Corto viaggio sentimentale e altri racconti inediti/Prefazione
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PREFAZIONE
Il primo romanzo, Una vita, era uscito nel 1892; il secondo, Senilità, sei anni piú tardi. James Joyce, quand’era a Trieste nei primi anni del secolo, li lesse e ne ricavò un’impressione cosí favorevole che a scolari e conoscenti parlava di Svevo come d’un grande romanziere. La sua voce peraltro non riscosse credito alcuno e fu soltanto nel 1926, dopo la pubblicazione di La coscienza di Zeno, avvenuta tre anni prima, e dopo l’acuto studio critico di Montale su L’Esame, che Valéry Larbaud e Benjamin Cremieux riuscirono ad imporre l’arte di Italo Svevo all’attenzione del pubblico europeo. Né a questo primo omaggio rimase estraneo l’intervento del Joyce che aveva ammirato in Zeno il capolavoro di un maestro tra i piú notevoli della letteratura moderna: intervento testificato dalle lettere dei primi mesi del 1924 dello scrittore irlandese, che si possono ora leggere nel primo fascicolo del 1949 della rivista Inventario. Da allora intorno al nome di Svevo, da tanto tempo misconosciuto, andò sviluppandosi una notorietà sempre maggiore. Alle traduzioni in Francia nel 1926, tennero dietro quelle in Germania e Spagna nel 1927, in Svizzera nel 1928, in Inghilterra nel 1929, in America e Romania nel 1930, e via di seguito. L’accoglienza ai suoi romanzi e ai suoi racconti non trovava piú riserve né confini.
Quali furono le ragioni per cui l’opera di Svevo rimase per sí lungo periodo negletta e ignorata? Non è facile, purtroppo, reperirle né in sede storica né in sede critica, e il fenomeno può forse spiegarsi soltanto con la singolarità bizzarra della fortuna artistica. Per certo un’Italia che, dopo la rivolta della Scapigliatura, la quale aveva ormai disgregato la struttura del romanzo e voltato la prosa a un testo impressionistico (Emilio Praga o Iginio Ugo Tarchetti), si era esaltata per il sontuoso quanto splendente estetismo dannunziano; un’Italia che tentava le sue prove piú impegnate nella prosa poetica (i Pesci rossi di Emilio Cecchi uscirono a stampa nel 1920); un’Italia, ancora, i cui interessi letterari, e per nulla ingiustamente in vero dire, erano protesi a conquistarsi nella prosa uno stile illustre da contrapporre al pericolo d’un decadimento crepuscolare, squallido, puramente musicale o troppo positivisticamente vistoso; un’Italia, per di piú, dove andava facendosi strada un lirismo che fosse glorioso e insospettabile per rifiuto di titoli contenutistici o accademici; un’Italia, infine, che è sempre stata “la patria di una letteratura altamente letteraria”, non poteva accorgersi d’uno Svevo che pareva contrastare a questi postulati con un verismo forse troppo crudele e con una analisi psicologica troppo minuta. Svevo, dalla sua isolata Trieste, era molto lontano da quella difficile purezza che i letterati italiani intendevano raggiungere attraverso una coscienza critica coltissima, come era lontano da ogni condizione sperimentale. L’opera sua non può risentire di quei fondamenti programmatici perché la sua formazione non li conobbe, né li ricercò. La sua educazione si formò, disordinatamente, nelle letture di Jean Paul, Turgheniev, Schiller, Goethe, Shakespeare, Flaubert, Daudet, Zola, Balzac, Stendhal, Renan, Schopenhauer, Ibsen, Dostoievskij, Tolstoi. Tutta l’arte che si sviluppa a Trieste è del resto periferica ai grandi movimenti della cultura italiana, benché in questa medesima cultura si inserisca.
D’altra parte, però, rispetto allo spirito letterario che allora andava gradatamente impadronendosi dell’Italia, c’era stato, nel primo ventennio del secolo, un forte interesse introspettivo, critico, analitico, riportato poi nell’autobiografismo controllato e nella confessione riflessiva dei “frammentisti", i quali stanno a documentare proprio per questo, oltre la volontà di rifiutare la cultura e la rettorica, anche un profondo compiacimento per l’interiorità. Ora, quello che isola Svevo dalla cultura letteraria piú diffusa e accreditata nell’Italia a lui con temporanea è per l’appunto l’ignoranza di una forma colta, la rinunzia a rendere illustre la sua prosa, a far della letteratura una professione, mentre vi rimane legato per il bisogno dell’analisi interiore e del controllo critico, per certo gusto della forma autobiografica e per certo piacere dell’intelligenza. In sostanza Svevo aveva avvertito e fatti suoi vari movimenti che allora agitavano la cultura europea, cosí che fu in effetti un precursore per molta letteratura. È veramente singolare che dopo lo scalpore suscitato dal Rubè di Borgese, apparso nel 1921, tanti critici e studiosi e tanto pubblico siano passati indifferenti davanti a La coscienza di Zeno. La simiglianza di certi elementi morali e patologici, di certe oscillazioni e afflizioni dello spirito umano, di certa ricerca d’equilibrio tra la vita propria e quella altrui, di certe tormentose crisi di coscienza (pongo deliberatamente l’accento soltanto su un banale clima di contenuti, come quello destinato a piú facili consensi), doveva pur indurre a una disposizione favorevole per accogliere e studiare i romanzi di Svevo, di ben maggiore qualità.
