Corto viaggio sentimentale e altri racconti inediti/La morte
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LA MORTE
Roberto sentí che la moglie aveva bisogno di conforto. Avevano ora finito di mangiare e Roberto macchinalmente s’era seduto sulla sua poltrona ove passava di solito una mezz’ora col suo giornale. Poi vedendo che la moglie restava seduta al tavolo incerta di quello che avrebbe dovuto fare, lasciata improvvisamente tanto inerte dopo una giornata di lavoro intenso intorno ai bagagli della figliuola e in compagnia dei due giovini, lasciò cadere il giornale sulle ginocchia e la guardò. Ecco che ora la sua compagna aveva bisogno della sua compagnia, per la prima volta dopo tanto tempo. La scoperse invecchiata. I suoi capelli ch’erano stati biondi e che tutti ora vedevano quasi bianchi meno lui che continuava a vederci la luce che c’era stata, era la parte della testa illuminata fortemente dalla lampada in alto meglio rivolta a lui. Quando le parlò essa lo guardò con un mite, debole sorriso. “Molto vecchia” pensò con uno stringimento di cuore, lui ch’era tanto piú vecchio di lei. Anche la faccia bianca dal colore roseo s’era intonata altra volta ai capelli lucenti e neppure ora c’era stonazione perché sotto i capelli bianchi appariva piú conforme la bianca faccia contusa dal tempo, le linee meno pure, il color roseo delle guancie divenuto meno esteso perché illividito fuori che sulle guancie propriamente dette.
Nel suo sforzo di distrarla si fece molto chiacchierino e fu senz’intenzione ch’egli finí col parlare di tutto il loro passato, dai giorni in cui egli con tanto sforzo era riuscito a conquistarla. Lo condusse su quella via il bisogno di trovare un argomento. Essa stava a sentirlo subito interessata. Ne avevano parlato molte altre volte ma il passato è sempre nuovo: Come la vita procede esso si muta perché risalgono a galla delle parti che parevano sprofondate nell’oblio mentre altre scompaiono perché oramai poco importanti. Il presente dirige il passato come un direttore d’orchestra i suoi suonatori. Gli occorrono questi o quei suoni, non altri. E perciò il passato sembra ora tanto lungo ed ora tanto breve. Risuona o ammutolisce. Nel presente riverbera solo quella parte ch’è richiamata per illuminarlo o per offuscarlo. Poi si ricorderà con intensità piuttosto il ricordo dolce e il rimpianto che il nuovo avvenimento.
Essa stette a sentire sorpresa. Parlava ora di religione, della loro religione che aveva ritardato, anzi minacciato d’impedire la loro unione. Egli le ricordò che aveva promesso di rispettare e conservare la sua fede. Con poco rispetto – pareva che oramai la sua promessa non avesse piú importanza oramai che essi erano vecchi e che ambedue i loro figliuoli per la prima volta avevano abbandonato, indipendenti, la casa paterna – parlò della religione. «La religione adobbava la donna desiderata. Non attizzava forse il desiderio il tempio di Vesta, lo ricordi?»
Certo essa era stata tolta alla sua solitudine. Se questo era lo scopo del lungo discorso, era stato raggiunto interamente. Anch’essa sorridendo raccontò: A vent’anni lo aveva accolto con una grande speranza, quella di convertirlo. E sorrise della propria ingenuità. Era dunque vero che tutto quello che avrebbe dovuto dividerli li aveva riuniti. Lui le corse dietro per distruggere la legge di Vesta e lei lo accolse per fare l’atto di proselitismo cui era stata preparata. Ma avevano percorso facilmente insieme il lungo cammino: Ecco che ora il figliuolo era ateo e la figliuola religiosa. Si rispettavano e viaggiavano insieme. Poi ebbe una parola ch’egli ricercò e volle per abbellire il proprio discorso ma che fu meno dolce a Teresa: Eternamente forse la mitologia resterà la sorte della donna.
Poi, accorgendosi di averla ferita, cercò il balsamo: C’era la morte a questo mondo e solo i forti potevano affrontarla. Per le donne la lotta era priva di speranza se la religione non le soccorreva.
«È vero» disse lei convinta della propria debolezza. Eppoi, piena di commozione, fece per la prima volta la confessione come le era stato possibile di vivere senza spavento accanto a lui ateo: «Io pregai sempre anche per te, soprattutto per te. E adesso ho da pregare di piú ancora, per te e per il nostro figliuolo che non vuole pregare».
