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14 | Cuore infermo |
Egli fece un inchino cerimonioso. Amalia salutò, impallidì, arrossì e spezzò una bacchetta del suo ventaglio. Ma la conversazione si annodò viva, delicata e leggiera, aggirandosi in una leggiadra scaramuccia di parole, intorno a quelle graziose futilità che formano la vita esteriore della nobiltà. Le voci erano regolate sullo stesso tono amabile e carezzevole, nessuna di esse strideva per sogghigno o vibrava per commozione; i sorrisi apparivano lenti, duravano lungamente, sempre uguali; non si cangiavano i volti per turbamento. La stessa luce che pioveva dalla grande lampada involgeva la testolina bizzarra di Amalia Cantelmo, correggendone certe spezzature aspre; rischiarava soavemente il volto pallido, un po’ effeminato, malgrado i mustacchietti bruni, di Giulio Cantelmo; scherzava sul profilo aristocratico e sulla piega scettica delle labbra di Mario Revertera, il padre di Beatrice; inondava la figura maschia, meridionale, ed intanto grave e composta, di Marcello Sangiorgio; coloriva un poco il bel volto sereno di Beatrice Revertera. In quell’ambiente ricco, calmo, morbido, l’esistenza era lenta, senza urti, senza scoppii; come erano tranquilli i mobili coverti di stoffa, i tavolini di lacca dalle strane figure cinesi, i fiori esotici e mostruosi, i libri dalla legatura rossa e dal taglio di oro, così erano tranquilli i fortunati abitatori della villa. E fuori, il giardino viveva nelle sue foglie quiete, nelle erbuccie che vegetavano con un moto impercettibile, nei petali che si schiudevano senza rumore, negli insetti che si addormentavano nella loro notte di amore.