudine. Ella si lasciava andare un poco a fare tutto quello che più le garbava. Cose insolite, no. Bizzarrie, capricci, niente. Ma i lievi sacrifizi che ella offriva al pubblico, anche quelli erano tolti di mezzo. Poteva vivere quietamente, senza che alcuno venisse a disturbarla. Ella scuoteva le sue spalle, come se fossero state liberate da un peso, e si godeva l’indipendenza. Tutto cominciava e finiva in lei, ora. E lo sa Iddio se questo era stato sempre il suo sogno!
Sono stupende le albe di Sorrento; ma ella non si levava prima del sole, per vedere tale spettacolo, come qualche anima poetica sarebbe capace di fare. Non suonava per la sua cameriera che verso le nove. Si faceva pettinare e vestire molto lentamente, scambiando qualche vaga parola con la Giovannina. Quando l’acconciatura era completa, avveniva per lo più il seguente dialogo:
— Giovannina, il duca ha lasciato qualche ordine?
— No, eccellenza.
— Benissimo: vuoi dire che rimane nella decisione di ieri sera. Direte allora al cuoco di preparare per me sola; il duca non viene per la colazione.
Ovvero:
— Signora, il padrone è uscito di buon mattino coi signori Mormille e Ruffo. Ha fatto dire pel suo cameriere, che non sa se ritorna, che ad ogni modo non lo si attenda.
— Va bene; date gli ordini, Giovannina.
E la duchessa passava nel suo salotto e si metteva a leggere od a ricamare. Ella leggeva di tutto, ma preferibilmente la prosa. I libri, com’è naturale, non l’appassionavano; ma la lettura le sembrava un’occupazione gradevole, purchè non fosse troppo prolungata. Anche il ricamo le piaceva: finita la stola che aveva donata alla chiesa di Santa Maria degli Angioli, ora ricamava una tovaglia in batista, per la cappellina di Sorrento. Non già che l’animasse un grande fervore religioso; ma per sè non ricamava nulla, trovandone a comperare dovunque senza molta pena — ed agli altri non si curava di far doni sentimentalmente borghesi. Per ricamare o per leggere, si sedeva in una poltroncina americana di legno odoroso, davanti al suo tavolinetto da lavoro, nel vano di un grande balcone. Beninteso, erano chiuse le gelosie per non farvi entrare il sole, ma il freschetto di ponente penetrava nella stanza. Per quel soffio breve, Beatrice ristava talvolta dal ricamare o dal leggere, abbandonandosi alle carezze dell’aria che le blandiva il viso, non di rado un po’ accaldato. Attorno a lei il silenzio era profondo, quel bel silenzio, il felice silenzio della campagna. Talora un lieve rumore affiochito dalla distanza, giungeva fino a lei. Ella tendeva l’orecchio; era un cedro, un bel frutto giallo-rosso che era caduto dal ramo sull’erba; era il canto di un fanciulletto che discendeva da una viottola, con un carico di fieno sul capo; era il passo di Nero, il suo cavallo, che un palafreniere conduceva a passeggiare pei viali. Ella non vedeva tutto questo, ma lo indovinava, ma cercava d’indovinarlo, e la sua mente si distraeva, in quella ricerca, dal ricamo o dal libro. Due ore passavano, lentamente, è vero, ma con una lentezza molle e delicata. Qualche volta sopraggiungeva Marcello, che veniva a chiamarla per la colazione. Un giorno la sorprese, con le mani inerti, lo sguardo perduto nel vuoto: egli la fissò con tanta meraviglia, che Beatrice ne arrossì. D’allora in poi, non si fece mai più sorprendere in quei momenti di contemplazione. Non di rado era solamente il servo che veniva ad annunziarle che era servita. Passava nella sala da pranzo, mobiliata tutta in legno di Sorrento, ridente, gaia, con qualche raggio di sole che filtrava per le gelosie e accendeva i cristalli nitidi dei bicchieri negli scaffali. Faceva colazione a suo agio, prendendo il suo tempo, senza quasi accorgersi di essere sola. La servivano silenziosamente con taciti inchini. Pure un giorno che si voltò, vide il servo sorridere. Non gli disse nulla, ma provò dispetto di quel sorriso. Comprendeva bene di che si trattasse: aveva le sue teorie sui pettegolezzi dei servi. Poi si strinse nelle spalle e non vi pensò più. Vi dovevano essere molti di quei sorrisi ed altro ancora nelle anticamere, nelle cucine, nelle scuderie; nè si potevano impedire, anche volendo.