Egli scherzò: «Perciò il lunedí quasi sempre ho male di testa. Ricordi la domenica a Dio la mia esistenza ed egli si ricorda di mandarmi la punizione che merito».
Essa non protestò ma girò ancora una volta la vite dell’elettricità per avere maggior luce.
Ed egli volle dimostrarle che anche lui, a modo suo, aveva pensato a lei: Era per lei ch’egli costantemente si preparava alla morte. Era presumibile ch’egli l’avrebbe preceduta. Doveva servirle d’esempio. Non sempre la religione serviva a dare coraggio. E le raccontò del grande poeta spagnuolo, l’uomo piú religioso che mai avesse maneggiata la penna, come per morire avesse pianto e pregato per interi otto giorni e avesse convertito in altrettante cappelle tutte le stanze del suo palazzo. E non mica per morire tranquillo ma tentando di mutare il destino e continuare a vivere. Perciò anche al religioso occorre l’esempio del coraggio e della rassegnazione. E alla prova per quel momento egli s’era sempre dedicato, ogni giorno.
E quando essa si sorprese all’apprendere ch’egli anche nella salute piú perfetta avesse pensato alla morte, egli esclamò: «Ma se è proprio quello il momento di pensare alla morte». Perché il pensiero alla morte dev’essere quello dell’uomo sano. Vivo e forte doveva essere quel pensiero. Non malato. E si confessò ancora. Bisognava dire di cose importanti ed egli pur di distrarla denudò l’animo suo e proprio quella parte che anche accanto a lei aveva tenuta celata per sí lungo tempo: «Strano, nevvero che io ti sia apparso tanto lieto sempre e che pure di sotto a quella lietezza ci sia stato sempre il pensiero della morte. Forse era anzi da essa ch’io traevo il mio sorriso. Voglio dire che quando arrivavo a sorridere di lui, potevo poi sorridere di tutto». Non si poteva vivere senza pensare alla fine. La natura dell’uomo lo esigeva. Il pensiero della morte era quello che agli altri forniva la religione. In lui non s’era evoluto. Era rimasto una religione accettata e conservata come perfettamente corrispondente ad ogni bisogno. Non occorreva il cielo per divenire buoni e misericordiosi. Il pensiero della morte mitigava tutto. L’ardore della lotta per la vita si mitigava nella decisione di prepararsi alla morte. Anche la sconfitta in quella luce si faceva insignificante. «Ma non era questo ch’io volevo. Io volevo proprio prepararmi alla morte. Per te, per me, per tutti. Niente mi parve mai tanto compassionevole o ridicolo quanto i movimenti scomposti dell’animale quando il coltello del macellaio lo raggiunge.»
Essa ebbe un brivido: «Quando viene quel momento è proprio un momento privo d’importanza. Un prossimo futuro piú importante incombe su noi. Come si potrebbe riguardare come importante il breve dolore che allora può affliggerci?».
Egli cortesemente annuí: «È vero. Dopo viene dell’altro e dura a lungo».
Riparlarono d’altro. Ritornarono ai figliuoli ch’erano oramai lontani. Ma perché avevano parlato della morte, tutto parve loro ora piú vicino. E quando andarono a coricarsi egli la baciò in fronte e la strinse a sé come se avesse cercato d’imitare nel gesto l’amore che tanto tempo prima li aveva indotti a legarsi per la vita. Una cosa dolcissima. Tanto piú dolce che quando l’istinto aveva inventato quel gesto.
Poi prima di addormentarsi egli pensò: “La morte non minaccia me. Io sono forte. Come sopporterà lei la mia morte? Come sentirà poi l’ulteriore minaccia su lei? Saprà imitare la mia rassegnazione? Ma come potrà lei sentire che nella legge generale non può esserci dolore né spavento?”.
II
Il tempo procedette non piú velocemente del solito. Ci si trovava tuttavia nella stessa primavera fattasi un po’ piú calda. Risuonavano ancora nell’orecchio di Teresa le parole che suonavano dolore e ch’erano servite ad adornare l’ultima loro sera d’amore quando vide il marito inchiodato dalla malattia nel letto. Una malattia ch’era capitata fulminea con un lungo brivido. Per conformarsi al suo proposito Roberto tentò di convertire il brivido in una risata: «Pare un solletico» disse. Questo suo sforzo non arrivò che a rendere piú tragica la grave minaccia.