Ma non indaghiamo oltre le ragioni che hanno valso a Svevo sí poca fortuna. La sua figura grandeggia nella letteratura europea a dispetto di tutti coloro che non seppero tempestivamente riconoscerne il valore e che ancora oggi ne parlano in termini generici. Perché, ecco, io non vorrei che il suo valore fosse unicamente fondato sul fatto che fu il precursore del romanzo cosí detto psicanalitico e che adottò quel modo di analisi che vent’anni piú tardi doveva formare la sostanza ammiratissima di Proust. Certe priorità se valgono qualcosa in sede storica (val la pena, per la cronaca, di ricordare che Svevo approfondí Freud nel 1918, dopo averlo letto circa dieci anni prima, e che si accostò alle opere di Proust appena nel 1926), scarso valore possono dimostrare in sede estetica. Né amerei che si insistesse troppo preferenzialmente su questioni di contenuto, su quei termini etici e spirituali cioè che egli approfondisce nei suoi scritti e di cui formano materia. È vero: per Svevo lo scrivere era un processo istintivo di chiarificazione della coscienza. Il dramma si racchiude nell’inquietudine attiva provocata da necessità di rappresentazione e da bisogni riflessivi. Ogni incontro con la realtà suscita in lui, al di là di qualsiasi abitudine letteraria, una visione di rapporti che argina il progredire del racconto nel momento stesso in cui arricchisce l’avidità della coscienza. Lo sforzo di Svevo consiste per l’appunto nella concretezza narrativa delle sue rappresentazioni: non esiste nelle sue pagine un gesto inutile, un caso insoddisfatto. Gesto, paesaggio, ambiente, oggetto, ogni cosa ha valore rivelatore e determinante: è una funzione psicologica. C’è tutto un organismo di movimenti, strutture, con versioni, riprese, arresti che compongono un ritmo di scoperte e di innesti in cui si esaurisce il desiderio d’un possesso totale e immediato della verità conclusa. Ogni relazione ha le sue conseguenze e tutto il peso del difetto di libertà in cui vengono a trovarsi gli individui si risolve, di volta in volta, in una presentazione della loro impossibilità di separarsi. In ogni punto l’intelligenza che formula un giudizio si allaccia immediatamente col soccorso della fantasia che promuove la liberazione in figura.
Qui è la sua grandezza come scrittore: nel tradurre lo sforzo di indagine e la confessione dei suoi problemi in un’espressione che ne segue e precisa di continuo le alternative e la lotta. La difficoltà d’una certezza assoluta, l’aspirazione a scoprire il meccanismo della vita, l’angoscia per l’irrimediabile incapacità di raggiungere questo fine pur attraverso il sondaggio delle piú svariate esperienze, le sconfitte patite e irrise, non potevano corrispondere a una forma florida e tranquilla. La medesima difficoltà che Svevo incontrava nell’ansia di penetrare i termini ultimi si riflette nella sua narrazione. Avesse avuto la grazia del bello scrivere, si sarebbe soddisfatto in una regola descrittiva o illustrattiva. Ecco: la critica moderna, pur tanto esperta nei fatti del linguaggio, non ha ancora approfondito a sufficienza le piú vere ragioni dell’eminente qualità artistica dell’opera di Svevo. Svevo si crea il suo linguaggio, come ogni vero artista, e lo fa con accanimento pari all’intensità con cui segue gli abbandoni della sua mente e della sua osservazione. C’è interdipendenza quasi perfetta tra le condizioni del fatto propriamente letterario e quelle della sollecitazione creativa: c’è unità artistica insomma. Quando gli si rimprovera una certa trascuratezza di stile, si confonde lo stile — forma propria, unica e irripetibile — con la lingua — modulo fisso e abitudinario, immobile e per nulla creativo. Cosa importa se Svevo fu povero e inesperto in questo senso, quando seppe crearsi un linguaggio suo particolare, sia pur attingendo, come fece il Verga, a forme idiomatiche? Il compenso dell’inesperienza linguistica e delle improprietà lessicali e sintattiche bisogna saperlo individuare nella novità verbale e prosodica di quella che è la sua forma autosufficiente, e che porta in sé i segni di tutto il suo tormento spirituale e umano. Anche certi pittori del tempo, se giudicati con i canoni accademici e scolastici, risultano incomprensibili. Senza per questo voler fare dei raffronti, ma a puro titolo d’esempio, chi capirebbe il Doganiere Rousseau secondo lo spirito degli accademici?
