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176 così parlò zarathustra — parte terza

nel bosco presso un cadavere, irresoluto del cammino, e tu dicesti: «Possano i miei animali guidarmi! Trovai maggiori pericoli tra gli uomini che tra gli animali?». — Quello era l’abbandono!

«E ricordi, Zarathustra, il giorno che sedevi nella tua isola — quale tra secchi vuoti un pozzo di vino — donator largo e liberale al popolo assetato, sinchè rimanesti tu solo sitibondo in mezzo a tanti ebbri e affidasti alla notte il tuo lamento»: «Il prendere non è forse opera migliore del dare? E il rubare cosa migliore del prendere?». — Quello era l’abbandono!

«E ricordi, Zarathustra, l’ora tua più silenziosa? quando tentando cacciarti lontano da te stesso, con un bisbiglio maligno ti disse: «Parla e infrangiti!»; — quando ti fece pentire del tuo aspettare e del tuo tacere e sconsolò il tuo animo umiliato? — Quello era l’abbandono!».

«Oh, solitudine! Oh solitudine della mia dimora! Quanto beatamente e teneramente tu parli a me!

Noi nulla ci domandiamo; noi non ci narriamo i nostri affanni; noi passiamo insieme palesemente in mezzo alle porte aperte.

Giacchè in te tutto è aperto e chiaro; persin le ore qui scorrono su piedi più leggeri. Poichè nella oscurità men rapido il tempo trasvola che nella luce.

Qui mi si dischiudono tutte le parole e tutti gli scrigni delle parole dell’essere: tutto ciò ch’esiste qui vuol esprimersi in parole, ogni cosa che sorge vuol qui apprendere da me a parlare. Ma laggiù ogni favella è vana! Laggiù dimenticare e passar oltre è la migliore sapienza: ciò io ormai ho appreso!

Chi volesse comprendere tutto quello che è umano dovrebbe toccare ogni cosa. Ma per far ciò io ho le mani troppo pulite.

Persino l’alito degli uomini io non posso più tollerare; ahi, misero me, che dovetti vivere così a lungo in mezzo al loro strepito e al loro alito putrido!

Oh beato silenzio, che mi circondi! Oh soavi effluvi! Oh come questa solitudine respira pure da petto profondo! Oh com’essa sta in ascolto, la quiete beata!