Il dottor Paoli subito chiamato parve dapprima tranquillo sempre però ammonendo con aspra ironia sul proprio sapere e potere, ch’egli ne avrebbe saputo di piú quando la malattia avrebbe avuto il tempo di dire di piú.
Le torture della febbre furono sopportate facilmente da Roberto. Una sola volta, dopo di essere stato lungamente silenzioso disse alla persona che stava accanto al suo letto e ch’era veramente Giovanna, la loro vecchia cameriera: «Tu, veramente, avresti avuto bisogno di me». E quando Giovanna riferí tali parole a Teresa, a questa parve che il loro senso fosse mitigato dalla prova ch’esse stesse fornivano per essere destinate a lei e pervenute alla cameriera dalla grande febbre che turbava quel cervello. Nessuno alla morte aveva ancora pensato. Se non ci fosse stata la febbre, essa avrebbe pensato che tutto quello ch’egli aveva detto fosse poco pensato, mancasse di vigore. Se lo spavento precedeva il pericolo allora lo spavento era piú vero persino del proprio ch’essa sapeva grande e cui talvolta si preparava con mite rassegnazione.
Poi la febbre diminuí ed egli alla morte piú non pensò. Credette piú fermamente nel termometro che nella propria tortura, l’affanno e il dolore.
Quella sera Teresa cominciò lei a tremare. Era la mezzanotte e le due domestiche già dormivano. Dovette lei accompagnare il dottore alla porta. Qui il dottore, un uomo circa quarantenne, grave, un po’ pesante, si fermò. Era imbarazzato. Davanti all’ammalato aveva parlato in un modo e s’era addirittura congratulato di aver trovato la febbre diminuita. Ora con la moglie egli doveva parlare altrimenti. Avvisarla ch’egli aveva saputo mentire, ma doveva mentire ancora. Il suo corpo pesante s’era ancora appesantito per l’esitazione della parola che doveva rivelare una parte della verità e non tutta. Poi in medicina c’erano tutte le prospettive ed egli diffidava di quelle che ora gli si presentavano. Si andava forse incontro ad una di quelle forme che si prolungano ostinate perché piú lievi fino alla morte o a una di quelle guarigioni imperfette che trasformano tutto il resto della vita in quella di un condannato a termine, oppure si poteva sperare ancora in una crisi oppure in uno svolgimento piú mite che pur tuttavia conducesse ad una guarigione intera? Il misterioso cuore umano fino all’ultimo momento non diceva tutte le sue possibilità. L’organo che apparentemente non conosceva il riposo pur si riaveva dalla piú forte depressione. Ed il dottore si mosse per andarsene imbarazzato e dalle cose misteriose e dalle parole che rivolte a quella povera signora non potevano servire a chiarire il pensiero di persona che sapeva molto ma soprattutto di non sapere abbastanza. Cercò di andarsene dopo di aver ripetuto certe raccomandazioni. Ma la signora avrebbe voluto avere l’intera verità: «Ho da richiamare telegraficamente i figliuoli?». E guardò ansiosamente quelle labbra cui ella voleva strappare il verdetto.
Ma il dottore girò su se stesso lentamente per guardare meglio in faccia la signora o forse per guadagnare del tempo prima di parlare. Tante erano le possibili prospettive! A quale doveva afferrarsi? Intravvide la propria salvezza: Il pericolo maggiore stava precisamente nella minaccia della malattia lunga. Perché telegrafare? Il modo piú odioso di dare una cattiva notizia. Ma non volle rasserenare di troppo la signora. «Scrivere, scrivere si poteva intanto. Tenerli preparati a peggiori notizie oppure... mettere le cose in modo che li aspetti fra pochi giorni una grande gioia.» Si sentí rassicurato anche lui come se le probabilità buone si fossero accresciute. Poté anche pensare piú chiaramente alle necessità dell’ora. «Domani» disse «penseremo di assumere un’infermiera. Ella non può continuare a vivere cosí se la cosa accenna ad allungarsi tanto.» E lei lo lasciò andare, inerte perché non sapeva staccare il pensiero dall’indagine sulle parole ch’egli aveva dette prima. L’ultima parola del dottore «Telefonerò domattina prima di andare all’ospitale» raggiunse il suo orecchio come un’ulteriore conferma della gravità dell’ora.
