Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro II/Capitolo VII
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Traduzione di Tullio Dandolo (1857)
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CAPITOLO SETTIMO
§ I.
Intanto i disertori erano giunti alla Corte. La loro giustificazione non era possibile che mostrando sotto spaventevoli aspetti l’amministrazione dell’ammiraglio. Pedro Margarit e il padre Boil trovarono negli uffici della marineria una gagliarda protezione delle loro esagerazioni e delle loro calunnie. L’arcidiacono Fonseca, e il controllore Juan de Soria non mancarono di sostener quelle accuse. Gl’idalghi imbarcati di soppiatto non parlavano che con amarezza di Hispaniola, terra di disastri e disinganni: si presentavano come sfuggiti ad una morte inevitabile in quell’isola, in cui la ridente verdura nascondeva miasmi micidiali per gli Europei, in cui la fame minacciava quelli che la febbre aveva risparmiati, in cui tutti que’ mali erano aggravati dall’odiosa tirannia dell’ammiraglio, e più particolarmente de’ suoi fratelli.
Questi disertori assumevano aspetto di vittime sfuggite al dispotismo di Colombo, che venivano a riparare sotto la paterna potestà dei Monarchi, e a dimandar protezione contra i soprusi del governatore delle Indie: recavano lettere dettate dalla malevolenza, nelle quali certuni, troppo gravemente malati per imbarcarsi, dipingevano la loro deplorabile condizione: aggiungevano che l’oro di quell’isola non si trovava che in pagliuzze entro ruscelli, ed in troppo piccola quantità perchè vi fosse profitto in raccoglierlo. Le ricchezze d’Hispaniola non esistevano che nell’imaginazione del Genovese. E non contenti di calunniare il suo carattere qual capo del governo, cercarono di accusar anco la sua probità; lo accagionarono di una specie di connivenza per procacciarsi oro a danno dei diritti della corona. Già il loro odio aveva fatto correre questa voce prima della loro partenza dall’isola. Gli storici non hanno parlato di questa accusa, e nondimeno essa risulta da un documento ufficiale. ll ricevitore dei diritti regi, Sebastiano de Olano, in una lettera ai Sovrani risponde a questa calunnia, che, ben lungi dall’avere autorizzato a dar mercanzie ed a ricevere in iscambio oro, in assenza del delegato de’ controlli generali, l’ammiraglio glielo aveva per lo contrario espressamente vietato.
In mezzo a così aspre ed ingiuste accuse, chi assumerà le difese di Colombo? Chi ricorderà le circostanze terribili nelle quali fu costretto ad operare? L’ammiraglio era straniero ed assente; i suoi nemici non si vedevano fatta alcuna contraddizione: perciò l’unanimità delle loro accuse doveva ottener credito e fede. La specialità di Firmin Zedo intorno alle materie d’oro e d’argento dava gran peso alla sua affermativa che l’isola di Hispaniola non aveva miniere preziose.
La testimonianza di Pedro Margarit non era meno funesta, perocch’era quel medesimo Margarit di cui Colombo aveva fatto valere i buoni servigi e in pro del quale aveva chiesto un premio ai Monarchi, i quali avevangli decretata, per le istanze di Colombo, una pensione di trentamila maravedis.
ll carattere del Vicario Apostolico serviva di sanzione a tutte le calunnie, senza ch’egli si desse la briga di riprodurle. La sua presenza in Ispagna, mentre lo si credeva al posto a cui aveva avuto l’onore di essere assunto da Ferdinando, indicava abbastanza la gravità degli avvenimenti sopraggiunti alla Spagnuola: era venuto per disingannare i Re dell’illusione in cui l’ammiraglio amava conservarlo: oltre la difficoltà di vivere in un paese ove la terra non poteva fornire gli alimenti agli Europei, non vi si trovava nè oro, nè pietre preziose; il clima generava malattie sconosciute; un’amministrazione deplorabile aveva oppresso gli Spagnuoli; la colonia non aveva più capo: da quattro mesi non si avevano notizie dell’ammiraglio, partito con tre caravelle per esplorare la terra di Cuba: questo lungo silenzio non poteva spiegarsi che col suo naufragio in un mar procelloso e sopra coste sconosciute: il Vicario Apostolico veniva, dunque, ad esporre ai Re lo stato delle cose, ed a invocare la loro paterna sollecitudine sugli sciagurati che languivano negli orrori del bisogno e della disperazione.
