Cuore infermo/Parte Prima/I
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I.
Poscia il tramonto era venuto a mettere qualche dolcezza in quella passione dell’estate, passione inflessibile e senza lagrime: impallidivano i colori vivaci e crudeli; una tinta cinerea e soave si diffondeva; qualche cosa di velato, di trasparente sorgeva dalla terra, cadeva dal cielo; un lieve soffio si alzava dal mare, che ridiventava in quell’ora e per tutta la notte la fonte della gioventù e della freschezza; nella unica e lunga strada di Portici, sul caldo selciato, trabalzava il carro dell’inaffiatore, sollevando un leggiero polverio ed una colonnina di fumo, accompagnato dal grato rumore dell’acqua che zampillava; l’edificio dei Granili si stingeva in un cremisi scarico, poi in un violetto tenero, quasi che una malinconia si mescolasse all’oltraggioso colore della sua facciata; qualche finestra si schiudeva; stridevano lievemente gli arganetti dei trasparenti, sollevati come il sipario dei piccoli teatri; qualche abito bianco compariva all’angolo di un viale; dietro una siepe, voci e grida di fanciulletti salivano al cielo, unendosi all’hop hop irregolare di una palla elastica che balzava; la vita estiva dei villeggianti napoletani, vita tutta esteriore, che dura dal tramonto del sole sino alle ore più avanzate della notte, si svolgeva dalle più larghe linee sino alle più piccole sfumature.
Laggiù, nel grande viale del giardino, che andava dal peristilio posteriore della villa sino al mare, due donne passeggiavano. Una di esse camminava più innanzi, si fermava impaziente, tornava indietro, parlottava vivamente. Ella non si lasciava domare dalla soavità dell’ora; in quel riposo della natura, in quei lievi sospiri che manda la terra stanca di amore, Amalia fremeva nel sussulto dei suoi nervi. Era un figurina svelta; la testolina bionda, arruffata, impertinente, di scolaretto in vacanza, aveva moti vivissimi; la carnagione troppo bianca si punteggiava naturalmente di piccole lentiggini che scomparivano la sera; gli occhietti azzurri scintillavano tra le frangie riccie delle palpebre; il corpo magro, piccino, un po’ lungo di busto, si agitava senza posa. Ella portava in qualche parte del volto, forse nella piega ingenua delle labbra, forse nella finezza della pelle, forse nella irrequietezza dello sguardo, qualche cosa di infantile, di stordito, che le dava la seduzione di una gentile bambina, cresciuta troppo presto. Si muoveva nel suo lungo e ricco abito con una scioltezza, con una leggiadrìa carezzevole, che la rendevano simigliante ad un animaluccio grazioso, un uccellino, uno scoiattolo; portava al braccio una ventina di cerchiolini in argento che faceva tintinnire spesso, scuotendo la mano; s’interrompeva nel discorso, quasi inquieta, per aggiustare gli sbuffi in trina del suo goletto; metteva il punto ad una frase, scrollando il capo per rimandarsi indietro i ricciolini che le piovevano sulla fronte; morsicava con rabbiuzza una foglia di cedratina, che le faceva venir verdi le labbra sottili; chiacchierava con volubilità, ora trillando la voce, ora trascinandola con languore, ridendo, rattristandosi, interrogando sè stessa, rispondendo, abbandonandosi all’espansione del suo temperamento delicato, febbrile, avido di sensazioni opposte.