Lentamente essa spense la luce elettrica alla porta, la riaccese nel corridoio per passarlo sicuramente, procedette sempre esitante, e dopo aver afferrato la maniglia della porta, aperta la quale avrebbe rivisto il marito per la prima volta dopo che lo sapeva sottoposto a tale dura, imminente minaccia, la lasciò ancora una volta per ritornare alla chiave piú vicina della luce elettrica e rifare l’oscurità nel corridoio. Non era completa l’oscurità. Era diminuita da un lieve bagliore che veniva dalla stanza dell’ammalato. Essa non subito si mosse. Nell’oscurità pregò. Eppure essa sapeva ch’era una meschinità incomparabile inginocchiarsi per domandare degli interventi miracolosi. Il marito aveva tutelato la sua religione come aveva saputo. Ma non aveva saputo farlo abbastanza bene. Ma la scienza s’era allontanata da lei in quel momento e Teresa si ritrovava con la propria religione, o almeno il suo atteggiamento. E quando essa giunse al letto dell’ammalato si sentí piú sicura. La preghiera le aveva data la forza di corrispondere interamente al suo ufficio. Era pronta anche alla simulazione.
La vasta stanza era scarsamente illuminata da una piccola lampada sul tavolo di notte che divideva i due grandi letti matrimoniali. La poca luce era piú intensa sul letto dell’ammalato che giaceva sul fianco le braccia tese rigidamente, le mani congiunte cosí allontanate come se egli avesse voluto salvare una parte del proprio corpo da tanta angoscia. Anche la testa sul guanciale s’era spostata per indietro quasi perpendicolare alla schiena.
Vedendola seppe abbandonare lo sforzo. L’aveva attesa soffrendo e, per un attimo, gli parve che poterle parlare significasse interrompere l’angoscia: «Che ti disse il dottore?» domandò facendo finalmente un movimento che non fosse imposto dall’affanno o dal dolore ma per vederla meglio. La cara figura dell’affetto. Era personificata dal suo e dal proprio affetto. Nella penombra bianca e bionda pareva trasparente. Oh, sí, un vero sollievo.
«Nulla di speciale» disse Teresa dandosi da fare a drizzare il proprio letto.
«Eppure ti trattenne a lungo. O forse son io cui pare che i minuti sieno ore?» Guardò l’orologio.
«No, no» mentí Teresa. «Avevo dimenticato di lasciar fuori il caffè per domattina e dovetti andar in cucina.»
Il malato non insistette. Il suo respiro era celere solo dopo ogni suo movimento che implicasse uno sforzo.
«Coricati» disse alla moglie. «Farò del mio meglio per lasciarti tranquilla. È il momento d’intensificare il mio esercizio.»
Ella finse di non aver udito tali parole; si sentiva salire alla gola dei singhiozzi e non sarebbe stato possibile di trattenerli se avesse voluto rimproverargliele. Disse semplicemente e assumendo un’aria di distrazione: «Non ho sonno. Vuoi che ti legga il giornale?».
Neppure lui non ripeté quelle parole pentito di averle dette. Era un modo di torturarla anche quello di ricordare il proprio proposito. Rispose dolcemente: «Vorrei che tu subito ti adagiassi per dormire. Chissà? Forse sarò costretto di destarti e tutto quello che puoi guadagnare di sonno è un beneficio per te». Ed egli ebbe anche lo svago di poter rivedere se sul tavolo di notte ci fosse a portata di mano tutto ciò di cui poteva abbisognare. Il tempo andava via non riempito di sola angoscia.
E fu molto bravo Roberto quella notte. Teresa dapprima tenne gli occhi aperti senza sforzo e saltava su ad ogni movimento del marito. Ma egli riuscí a immobilizzarsi. Quando voleva moversi trovava un sollievo nella stessa propria resistenza. E diceva con risoluzione al male ch’egli aveva personificato in una persona che gli stesse accanto tanto immobile da non potersi ritenere ch’essa il male producesse ma di questo godesse: «Guarda, guarda, come sono superiore io che soffro a te che godi». Lungamente, finché molto tardi il respiro regolare della moglie lo avvisò ch’essa s’era addormentata.