Renato Poggioli, nella prefazione all’edizione americana di La coscienza di Zeno, nega peraltro che l’italiano di Svevo sia influenzato dal dialetto locale come quello di Verga, e lo definisce piuttosto una specie di esperanto italico o di italiano-pidgin. Bisogna tener presente ad ogni modo che se il triestino è una variante del dialetto veneziano, in esso concorrono però influenze di lingue straniere diverse, quali il tedesco e lo slavo in massima parte. È giusto invece quanto ebbe a sostenere il poeta Umberto Saba e precisamente che Svevo avrebbe potuto scrivere ugualmente bene in tedesco come in italiano. Ma le ragioni per cui scelse l’italiano sono precisate dal Poggioli quando deduce che l’italianismo di Svevo è un caso sociale e psicologico piuttosto che culturale e letterario. Tant’è vero che lo scrittore triestino è uno dei pochi romanzieri italiani che abbiano raggiunto, benché tardi, rinomanza e prestigio europei, e che soltanto menti critiche aperte e cosmopolite ne hanno tempestivamente avvertito il valore.
Sotto questo aspetto l’opera di Italo Svevo, piú che nella celebrata Senilità, ancora allettata da certe pretese grazie letterarie, prende rilievo negli altri lavori, da La coscienza di Zeno in poi, in taluni racconti, tra i quali diversi di questi qui per la prima volta raccolti in volume, dove a una fantasia analitica spesso descrittiva si va sostituendo un a frequenza di scandagli intimi, tali da conferire al linguaggio un’evidenza meno fragile e piú rigorosa. Se in un primo tempo poté esserci in Svevo il desiderio di una bella scrittura, in seguito la sua preoccupazione fu quella di rendere nella parola la mediazione pronta dello slancio mentale. L’arte di Svevo non cercava compromessi formali, non stava impegnata nell’amplificare la parola, nel raffinare lo stile attraverso preziosismi linguistici, bensí, al di là di ogni rettorica di gusto, sentiva il dovere di caricare il linguaggio mediante le relazioni che esso può stabilire con l’idea. Perciò egli rifiuta ogni lirismo e si forma un ritmo e un tempo di narrazione. Proprio il trattamento del tempo interessò molto Joyce durante la lettura di La coscienza di Zeno. Poche volte, come nel caso di Svevo, apparentemente tanto imperfetto e impreparato, la prosa fu offerta e trasmissione di un’idea collegante.
I racconti che qui si pubblicano sono stati raccolti tra le carte sparse dello scrittore e costituiscono tutto quanto egli ha lasciato di genere narrativo. Purtroppo molte cose sono interrotte o incompiute, ma il lettore saprà apprezzarle ugualmente poiché non sono “frammenti”, bensí brani narrativi di grande intensità. Ritengo che la maggior parte sia stata concepita durante quel periodo in cui l’incipiente successo letterario aveva dato nuova fiducia alla sua vocazione troppo delusa, mentre altri saranno stati composti via via negli anni della sua vita. Poiché se è vero che nel dicembre del 1902 confessava di aver già eliminato dalla sua vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura, penso che mai abbia rinunciato del tutto a coltivare la sua piú vera passione e che sempre abbia seguito quella regola che si era imposta e per cui “non c’è miglior via per arrivare a scrivere sul serio che quella di scribacchiare giornalmente”. Il gran numero di pagine lasciate ne può essere convincente conferma.