Nonostante la fede istintiva d’Isabella nell’eccellenza di Colombo, il numero e l’unanimità delle accuse, che giungevano contro di lui appiè del suo trono, non potevano mancare di scuotere alquanto la sua fiducia. Anche attribuendo molta parte di quelle accuse all’orgoglio offeso, ed all’esagerazioni di questo, pur quell’insieme di lamentanze parea rivelare qualche colpa od errore nell’amministrazione dell’ammiraglio. Volendo soccorrere senza ritardo i malati, e non abbandonare i primi germi della colonia, il dì 7 aprile la Regina prescrisse all’ordinatore generale della marineria di spedire nel più breve termine quattro caravelle ad Hispaniola.
Due giorni dopo ella strinse con quel Juaroto Berardi, di cui Americo Vespucci era primo commesso, un contratto di nolo per l’apprestamento di dodici navi compiutamente armate ed approvvigionate da mandarsi ad Hispaniola: al tempo stesso scriveva all’ordinatore generale della marineria, che il commendatore Diego Carillo avesse a partire, e provvedesse all’amministrazione dell’isola durante l’assenza dell’ammiraglio, il cui lungo silenzio faceva temere che fosse perito nel suo viaggio di esplorazione.
Per la sinistra impressione prodotta alla corte contro l’ammiraglio, furono accolte, in derogazione de’ suoi diritti e de’suoi privilegi, le proposizioni di alcuni piloti che aveveno navigato sotto di lui nel primo viaggio: offrivansi d’intraprendere scoperte per la corona, a loro rischi e spese personali, e senz’alcuna indennità da parte del governo: Fonseca favoreggiava la proposta.
In quel mentre giunsero le caravelle comandate da Torres, don Diego Colombo sbarcò recando seco saggi d’oro, ed oggetti sconosciuti; e non gli riuscì difficile confermar la Regina nella sua benevolenza per l’ammiraglio. Nondimeno, si era cotanto e sì forte gridato contra il vice-re delle Indie, che Isabella volle prudentemente informarsi della ragione di tale odio. Invece di un giudice relatore, ella ebbe la cura di eleggere, per averne una relazione sulle fatte accuse, un uomo della sua casa, Juan Aguado, intendente della cappella reale, ch’era andato ad Hispaniola, e doveva essere riconoscente a Colombo, dappoichè questo lo aveva raccomandato alla Regina al suo ritorno in Castiglia. Isabella aveva motivo di pensare che una tale scelta riuscirebbe meno di ogni altra sgradevole al vice-re delle Indie: scrisse per conseguenza il 12 aprile all’ordinatore della marina per prevenirlo della nomina di Aguado, il quale prenderebbe il comando delle quattro caravelle destinate per l’Hispaniola. Siccome le navi condotte da Torres contenevano un gran numero di prigionieri indiani, ribelli presi colle armi alla mano, don Juan di Fonseca ricevette ordine di farli vendere in Andalusia, ove se ne trarrebbe miglior partito che nelle altre provincie della Castiglia: contemporaneamente gli era prescritto di mandare alla corte Bernal Diaz de Pise, autore delle prime sollevazioni d’Hispaniola.