Sí, essa s’era addormentata. Dapprima l’aveva tenuta desta la paura che le preoccupazioni del dottore fossero giuste e la speranza ch’esse fossero sbagliate. Che cosa sapevano i medici? La malattia? Forse. Non l’organismo però, l’organismo di ogni singolo. E ricordò certi insegnamenti di Roberto: Gli uomini avevano tutti gli stessi organi e con quegli stessi organi componeva ognuno di essi un organismo originalissimo che mai prima era esistito. Perché Roberto non poteva guarire per la via ch’egli ora batteva, la diminuzione di febbre, se il suo organismo fosse fatto cosí? Questa era la scienza! Non fatta per lei. «Non ora, non ora!» supplicò. Le pareva un delitto ch’egli ora dovesse sparire. Credeva di domandare poco, solo un rinvio. Le sarebbe stato accordato, oh, certo. Ed essa trovò la pace che aveva domandata per lui.
La finestra si rese visibile all’inizio dell’alba. Roberto arrivò a vederla con gioia. Il tempo non era fermo. Poi anche lui trovò inaspettatamente un grande riposo. Non vide piú la finestra, non la stanza e non sentí piú se stesso. Quando ci ripensò non gli parve fosse stato il sonno perché il sonno era tutt’altra cosa. L’angoscia continuava ma lui era stato privato dello sforzo di sottrarvisi. È un grande riposo quello d’essere privato della possibilità di uno sforzo. Era tutto suo senza resistenza. Gli parve di assistere alle avventure piú angosciose della vita, avventure losche di cui non serbò ricordo perché non arrivarono neppure alla consapevolezza del sogno. L’angoscia s’era tramutata in visioni di mostri o di catastrofi, o di mostri che stavano per giungere o catastrofi che si preparavano, qualche cosa che non ricordava ma che s’intonava al quadro della vita come egli allora la sentiva.
Quando ritornò in sé il giorno era pieno. Si sentiva debole, coperto di sudore. Nella stanza c’era molto movimento o a lui parve. La serva uscí e rientrò piú volte. Il dottore sedeva sul suo letto una siringa in mano. La moglie era anche attiva su qualche cosa al tavolo. Il dottore vedendo che apriva gli occhi gli sorrise il benvenuto: «Si sente meglio?». Era dolce augurio, una grande benevolenza. Ed egli salutò il ritorno alla vita dalle forme cortesi con un sorriso. «Se sto bene, perfettamente!»
Il dottore lo guardò dubbioso. Gli pareva che la risposta non provasse che l’ammalato fosse compos sui. Teresa mise la testa sul guanciale dell’ammalato: «Tu non sai» mormorò «è stata la crisi, la crisi benefica ch’è sopravvenuta quando non la si sperava piú. Ora tutto è finito». Ora soltanto essa piangeva.
L’ammalato respirò profondamente. Sí, cosí da molti giorni non aveva respirato. L’ammissione dell’ossigeno in grande quantità è un grande beneficio. E si sentí libero. Non pensò per un solo momento che ora da uomo forte sarebbe stato il suo dovere di ricordare che arrivava alla convalescenza solo per prepararsi alla prossima futura malattia. In certo modo i dolori finora sofferti erano stati privi di scopo. La convalescenza fra tutte le fortune è la piú seducente. I mostri della notte erano spariti. Stava accanto al suo letto l’uomo potente che lo aveva salvato col suo occhio penetrante e benevolo, il suo orecchio acuto, la sua siringa che iniettava direttamente nel sangue quello che occorreva per ridargli la forza, la vita e dall’altra parte sorvegliava Teresa col suo vigile affetto, sempre uguale, sicuro.
Poco dopo Teresa era di nuovo alla porta accanto al dottore. Da buon sanitario egli rispecchiava anche nei suoi movimenti il miglioramento dell’ammalato. Pareva meno imbarazzato, piú tranquillo anche lui. Era appoggiato allo stipite della porta e guardava attraverso alle grandi lenti dei suoi occhiali gli occhi della signora che invece guardava le sue labbra. Ammirò se stesso: «Come abbiamo fatto bene di non richiamare i figliuoli!». Poi, esitante, attenuò la buona nuova: «Non è finita ancora, ma quasi». E vedendo che ciò bastava per offuscare la faccia della signora trovò il modo di rinnovarle la gioia ricordandole in quale disposizione d’animo egli l’avesse lasciata il giorno prima: «Iersera non avrei data una pipa di tabacco per la sua vita. Oggi è tutt’altra cosa». Pensò ancora, poi abbandonò lo stipite e si raddrizzò prima di porgerle la mano per salutarla: «Resterei volentieri ancora qui» e per un momento il suo corpo pesante si fece pesante, si torse come se la sua grossa pancia fosse stata parte di un serpe privo di gambe «ma debbo affrettarmi» e se ne andò.