Molti dei motivi dominanti nelle sue narrazioni si ritrovano con frequenza in questi inediti: sopra tutto il tema della senilità, intesa sí, secondo il Poggioli, “come seconda natura, come vocazione”, ma spesso rappresentata anche come stato fisico, come approssimarsi alla morte. C’è molto spesso e molto forte un interesse preciso alla malattia e alla morte. Tutto il suo mondo di ingenuità negli affari, di affetti e di contrasti domestici, di attente analisi psicologiche affiora da queste pagine con un’evidenza quanto mai viva e pungente. I casi della sua vita gli forniscono soggetti, personaggi, paesaggi, temi, e cosí via, ma su tutto passa l’impronta dell’arte, e ogni brutalità autobiografica si purifica in un interesse nuovo di narrazione. Taluni racconti, poi, svelano una ricchezza d’intreccio, una libertà di movimenti, un processo cosí intenso delle sollecitazioni narrative, da poterli senz’altro classificare tra le cose migliori di lui: Corto viaggio sentimentale, Proditoriamente, La morte, Le confessioni del vegliardo, Umbertino, Il mio ozio, Un contratto. In questi casi, dentro una distensione narrativa piuttosto singolare, dentro cioè un nodo compositivo spesso distratto, com’era nella sua natura di scrittore, si avvicendano motivi schiettamente rappresentativi e motivi tipicamente riflessivi: il tutto costretto in un’armonia analitica ricca di aperture e di conflitti. Sicché questi racconti vivono uno stato di inquietudine e suggeriscono, via via che li scoprono, avvertimenti e persuasioni. Il gran gioco è proprio in simile impegno che accetta, anzi che non si fa scrupolo di accompagnare l’intervento di un moto di pensiero. Persino i dati di un invito filosofico sono chiaramente espressi: ed è una parentesi che dà poi nuovo vigore alla ripresa del racconto, quasi in esso fosse trasferito, con urgente lucidità, un conflitto tra risoluzioni sopravvenute dalla vita, dalla cronaca esistenziale, e risoluzioni imposte dalla fantasia. Di qui un diffondersi di immagini, il realizzarsi, ma senza confusione, di una libertà e scioltezza inventive ed interpretative cui non è concesso rifiutare qualche sospensione nel momento che determina precise conseguenze. Cosí il dramma, con il sussidio permanente di una slargata sensibilità, non può incalzare, anzi, rimane costante, senza acme, fermo, con una durata fissa pur nei suoi arditi trapassi. Figure e presenze riflessive sono trasferite entro uno scandaglio non mai occultato, dal quale appunto prende forza il linguaggio cosí poco virtuoso di Svevo.
Ecco un punto quanto mai interessante e non ancora sufficientemente approfondito dalla critica nei riguardi dell’opera di Italo Svevo. Non s’è considerato cioè quanto questo linguaggio aderisca al fatto creativo. S’è parlato di una “irrequietudine dello stile” di Svevo, e s’è detto giusto, nel senso che esso corrisponde ad una inquietudine creativa, nel senso che al sorgere di esso precede una trama d’investita intimità: di affetti e di ricordi. Per questo lo stile di Svevo ha una misura e una durata sua: non importano le imperfezioni perché non sono insufficienze artistiche. Tant’è avventurosa l’origine del suo narrare, tanto sostanziale è il raccordo del suo stile.
La storia del signor Aghios è la storia di una vita accettata nel piú ricco complesso d’esperienze meglio che nei termini delle sue formazioni. Aghios è il fratello, minore se vogliamo, di Zeno: l’ansia di questo continua in quello; ambedue tendono a ricuperare nei loro affanni e nella loro ironica saggezza la situazione infinita dell’esistenza umana. Felicita di Il mio ozio è sorella della Carla di Zeno e della protagonista di La novella del buon vecchio e della bella fanciulla. Altri riferimenti potremmo segnare. Ma è meglio lasciare al lettore il godimento di queste pagine, sempre calde di vita e di sincerità: e il godimento sarà tanto maggiore quanto meglio avrà compreso con quale disposizione deve leggerle per penetrare la struttura di questi racconti e del loro stile, senza equivocare sul fatto inconcludente di una lingua, alla quale soltanto i pedanti grammatici possono essere avversi.
I testi riproducono con quasi assoluta fedeltà i manoscritti. Non si sono infatti apportate varianti essenziali, ben sapendo quanto inopportuno sia l’intervento di estranei nell’opera di un artista. D’altra parte Svevo non volle accettare correzioni di sorta e persino i ritocchi meramente formali della seconda edizione di Senilità (che diedero argomento per un articolo di Giacomo Devoto, non sempre favorevole alle soluzioni adottate) egli li subí piú per compiacenza verso un amico che per intima persuasione: cosicché di molti non si può nemmeno ritenerlo responsabile.
Qualche variante si è resa indispensabile (nel complesso numerabile sulle dita) per una piú spedita lettura e si riferisce quasi sempre a sviste non eliminate perché i manoscritti non furono sottoposti a revisione. Si è soltanto avuto cura di introdurre la punteggiatura, quasi sempre insufficiente nell’originale. Altre osservazioni utili sono state riportate nelle note, dove si è pure segnalata, quando risultava, la data di composizione dei singoli scritti.
Nella Appendice prima si sono compresi brevi frammenti e brevi pagine di racconti, mentre le diverse stesure ritrovate di uno stesso racconto o le pagine sparse che ad esso in qualche modo si riferiscono si sono riunite nella Appendice seconda.
Per il resto ci si affida all’intelligenza del lettore e del critico, affinché Italo Svevo sia riconosciuto uno dei massimi scrittori europei, proprio attraverso queste pagine ancora grezze, ma piene del calore che le dettò.
Umbro Apollonio