L’altra, Beatrice, la lasciava parlare, rispondendole ad intervalli, sorridendo un poco, senza turbarsi; la sua bella figura posava in una calma sicura, in una tranquillità riflessiva. La testa era vigorosa di linee: le treccie di capelli castani si aggruppavano in un nodo scultorio e lasciavano libera la nuca bianca, rotonda, leggiermente grassa, mettendovi una riga nera netta ed uguale, che si rialzava in un arco voluttuoso dietro le orecchie; lasciavano libera una fronte limitata, stretta alle tempie. L’arco delle brune sopracciglia si spianava dolcemente, lasciando in mezzo ad esse quella lievissima ombra che è l’indizio della bellezza; lunga e profonda l’incassatura dell’occhio; sulla pelle sottile delle palpebre quella reticola finissima di fibrille rosee, che dànno tanta delicatezza; la pupilla grigia, quasi venata di azzurro, gittava una irradiazione sulla cornea di un bianco caldo, quasi luminoso; lo sguardo era limpido, freddo, chiaro, mai vagante, mai rammorbidito dal velo delle lagrime; il profilo fine, diritto, ma non severo; le labbra vivide, arcuate, sollevate agli angoli in una sinuosità attraente, l’inferiore avanzato, quasi ironico; il mento di disegno fermo, un po’ lungo, dando al volto un’ovalità intelligente pensierosa. Non era molto alta, ma pareva. Il corpo era giunto al suo massimo sviluppo di vigorìa e di grazia, ma l’energia delle ricche forme non aveva nulla di tumultuoso; la salute giovanile non iscoppiava come una vegetazione capricciosa, ruvida ed invadente, ma fioriva placidamente, si allargava nel roseo vivo del colore, nella pienezza del collo, nella sodezza vellutata, nutrita, quasi fragrante della carnagione. La linea non si spezzava crudelmente con quelle asperità illogiche che urtano la vista, ma cadeva, si arrotondava, si fondeva in un’armonia scevra di qualunque dissonanza. La mano sola si dipartiva dall’ordine quasi statuario della persona: era piccola, femminea, morbida, crudele, con le unghie feline tagliate a mandorla. Tutto il volto era chiuso, silenzioso, sereno nell’indifferenza, immobile nella correzione plastica dei lineamenti, perfetto nell’unica espressione della calma; il corpo raccolto, quieto, senza moti disordinati. Un abito molto lungo, oscuro, con pochi ornamenti, a pieghe ampie e nobili: due perle brune per orecchini.
— Ti ama? — chiese Amalia.
— Niente — rispose Beatrice, sorridendo agli anelli della sua mano sinistra.
— Tu lo ami?
— No, naturalmente.
— Lo sposerai?
— Certo.
Amalia battè col tacchetto dell’elegante stivalino la terra del viale. Non poteva dominare l’impazienza.
— Come sempre — disse con accento irato — come sempre, non t’intendo. Mi rimani ignota, Beatrice.
— Mi pare strano, cara; qui m’intendono tutti.
— Gente distratta che non va al fondo delle cose.
— Il fondo delle cose? Ma tu fai una frase, Amalia.
— No, no ti assicuro. È un pezzo invece che tu mi mistifichi.
— Io...?
— Tu... Dal collegio.
— Te ne ricordi ancora?
— Sicuro — rispose la biondina con vivacità. — Sei tu che puoi dimenticartene. Lo credo io! Non amavi nessuno e nulla, là dentro. Noi altre, in classe di musica, ad andar matte per Beethoven o per Verdi, e tu a suonar di ambedue con la medesima precisione. A tavola, non ti lamentavi mai insieme con noi del pranzo; alla predica non piangevi mai; non odiavi nessuno, eri contenta di tutti. Un carattere insopportabile, amica mia.
— Lo credi?
— Tanto è vero che anche ora mi dai su’ nervi. Almeno una simpatia, un’antipatia! Luigia, te ne ricordi? Amava i grembiuli ornati di ricamo a smerlo ed i lunghi orecchini d’oro, che la direttrice non le lasciava portare; Rosalia si nascondeva nei cespugli per udire il canto dei grilli; suor Angelica era pallida e malaticcia per amore della Madonna...
— E le tue simpatie, Amalia?
— Le mie? — chiese questa, e le tremava la voce.
— Hai scordato ora, la mia donnina dalla tenace memoria? — disse scherzosa Beatrice. — Quel bel giovanotto bruno che passava a cavallo dinanzi la porta del giardino e che non ti vedeva neppure, non lo amavi tu? La notte venivi a sederti presso il mio letto e piangevi e ti disperavi per la crudele indifferenza del tuo incognito eroe...
L’altra aveva chinato il capo e non rispondeva.