Essa restò a seguirlo con l’occhio. Vide chiaramente che a un certo momento s’arrestò con una gamba in aria esitante a calarsi e raggiungere il prossimo scalino. Ma poi, piú deciso, procedette oltre e scomparve. Avrebbe forse voluto dirle qualche cosa d’altro? Non volle pensarci piú ma come si avviò alla stanza dell’ammalato, la sua immagine la inseguí. La vedeva come s’era mossa nelle ultime ore: Ora l’aveva incoraggiata ed ora spaventata; anche adesso nel momento in cui sembrava che fosse arrivato alla speranza anzi quasi all’intera tranquillità, si teneva un piccolo spazio libero per ballonzolare fra l’ottimismo e il timore.
Essa ancora non aveva ringraziato per l’esaudimento della sua preghiera. Lo fece nel breve spazio di tempo che le occorse per percorrere il corridoio. Non rallentò il passo per poter dedicare piú tempo alla preghiera. Pensò: “Si prega benissimo anche accanto a lui”. E sorrise maliziosamente. Era un modo di tradirlo.
Roberto giaceva tuttavia esausto. La respirazione sua era oramai libera. Il dottore gli aveva gridato nelle orecchie: «Ecco che arriva la perfetta euforia». La parola strana s’era confitta nel suo orecchio e lui l’accarezzava proprio come essa accarezzava lui. Sentiva anche tale euforia. La respirazione è una delle principali attività del nostro organismo e riaverla intera è una grande prestazione. Avrebbe potuto dormire senza la compagnia di mostri e di catastrofi.
Quando vide rientrare la moglie le sorrise: «Questa volta» disse «non ci fu bravura da parte mia. Tutto compreso fu una cosa poco dolorosa. Qualche cosa m’opprimeva, ma il buono era che non c’era la possibilità di protestare. Tutto il mondo s’era convertito in oppressione. Perciò era mio il torto se mi ci trovavo. Non restava da far altro che di adagiarsi nell’oppressione».
Essa non seppe che dire. Ogni sua parola la commoveva. Se il dottore non avesse esitato prima di staccarsi da lei essa si sarebbe sentita piú leggera. Cosí invece essa lo sapeva tuttavia in pericolo. E sembrava che anche lui lo sapesse. La sua parola era perciò tuttavia di
III
Sembrava dormisse. Piú volte la signora lo guardò e senza moversi ritornò al suo libro. «Non dormi?» disse una volta vedendo che con gli occhi spalancati guardava le unghie di una mano posta sul guanciale a piccola distanza dalla faccia.
Egli volse a lei la faccia pallidissima coperta da un lieve sudore. «Non so che sia ma soffro molto! Passerà.» E parve volesse tranquillarla. Poi saltò dal letto. «Scusami» disse da quell’ammalato bene educato da anni di preparazione «ma non posso stare in letto.» Ed essa non dimenticò piú questa strana parola indice evidente che la lunga preparazione aveva lasciato nel suo animo delle traccie indelebili anche in quel momento di malato bene educato. Ora, appena avvicinata la testa alla finestra socchiusa essa la vide scomposta da uno sberleffo di dolore che vi si formava e spariva per riformarvisi. Pareva il riflesso di attacchi di dolore che seguivano uno subito dopo l’altro. Essa pensò che cosí probabilmente avesse risposto l’atteggiamento della faccia dei torturati all’applicazione ripetuta sulla carne del ferro incandescente.
S’abbandonò sulla poltrona ove essa era stata seduta fino a quel momento. La parola tanto strana in quel momento si ripeté: «Scusami». Aveva la sola camicia. La sera prima s’era sentito oppresso dal pijama e l’aveva smesso. Le sue gambe tuttavia giovani moderatamente muscolose meglio colorite della sua faccia tremavano. Il piede destro restò eretto contorto poggiato sul solo alluce. Un irrigidimento dovuto al dolore. La respirazione non pareva impedita ma talvolta s’accelerò.
Teresa non indovinò subito. Un caso, un assalto di nervi ma non una minaccia. Domandò: «Vuoi che chiami il dottore?».
