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Parte quarta | 149 |
un pianoforte verticale, oleografie pei muri, albums gittati qua e là, cannocchiali e tutti gli oggetti inutili, possibili ed impossibili, che si fanno con quel biondo legno sorrentino, dalle incisioni ingenue, rosse, gialle e nere. Una scalettina a chiocciola porta sul belvedere. Da quest’ultimo terrazzo, per tutta la casa, per tutto l’orizzonte, per tutto il parco, spira una dolce tranquillità: la dolce tranquillità che ha Sorrento, che nulla le può togliere, nè l’inverno, nè il vento aquilonare, nè la tempesta, nè le strane convulsioni degli uomini.
Verso occidente, sul limitare fra il parco ed una viottola scorciatoia, è una piccola chiesa, la cappellina gentilizia, dove le dame di casa Sangiorgio vanno, tutte sole, a pregare il buon Dio.
Beatrice aveva affrettata la partenza per Sorrento. L’estate era inoltrata, soffocante; il travertino del palazzo Sangiorgio a Napoli, riscaldato una volta, non si rinfrescava che nell’autunno.
Le amiche, le conoscenze venivano a fare le loro visite di congedo. Era una fuga. Napoli diventava una città pesante, borghese, il rifugio dei provinciali. Per le vie si incontravano certi tipi grassi e grossi, in una fioritura di stoffe, di cappelli-giardini, di oreficeria brillante. Nelle ore della sera, la borghesia, gli impiegati, gli studenti, i negozianti, tutti quelli condannati dalla loro condizione sociale, dalle loro finanze, a non uscire da Napoli, andavano a sedere in Villa: divertimento alquanto volgare, ma poco costoso. Non era più concesso ad una dama che si rispettasse, di rimanere ancora in città. Anche Beatrice si sentiva stanca. Non molto; ma a volte, veniva assalita da certe languidezze che non le piacevano punto. Era naturale. Nell’inverno, matrimonio, viaggio, stagione a Parigi,