Così parlò Zarathustra/Parte terza/Il ritorno
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Il ritorno.
«Oh solitudine! Oh solitudine della mia dimora! Troppo a lungo vissi quale selvaggio in paese selvaggio, e ne ritorno a te in lagrime!
Accennami pure minacciosa col dito, come sogliono fare le madri; sorridimi, come le madri sanno sorridere; dimmi pure: «E chi era colui, che un giorno come un uragano fuggì lontano da me? — e che involandosi esclamò: troppo a lungo io indugiai nella solitudine, e perciò disimparai a tacere? Ciò — l’hai tu ora appreso?
«O Zarathustra, io so tutto: so che nella moltitudine tu fosti più solo che non quand’eri a me vicino! L’abbandono è altra cosa. L’hai appreso, ora? E anche hai imparato che tra gli uomini tu sarai sempre un selvaggio, e uno straniero?
— «Selvaggio e straniero quando pure ti amassero: giacchè, anzitutto, essi vogliono indulgenza per sè stessi!
«Ma qui tu sei nella tua dimora, in casa tua: qui tu puoi dire tutto quello che pensi — tutte le tue ragioni; nulla è qui che si vergogni degli affetti intimi e forti.
«Qui tutte le cose vengono lusingatrici incontro al tuo parlare e ti tentano: giacchè esse vogliono cavalcare sulla tua groppa. Con ogni parabola tu cavalchi verso una verità.
«Diritto e franco tu puoi qui parlare a tutte le cose: e da vero è per i loro orecchi una lode questa: che qualcuno possa parlare francamente con tutte le cose!
«Ma altra cosa è l’abbandono. Ancor ricordi, Zarathustra, l’ora in cui l’uccello gridò sopra il tuo capo? quando ti trovai nel bosco presso un cadavere, irresoluto del cammino, e tu dicesti: «Possano i miei animali guidarmi! Trovai maggiori pericoli tra gli uomini che tra gli animali?». — Quello era l’abbandono!
«E ricordi, Zarathustra, il giorno che sedevi nella tua isola — quale tra secchi vuoti un pozzo di vino — donator largo e liberale al popolo assetato, sinchè rimanesti tu solo sitibondo in mezzo a tanti ebbri e affidasti alla notte il tuo lamento»: «Il prendere non è forse opera migliore del dare? E il rubare cosa migliore del prendere?». — Quello era l’abbandono!
«E ricordi, Zarathustra, l’ora tua più silenziosa? quando tentando cacciarti lontano da te stesso, con un bisbiglio maligno ti disse: «Parla e infrangiti!»; — quando ti fece pentire del tuo aspettare e del tuo tacere e sconsolò il tuo animo umiliato? — Quello era l’abbandono!».
«Oh, solitudine! Oh solitudine della mia dimora! Quanto beatamente e teneramente tu parli a me!
Noi nulla ci domandiamo; noi non ci narriamo i nostri affanni; noi passiamo insieme palesemente in mezzo alle porte aperte.
Giacchè in te tutto è aperto e chiaro; persin le ore qui scorrono su piedi più leggeri. Poichè nella oscurità men rapido il tempo trasvola che nella luce.
Qui mi si dischiudono tutte le parole e tutti gli scrigni delle parole dell’essere: tutto ciò ch’esiste qui vuol esprimersi in parole, ogni cosa che sorge vuol qui apprendere da me a parlare. Ma laggiù ogni favella è vana! Laggiù dimenticare e passar oltre è la migliore sapienza: ciò io ormai ho appreso!
Chi volesse comprendere tutto quello che è umano dovrebbe toccare ogni cosa. Ma per far ciò io ho le mani troppo pulite.
Persino l’alito degli uomini io non posso più tollerare; ahi, misero me, che dovetti vivere così a lungo in mezzo al loro strepito e al loro alito putrido!
Oh beato silenzio, che mi circondi! Oh soavi effluvi! Oh come questa solitudine respira pure da petto profondo! Oh com’essa sta in ascolto, la quiete beata!
Ma laggiù — tutti parlano, e nessuno ascolta. Si gridi la propria sapienza a suon di campane: i merciai della fiera ne vinceranno il fragore col tintinnio delle lor monete!
Tutti parlano, ma nessuno sa più comprendere. Tutto cade nell’acqua, ma nulla nei pozzi profondi.
Tutti cianciugliano, ma nessuna cosa giunge a compimento. Tutti chiocciano, ma chi s’accontenta al suo nido?
Tutti parlano, ma di tutto parlano male. E ciò che un giorno era ancor troppo acerbo per il tempo e per il dente dell’uomo pende tarlato e rosicchiato ora dalla bocca dei moderni.
Tutti parlano: ogni più intima cosa si disvela. E quello che una volta era mistero e segreto delle anime profonde, oggi appartiene ai trombettieri della pubblica vita.
Oh specie umana, quanto sei singolare! Tu strepiti per le vie oscure! Ora sei di nuovo dietro a me: il più grande pericolo è superato.
Nell’indulgenza e nella compassione si celò sempre il più gran pericolo; ogni essere umano vuole indulgenza e compassione.
Con verità nascoste, con folli mani e con cuore ricco delle piccole menzogne della pietà io sempre vissi tra gli uomini.
Io sedetti travestito in mezzo a loro, pronto a rinnegare me stesso per poter tollerare gli altri, volentieri persuaso di non conoscere gli uomini.
Ma quando si vive tra gli uomini s’impara a sprezzar l’uomo: troppo in tutti abbonda il superficiale — a che giovano dunque gli occhi che vedono lontano, che cercano ciò che è profondo?
E quando m’ebbero disconosciuto, io usai verso di loro maggior indulgenza che verso me stesso; avvezzo com’era alla durezza contro me stesso, e a vendicarmi talora con me della mia indulgenza.
Tutto punzecchiato dalle mosche velenose, corroso come una pietra dalle innumerevoli goccie della malvagità, tale io sedeva tra loro e cercava di persuadermi che ciò che è piccolo non aveva colpa della propria piccolezza!
Sopra tutto in coloro che si chiamano i «buoni», io trovai acre il veleno: essi mi pungevano ingenuamente, e ingenuamente mentivano: come potevano esser giusti verso di me?
Chi dimora tra i buoni, impara a mentire per pietà. La compassione rende l’aria afosa per tutte le anime libere. Poi che la stoltezza dei buoni è senza fondo.
Nasconder me stesso e la mia ricchezza — questo imparai laggiù: giacchè, trovai poveri di spirito tutti. Questa era la menzogna della mia compassione, chè io sapeva la verità sul conto d’ognuno — e con l’occhio e con l’odorato io distingueva ciò che per ciascuno era spirito sufficiente da ciò ch’era spirito soverchio!
I loro rigidi saggi, io li chiamai sapienti ma non già rigidi — così imparai a inghiottir le parole. I loro becchini, io li chiamai investigatori e sperimentatori — così imparai a scambiare le parole. Ai becchini procaccia malattie lo scavar le fosse. Sotto le antiche macerie s’accumulano i miasmi. Non bisogna sconvolgere le paludi: bisogna vivere sui monti.
Ora con ebbre narici io respiro un’altra volta la pura aria dei monti! Liberato è finalmente il mio naso dall’odore degli esseri umani!
Solleticata dall’aria frizzante, come da un vino che spumeggia, la mia anima sternuta — sternuta e augura a sè stessa: felicità!».
Così parlò Zarathustra.