Nondimeno, a malgrado dell’Ordinanza che determinava la vendita de’ prigionieri, secondo l’uso allora praticato cogl’infedeli e cogl’idolatri, sorse uno scrupolo in cuore ad Isabella. Avendo l’impresa della scoperta a primo oggetto la conversione delle nazioni che ignoravano il Cristo, la Regina dimandò a sè medesima se non doveva trattare que’ popoli come futuri figli della Chiesa, e se non era contrario al Vangelo renderli schiavi? Perciò l’ordinatore della marina, che la protezione del re Ferdinando aveva provveduto dell’episcopato di Badajoz, ma che, senza darsi alcun pensiero delle sue pecore, continuava a disimpegnare civili magistrature, ricevette l’ordine di sospendere la vendita degli Indiani finchè i teologi non avessero sciolta la quistione. Isabella comandò di ricondurre, intanto, que’ prigionieri ad Hispaniola, ove sarebbero tutti rimessi in libertà, eccettuati nove che l’ammiraglio destinava a servir di interpreti, e che dovevano rimanere qualche tempo in Castiglia ad imparare la lingua.
Le prove di affettata vigilanza ed incorruttibilità, che aveva dato a’ danni dell’ammiraglio il controllore della marineria Juan de Soria, furono ripetute contro suo fratello don Diego Colombo, dall’ordinator generale Juan de Fonseca. Don Diego recava seco qualche po’ d’oro a sua cognata donna Beatrice Enriquez ed a’ suoi parenti Arana di Cordova, per mostra ed anche per pagare alcuni piccoli debiti di suo fratello, o per trasmetterlo a qualcuno della sua famiglia a Genova. Don Juan de Fonseca non lasciò passare questa occasione per ispiegare il suo zelo a pro degli interessi de’ Monarchi: fece rigorosamente sequestrare il poco oro portato da don Diego. La Regina, che sapeva con penetrazione maravigliosa investigare i cuori, non approvò siffatta rigidezza; riconoscendo l’ostilità sotto l’apparenza del dovere, scrisse di propria mano il 5 maggio all’ordinatore generale di non chiedere a don Diego l’oro che recava dalle Indie; di non impacciarlo rispetto al suo soggiorno ed alla sua residenza: gli indirizzò un’altra lettera il giorno medesimo, perchè dovesse compiacere in ogni cosa il fratello dell’ammiraglio, e lo stimolò a scrivere a questo in termini amichevoli, che cancellassero la memoria d’ogni scontentezza.
Queste cure della Regina pel vice-re delle Indie non fecero che aumentar l’odio che gli portava l’ordinatore della marina. Non appare ch’egli abbia eseguito con molta sollecitudine le raccomandazioni della sua sovrana, perocchè venticinque giorni dopo ella reputò necessario di dovergli rinnovare l’espressioni della sua volontà. Da quel punto l’odio di don Juan de Fonseca contro i Colombo, e tutto ciò che si riferiva ad essi non fu mai che si spegnesse, o venisse meno: ora sordo e dissimulato, ora imprudente ed altero, quell’odio studiò tutt’i mezzi di logorare la vita dell’ammiraglio, di opporsi alla sua gloria, di costringerlo a consumare contro gli ostacoli che gli si suscitavano, quegli anni che sarebbero bastati a scoprire il rimanente del globo.
Per lungo tempo in Ispagna il titolo di vescovo, che portava indegnamente don Juan de Fonseca, lo ha salvato dalla severità della storia. Gli storiografi reali, temendo la censura, sebbene costretti a rivelare la sua avversione ed anche «il suo odio mortale» contro i Colombo, pure non hanno osato manifestare il suo procedere e vituperarlo col loro giudizio. Quanto a noi, la dignità ecclesiastica di cui egli profanò il carattere, non potrebbe trattenere la nostra penna. È di necessità per l’onore dell’episcopato di chiarire che razza di vescovo fosse l’ordinatore generale della marina. Egli aveva titolo di vescovo, ma senza essere pastore di anime; si chiamava vescovo, ma senza adempierne le funzioni, senza prendersi la menoma cura del suo gregge, che non guidava mai, e non conosceva tampoco. Non vedendo nell’episcopato che una dignità fruttante una bella rendita, appena gliene veniva il destro, mutava il suo episcopato in un altro più pingue: cangiando la mensa di Badajoz in quella di Cordova, abbandonando quella di Cordova per pigliar quella di Palencia; lasciando, appena gli fu possibile, quella di Palencia per occuparne un’altra migliore, quella di Burgos; poscia dalla sede di Burgos salendo all’arcivescovado di Rosano, e non pago della dignità arcivescovile aspirando a titolo più elevato! Questo esempio di favore, quasi unico sotto il regno di Isabella, sempre cotanto scrupolosa nella scelta de’ vescovi, fu opera del re Ferdinando.
