Così parlò Zarathustra/Parte quarta/Il risveglio
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Il risveglio.
1.
Poi che la canzone del viandante-ombra ebbe, termine, la caverna subitamente si riempì di strepito e di riso; e come tutti gli ospiti ivi raccolti parlavano nello stesso tempo, e l’asino stesso incoraggiato da quel chiasso non potè contenersi più a lungo, Zarathustra ebbe un moto di fastidio per i suoi visitatori: benchè fosse lieto della loro allegria. Giacchè questa gli sembrava un indizio di guarigione. Ma ne approfittò per uscire all’aperto dove così parlò ai suoi animali:
«Dove è fuggita la loro tristezza?», disse sentendo vanire a poco a poco la sua nausea — «in casa mia, mi pare, hanno disappresa l’arte d’invocar aiuto!
— Se bene, purtroppo, non hanno smesso di gridare». E Zarathustra si turò le orecchie, poi che in quel momento stesso si sentiva l’I-A dell’asino stranamente mescolarsi alle grida festose di quegli uomini superiori.
«Essi son lieti, e, chi lo sa? forse a spese del loro ospite; pure se da me appresero il riso, non è già questo il riso mio.
Ma che importa? Sono gente vecchia: risanano e ridono a loro modo: i miei orecchi hanno inteso — senza che tuttavia io ne provassi dispetto — cose assai più vili!
Questo è giorno di vittoria: già s’arretra, già fugge lo spirito della pesantezza — il mio vecchio acerrimo nemico!
Come lieta si annunzia la fine di questa giornata che incominciò con tristi auspici!
Essa vuole finire. Già scende la sera: giunge a noi cavalcando d’oltre mare, la forte cavalcatrice! Come si culla beata, nel ritorno verso casa, su la sua sella di porpora!
Il cielo la guarda col suo limpido occhio: il mondo si giace nella sua profondità: o voi tutti, esseri bizzarri, che siete venuti a cercarmi, vedrete che presso di me mette conto di vivere!».
Così parlò Zarathustra. E di nuovo le risa e le grida degli uomini superiori convenuti nella caverna risuonarono a’ suoi orecchi. Ed egli riprese a parlare così:
«Essi abboccano all’amo: la mia esca si palesa efficace: anche da loro s’allontana il nemico — lo spirito della pesantezza. Già apprendono a ridere di sè stessi, se io non m’inganno! Il mio cibo dator di vigore e le mie forti sentenze non riescono inefficaci: e, invero, non di legumi che gonfiano io li nutrii, bensì dei cibi che si convengono ai guerrieri, ai conquistatori: nuove brame io destai in essi.
Nuove speranze agitano loro le braccia e le gambe, e il loro cuore si allarga. Essi inventano nuove parole: in breve il loro spirito diverrà temerario.
Un tale cibo non è certo adatto ai bambini, nè alle donne cupide, giovani o vecchie. Per le viscere di costoro altri argomenti son necessarii: ma io non sono nè il loro medico nè il lor maestro.
Intanto io li liberai dalla nausea: questa è la mia vittoria! Nei miei dominii essi trovano ora la sicurezza, e lasciano ogni falso pudore.
Possono aprire il lor cuore: per essi le ore scorrono beate e gioiose: essi ruminano, e diventano riconoscenti.
Questo io accetto per mio migliore augurio: non passerà molto tempo, ed’essi inventeranno nuove feste e innalzeranno monumenti alle loro antiche gioie.
Sono convalescenti!».
Così parlò Zarathustra con lieto cuore; e guardò dinanzi a sè; ma i suoi animali gli si strinsero da presso e rispettarono silenziosi la sua felicità.
2.
Ma improvvisamente Zarathustra provò sgomento poi che la caverna che prima risuonava di strepiti e di risa s’era fatta a un tratto muta come una tomba; — e ne usciva odor di fumo e di incenso, come di pigne che vi bruciassero.
«Che cosa avviene? Che stanno facendo?», chiese; e si appressò cautamente alla porta della caverna per poter osservare, non visto, i suoi ospiti. Ma, oh prodigio! Che cosa dovette vedere coi proprii occhi?
«Essi son divenuti tutti pii, essi pregano, essi son matti!» — esclamò meravigliato. E, in fatti, tutti quegli uomini superiori — i due re, il papa, il cattivo mago, il mendicante volontario, il viandante-ombra, il vecchio indovino, il coscienzioso dello spirito e il più brutto degli uomini — tutti, al pari di bambini o di vecchie donnicciuole, inginocchiati, adoravano l’asino. E appunto allora il più brutto degli uomini cominciava a gorgogliare come se alcunché di inesprimibile fosse per uscirgli dalla strozza; ma quando finalmente riuscì a parlare, le sue parole composero una strana e pia omelia in onor dell’asino adorato e incensato. E l’omelia suonava così:
Amen! E lode e onore e sapienza e riconoscenza e pregio e forza al nostro Dio, in eterno!
— E l’asino intuonò il suo I-A.
Egli porta il nostro peso, egli veste le spoglie dello schiavo, egli è paziente di cuore e non dice mai no; e chi ama il suo Dio deve castigarlo.
— E l’asino ripetè il suo I-A.
Egli non parla, se non in quanto dice sempre sì al mondo ch’egli creò: così egli esalta il suo mondo. La sua astuzia consiste nel non parlare: in tal modo ben di rado gli si può dar torto.
— E l’asino ripetè il suo I-A.
Senza pompa egli passa nel mondo. Il suo colore preferito è il grigio, e in esso avvolge la sua virtù: se ha spirito, lo nasconde: ma tutti credono alle sue orecchie lunghe.
— E l’asino ripetè il suo I-A.
Quanta saggezza ei ripone nelle sue lunghe orecchie e nel suo dir sempre sì e mai no! Non ha egli forse creato il mondo a sua imagine, cioè quanto gli fu possibile più sciocco?
— E l’asino ripetè il suo I-A.
Tu vai per i sentieri diritti e per le vie torte, e poco t’importa ciò che agli uomini sembri diritto e ciò che storto. Di là dal bene e dal male è il tuo regno. La tua innocenza è nell’ignorare che cosa l’innocenza si sia.
— E l’asino ripetè il suo I-A.
Tu non respingi da te nessuno; nè i re, nè i pezzenti. Tu chiami a te i pargoli, e se i ragazzacci ti stuzzicano, tu rispondi col tuo semplice I-A.
— E l’asino ripetè il suo I-A.
Tu vai pazzo per le asine e per i fichi freschi, nè, quanto al cibo, sei schizzinoso. Un cardo ti fa palpitare il cuore, quando senti appetito. In ciò si rivela la saggezza di un Dio.
— E l’asino ripetè il suo I-A.