— E di quel cuginettino malinconico, poetino sconosciuto, con cui filasti un idillio sentimentale all’uscita dal collegio, che ne hai fatto? E Roberto Malagotti, l’allegro e spiritoso ufficiale di artiglieria, ha mutato guarnigione, nevvero? Che io mi sappia, nessuno di costoro è tuo marito, Giulio...
— O Beatrice! — invocò Amalia con le lagrimuccie negli occhi ed il broncio di un fanciullo sgridato.
— Ti dispiaccio? Ebbene, cara, ascoltami. Lascia stare i romanzi con me, io non ho fantasia per seguirti. Tutti viviamo bene, nel più vario dei mondi. Le nostre amiche avevano le loro simpatie, a quest’ora le avranno cangiate, oppure no; tu hai avuto i tuoi amori: li hai cangiati. Io sono contenta adesso, come allora: non ho simpatie, non ho amori.
E terminò le sue parole con un gesto vago e largo verso l’orizzonte, quasi avesse voluto includere nella sua negazione il cielo, il mare e la vicina Napoli, che si accendeva di lumi tremolanti come stelle. Ma ella non si era animata; nella sua voce chiara e spiccata non era passato alcun calore; le parole cadevano nette, uguali, precise, quasi monotone.
— Un matrimonio senz’amore... — mormorò Amalia.
— Non è certo una cosa spaventosa. Poi, ci si stima.
— La stima non basta: si è infelici con la sola stima.
— Per me, sono felice sempre e dappertutto — rispose Beatrice; — ma ecco che divento anch’io drammatica. Vedi? Sul peristilio c’è mio padre, tuo marito e Marcello Sangiorgio. Ci aspettano: voglio presentarti al mio fidanzato. È un bel gentiluomo, molto elegante. Vuoi che andiamo?
— Andiamo — disse l’altra, rassegnandosi, con un sospiro, a rinunziare alle sue care fole. Pure, mentre si avviavano verso il peristilio, ella tentò rivolgere a Beatrice un’ultima domanda:
— E l’avvenire?
Beatrice si fermò, attenta; una nube parve fosse passata sul suo viso; chinata la testa, prosciolte le braccia, si abbandonava ad un sentimento di debolezza. Ma fu breve impressione.
— L’avvenire?! — rispose, con un risolino ironico — ma se lo consumiamo ogni giorno! Non vale la pena di pensarci.
E dopo due minuti:
— Marcello, ho l’onore di presentarvi la signora contessa Amalia Cantelmo. Amalia, il duca Marcello Sangiorgio.
Egli fece un inchino cerimonioso. Amalia salutò, impallidì, arrossì e spezzò una bacchetta del suo ventaglio. Ma la conversazione si annodò viva, delicata e leggiera, aggirandosi in una leggiadra scaramuccia di parole, intorno a quelle graziose futilità che formano la vita esteriore della nobiltà. Le voci erano regolate sullo stesso tono amabile e carezzevole, nessuna di esse strideva per sogghigno o vibrava per commozione; i sorrisi apparivano lenti, duravano lungamente, sempre uguali; non si cangiavano i volti per turbamento. La stessa luce che pioveva dalla grande lampada involgeva la testolina bizzarra di Amalia Cantelmo, correggendone certe spezzature aspre; rischiarava soavemente il volto pallido, un po’ effeminato, malgrado i mustacchietti bruni, di Giulio Cantelmo; scherzava sul profilo aristocratico e sulla piega scettica delle labbra di Mario Revertera, il padre di Beatrice; inondava la figura maschia, meridionale, ed intanto grave e composta, di Marcello Sangiorgio; coloriva un poco il bel volto sereno di Beatrice Revertera. In quell’ambiente ricco, calmo, morbido, l’esistenza era lenta, senza urti, senza scoppii; come erano tranquilli i mobili coverti di stoffa, i tavolini di lacca dalle strane figure cinesi, i fiori esotici e mostruosi, i libri dalla legatura rossa e dal taglio di oro, così erano tranquilli i fortunati abitatori della villa. E fuori, il giardino viveva nelle sue foglie quiete, nelle erbuccie che vegetavano con un moto impercettibile, nei petali che si schiudevano senza rumore, negli insetti che si addormentavano nella loro notte di amore.