Naturalmente la Regina Cattolica non poteva avere predilezione per don Juan de Fonseca. Il corpo de’ vescovi spagnuoli è tanto men solidale della condotta di questo membro isolato, in quanto ch’esso non esistette come vescovo altro che nominalmente: non ebbe mai l’autorità delle opere, degli esempi; non fu mai che le sue parole, che i suoi scritti edificassero alcuno: non salì mai la cattedra evangelica: rimase sempre inchiodato sulla sua tanto profittevole seggiola di ordinatore generale. E se lasciamo stare la cerimonia del suo prender possesso dei diversi vescovadi, ne’ quali riceveva gli omaggi della nuova diocesi, e da cui si allontanava tosto, non fu mai che fosse visto esercitare la menoma funzion pastorale. L’episcopato Spagnuolo non lo riclama fra le sue glorie: possiam, dunque, con piena libertà dire il nostro parere sopra don Juan de Fonseca, istigatore di tutte le ingiustizie, di tutte le iniquità che dovette patire sino alla sua morte Cristoforo Colombo.
Favorito dal re Ferdinando, don Juan de Fonseca seppe innestare nello spirito di lui la propria malevolenza. Com’è noto, il Re non aveva voluto contribuire in cosa alcuna alla scoperta, nè vi prendeva altro interesse che di trovar le miniere d’oro delle Indie, onde attingere nel tesoro della Castiglia il danaro necessario per porre ad esecuzione i suoi disegni di conquista in Europa. Ferdinando, che non sopportava facilmente la superiorità, non perdonò mai alla gloria. Il vescovo don Juan de Fonseca, e i cortigiani di questo, perocchè il favore di cui godeva gli aveva formata una corte, detestavano Colombo: molte grandi famiglie erano gelose dell’improvvisa elevazione di quello straniero. L’ordinatore generale della marina seppe giovarsi di cosiffatte disposizioni: protetto dal suo titolo di vescovo, godevasi avversare le intenzioni della Regina quando esse tornavano favorevoli a Colombo. Egli era altresì nemico di Juanoto Berardi, il ricco armatore di Siviglia, perchè Berardi, commerciante intelligente e probo, si mostrava affezionato a Colombo, e perchè, d’altronde, la vastità delle sue relazioni, il suo credito su tutte le piazze marittime, i suoi mezzi per la fornitura delle navi e delle vettovaglie obbligavano la corte ad aver ricorso a lui in tutti gli affari delle Indie. Fonseca gli faceva patire disgusti, gli suscitava difficoltà, creava ritardi, e poscia rifiutava di pagargli le forniture al prezzo convenuto: rifiutava ben anco di rimettergli i nove indiani, per la loro svegliatezza di mente stati scelti da Colombo ad essere interpreti, e che aveva fidato alle cure di Berardi, la cui puntualità eragli conosciuta. Una lettera dei Re a Juanoto, del 2 giugno, contiene la prova di questo mal procedere, e manifesta al tempo stesso una certa qual avversione per l’ammiraglio. Un altro documento, colla data del medesimo giorno, mostra che Fonseca cercava, di mandare alle Indie caravelle fornite da altri armatori, a danno di Juanoto Berardi.§ II.
Per colpa de’ malevoli impedimenti frapposti da Fonseca, le caravelle non poterono mettere alla vela che al finire d’agosto. Juan Aguado, intendente della reale cappella, ne aveva il comando.