Dopo, ella faceva due o tre giri, a mo’ di passeggiata, nella casa. Non si poteva scendere nel parco, all’una, a causa del troppo sole. A quell’ora si trovava veramente un po’ disoccupata. Nelle giornate estive, il pomeriggio è molto lungo, troppo lungo. Pure finiva sempre per trovare molte cose da fare. Capitava il maggiordomo a parlare di conti; giungevano lettere da Napoli; veniva qualche visita; la sarta aveva mandato due abiti nuovi, il tappezziere chiedeva istruzioni per i cangiamenti invernali a palazzo di Monte di Dio. Ella faceva di conto, discorreva, scriveva, esaminava abiti e merletti. Alle quattro e mezzo usciva a fare la sua passeggiata nel parco, andando lentamente pei viali, con lo strascico che serpeggiava dietro lei. Talvolta usciva in vettura, arrivava fino a Vico Equense e tornava, talvolta a cavallo, ma allora prendeva le viottole. Era immancabilmente di ritorno per le sei. Marcello l’attendeva, fumando un sigaro. Discorrevano a tavola del tempo buono, dei villeggianti. Ma se il silenzio sopraggiungeva, nessuno dei due si dava più la pena di romperlo. Le apparenze della più profonda indifferenza erano ormai fra loro. Se Marcello era giunto a rassegnarsi, la rassegnazione doveva essere completa. Non si curava neppure di nascondere la sua distrazione, il suo pensiero assente, la sua premura di partire subito. Dopo pranzo, prendevano il caffè sul terrazzo, dove i servi vi portavano un tavolino e delle sedie. Subito dopo, Marcello salutava e andava via. Beatrice rimaneva sola, nel tramonto lungo e malinconico.
Ella, naturalmente, non aveva alcun languore poetico in quell’ora, ma quantunque la natura non arrivasse a commuoverla, lo spettacolo era sempre così stupendamente bello, che esercitava una qualche attrazione sul suo spirito. Le fiamme rosee e violette che incendono l’orizzonte, le trasparenze opaline del cielo, l’ombra che sale dalla valle e poco a poco conquista le colline, la vetriata di una finestra che va in fuoco, mentre le altre sono già nere; la caduta minuto per minuto, di quanto fu lucido e fulgido, nel bruno uniforme: anche un’anima secca ed arida non abbandona tale vista. Quando la notte era venuta, a volte era presa da un grande senso di freddo. Si avvolgeva nel suo scialle che portava sempre con sè: l’impressione durava poco. Restava ancora là. Non guardava le stelle, di certo. Non amava neppure quelle. Non sapeva neanche ella stessa che cosa guardasse. Si alzava poi, e si faceva portare i lumi nella stanzetta rotonda che formava la torricella-belvedere. Ivi leggeva, sfogliava gli albums che Marcello vi aveva ammonticchiati da scapolo, scorreva i giornaletti di mode o di letteratura che erano giunti con la posta della sera. Ogni tanto usciva sulla porta della rotonda, fissando l’oscurità: ogni tanto faceva un giretto di nuovo sul terrazzo e ritornava alle sue occupazioni predilette. Di rado le annunziavano qualche visita. Discendeva quasi a malincuore al primo piano. Pure il malincuore durava poco. Era nel suo carattere — reale o fittizio — il non ostinarsi in un pensiero, in una impressione; avere la facoltà di accoglierli tutti e tutte egualmente. Le piaceva la torricella rotonda; ma non si poteva affliggere molto, quando doveva abbandonarla. Alla mezzanotte, se Marcello era rientrato, veniva ad augurarle in fretta la buona notte, con l’aria di stanchezza che gli era divenuta abituale. Se no, ella chiamava la cameriera:
— Giovannina, è rientrato il signor duca?
— No, eccellenza.
— Va bene; venite a spogliarmi.
Dopo l’abbigliamento della notte, diceva le sue orazioni non molto lunghe, andava a letto, e si addormentava del suo sonno felice e leggiero.
La villa Sangiorgio rimane nel folto degli aranci. Ma accanto al suo grande parco, vi è il piccolo parco dove si cela la villa Torraca.