Egli conduceva seco don Diego Colombo, che se ne tornava al fratello, alcuni Religiosi che surrogavano i disertorì dell’apostolato, e l’ingegnere delle miniere, Pablo Belvis, metallurgista molto conosciuto, seguito da diversi mastri minatori e operai fonditori, provveduti di tutti gli ordigni dell’arte loro, ed eziandio di mercurio, «per ritirar l’oro disseminato nelle sabbie col mezzo dell’amalgamazione. Ordini della corte, mentre facevan prova della sollecitudine dei Re per la salute dei loro sudditi dimoranti ad Hispaniola, mostrano anche implicitamente che le accuse fatte contro l’ammiraglio avevano prodotto impressione. Più di un mese dopo la giustificazione portata da don Diego Colombo, veniva scritto all’ammiraglio di concedere licenze di ritorno a chiunque aveva bisogno di ricondursi in Ispagna pei propri affari; e gli era prescritto di distribuire le razioni agli Spagnuoli ogni cinque giorni, senza toglierle loro disciplinarmente per qual si voglia cagione, eccettuati i. casi di delitti che meritassero la pena di morte.
Aguado aveva ricevuto nel testo della sua lettera di nomina, concepita in termini vaghi e brevi, una potestà indefinita; ma le istruzioni verbali che l’accompagnavano la ristringevano sicuramente. La Regina lo aveva nominato pensandosi con quella scelta, di temperare ciò che aveva di sgradevole il suo ufficio agli occhi dell’ammiraglio. Aguado, di cui Colombo aveva vantato l’intelligente operosità, era, infatti, di spirito sottile e molto conoscente de’ propri interessi. Durante i suoi rapporti necessari coll’ordinatore generale della marina, egli riconobbe quale influenza aveva Fonseca sul monarca, le disposizioni di questo verso l’ammiraglio, e comprese da qual lato doveva volgersi per salire: da quel punto parve aver ricevuto istruzioni opposte alle ricevute dalla Regina; e si può affermare che sbarcando, prima di prendere cognizione di verun fatto, egli metteva in esecuzione un sistema troppo contrario a’ suoi antecedenti, ed a’ suoi buoni rapporti coll’ammiraglio: sistema odioso, che il solo Fonseca era stato capace di suggerirgli.
Diretta da piloti formati da Colombo, la flottiglia giunse felicemente in ottobre al porto dell’Isabella. L’ammiraglio combatteva allora negli stati di Caonabo i fratelli del cacico che si erano ribellati. Come fosse stato egli stesso il vice re delle Indie, Aguado si arrogò tutte le giurisdizioni della colonia, intimò ai capi di servizio di non rendere conto che a lui del loro operato; ne rimproverò alcuni arditamente, e osò mandarne prigioni altri, non facendo caso di Bartolomeo Colombo, nominato dall’ammiraglio governatore della piazza, quasi non esistesse. Annunziavasi incumbenzato di giudicare la condotta dell’ammiraglio, e farne pronta giustizia.
Avendo don Bartolomeo chiesto di vedere la sua lettera credenziale, Aguado respinse con alterigia siffatta pretesa, dicendo che la mostrerebbe unicamente all’ammiraglio. Tuttavia il dì seguente la fece pubblicare a suon di trombe. Dopo di avere mortificati colla sua vanità i servi dell’ammiraglio, fulminate minacce contra di lui, e cercato di offenderlo per tutti i versi, disse che il primogenito de’ Colombo prolungava la sua assenza per ispavento, non osando comparire davanti al suo giudice; ma che saprebbe ben egli farlo venire; e pigliava uno stuolo di cavalieri per muovere incontro a lui, nel punto che Colombo, edotto dell’arrivo del commissario reale, gli fe’ sapere che tornava all’Isabella.
Quello era il momento critico. Aguado trionfava; perocchè sapeva la vivezza del carattere dell’ammiraglio, ed era anticipatamente sicuro che per tanti oltraggi, da più della pazienza umana, sarebbegli stato impossibile non uscir da’ termini della moderazione; nel qual caso non vi sarebbe stato altro da fare che compilare un processo verbale per istabilire ch’egli avea mancato di rispetto all’autorità regia. Ma quanto più l’ingiuria era forte, tanto più il servo di Dio provava un piacer segreto in fare il sacrifizio della propria volontà: egli si rassegnava alle ingiustizie con una soddisfazione, che i suoi nemici erano lungi dal sospettare; oltrechè qual cristiano, non poteva disconoscere il principio dell’autorità.
Quando, dunque, Aguado si avanzò per mostrare la sua credenziale già pubblicata, l’ammiraglio l’accolse in gran cerimonia e pompa, al suono degli strumenti: pigliò la lettera, ne fece ripetere la lettura, e, dopo di averla ascoltata, assicurò graziosamente il Commissario regio d’essere prontissimo a fare quanto gli sarebbe stato prescritto da parte de’ suoi Monarchi. A bella prima quella calma sorprese e confuse Aguado: nondimeno, siccome quel contegno lo allontanava dal suo scopo, si mise a parlare con tono arrogante, affine di provocare almeno la collera dell’ammiraglio colla sconvenienza delle sue maniere: ma, con suo grande stupore, Colombo non badò alla sua insolenza.
Confuso senza pentirsene, e confessando l’inutilità delle adoprate provocazioni, Aguado non seppe far altro che calunniare il suo antico protettore: raccolse le testimonianze della feccia dei coloni, degli infingardi, dei vili, dei soldati malcontenti che rifiutavano di lavorare ai pubblici edifizi: sapendo, dicevan essi, ch’era giunto un giovane ammiraglio il quale doveva mettere a morte il vecchio, gl’Indiani medesimi portarono lamentanze contra Colombo, lor unico difensore. Alcuni cacichi si ragunarono nella casa di Manicatex, e risolvettero di esporre i loro gravami all’inviato dei Re, riparatore de’ mali. Nel dicembre il processo compilato da Aguado era tale, Che parevagli più che sufficiente per rovinare irreparabilmente Colombo.
Divisava tornare in Ispagna, ed aveva ordinato che fossero fatti gli apparecchi della partenza, quando sul cominciare del gennaio, una di quelle tempeste sconosciute all’Europa e che non avevano nome nelle nostre lingue, ma che gli isolani chiamavano Hurracan, irruppe sull’isola. Era una di quelle convulsioni spaventevoli della natura, il cui carattere struggitore ricorda le eruzioni precedute da tremuoti. A memoria d’uomini non si udì raccontare simile perturbazione. La tromba violentissima traversò la costa nord-ovest d’Hispaniola, strappando e sradicando, com’erbe, gli alberi anco più colossali, trascinando in fondo alle acque le navi ancorate nel porto. Appena cessò quel fenomeno terribile il mare gonfiato si sollevò: i suoi flutti si rizzavano mugghianti verso il cielo oscurato; tutto ad un tratto valicarono l’eterna barriera imposta al loro furore e si rovesciarono sulle terre innondandole. Gli Spagnuoli credevano fosse la fine del mondo; gli Indiani vedevano in quel caos la punizione dei misfatti dei loro tiranni.
Passato il flagello, corsero tutti al porto. Ahime! delle qualtro caravelle di Aguado e delle tre altre che vi si trovavano all’áncora, se ne vedeva una sola... la più piccola, la più logora, la più fragile di tutte, la Nina! quella caravella che aveva soccorso l’ammiraglio nel suo naufragio della Natividad, che lo aveva ricondotto a Palos, che lo aveva poscia, sotto nome di Santa Clara, condotto ad esplorare il mare di Cuba, a scoprir la Giamaica, l’arcipelago dei Giardini della Regina, dond’era tornata crivellata, aperta, e che, minacciando di affondare nel porto, pareva condannata ad essere demolita.