Egli allora parlò e fu una cosa pietosa ma ch’essa non intese che piú tardi, ricordandola. La parola mentre l’orrendo dolore imperversava sul suo corpo, era quella dettata dal suo proposito eroico. Stava morta accanto al dolore vivo, attivo ch’egli si forzava di lasciar imperversare su di lui senz’ascoltarlo. «Perché vuoi perdere quest’ultimo breve lasso di tempo che ci è lasciato?» Ci fu una pausa dovuta ad uno sberleffo violento imposto dal dolore e che s’estese dalla faccia a tutto il corpo. Essa, intanto, solo per fare qualche cosa che fosse piú assennata del grande dolore e anche di quelle parole gli coperse le gambe con una coperta e subito ne cercò un’altra per coprirgli il busto. «Avrai preso freddo» mormorò «quando eri coperto da tanto sudore.» «Il caldo o il freddo non hanno importanza» disse egli. «La morte ha importanza, la morte tanto vicina. Ed è il momento di ricordare la vita, la vita ch’io voglio continui per te dolce e serena come se io non ci fossi mai stato. E come ho da fare?» Girò l’occhio vago come se avesse cercato di ricordare ma anche quello sforzo era interrotto dallo sberleffo cui era costretto. «Non pensai tutto quando questo dolore non c’era e feci male. Ma so ancora dirti che anche tutto ciò non ha importanza, questo... che doveva avvenire o prima o poi.»
Quale tortura! Teresa corse al campanello.
«Perché? Perché?» disse lui ancora. «Resta tranquilla con me a guardarmi e ad apprendere.»
Si adagiò sullo schienale della poltrona. Improvvisamente il dolore era cessato. Cessò senza esitazione. Si ritirò e andò via. La morte non era venuta. Ed egli guardò intorno a sé privo di dolore e privo d’eroismo. I suoi denti battevano ancora, ma il dolore era veramente sparito come alla mattina l’affanno. Le sue parole eroiche miseramente assumevano l’aspetto di una vanteria. Poté accorgersi subito che Teresa non pensava cosí, perché per lei finito il dolore restò lo spavento, nient’altro, un grande spavento. Lo aiutò a coricarsi. Poi volle la cameriera con sé. Poi s’allontanò per andare al telefono e, rapidamente decisa, senza consultare nessuno, telegrafò ai figliuoli di ritornare a casa.
IV
Quando rientrò nella stanza piena di spavento, fu dapprima
tranquillizzata.
Sentendola venire, nel letto ove egli non trovava pace si rizzò. Sedette ed essa lo vedette nella luce del raggio di sole che oramai quasi rasentava il letto. Trasalí. Aveva la fisonomia mutata. Le palpebre gonfie minacciavano di chiudere l’occhio. Era pallido, la faccia coperta da un lieve sudore. E non sapeva guardarla. Il suo sguardo la cercava e la trovava forse dove non era come se l’istrumento visivo si fosse in lui mutato e non dovesse rivolgersi all’oggetto che voleva vedere. Ma le parole gli fluirono libere dalla bocca. Abbondanti, qua e là errate per errori di cui sembrava non si accorgesse.
Dapprima essa gl’impedí di parlare e corse a lui dicendogli: «Soffri? Il dottore sarà qui fra pochi istanti».
«Non è di lui che abbisogno» disse Roberto chiaramente «perché io non soffro, io non soffro affatto. Soffro solo del ricordo di quanto soffersi poco fa, durante quell’ora infernale.» Essa sapeva che quell’ora infernale era stata composta di pochi minuti. Ma non protestò. Tese l’orecchio. Essa sapeva che ascoltava le ultime parole di un moribondo e interrotte, spezzate, tuttavia furono per lei intelligibili. Egli non parlò che del dolore sofferto. Durante tutta quell’ora egli aveva saputo resistere e parlare come se la sua vita fosse continuata come prima. Non era piú la vita invece. Era una segregazione fra pareti create dal dolore. E il dolore era il trionfo di qualcuno, di qualcuno che gioiva della sua giustizia. Parlò di un suono di campana trionfale che l’accompagnava. E lui sentí che la sua colpa meritava tanto odio. Tutta la sua vita era stata una colpa, una grande lunga colpa di cui ora voleva pentirsi. Fece anche con le labbra un’imitazione ingenua del suono della campana: Din, don, din, don... Bisognava ascoltare quel suono. E le minaccie! Essa doveva averle sentite mentre lui per un’ora intera aveva rifiutato di darvi ascolto. Ma ora che non risonavano piú avrebbe voluto riudirle per ascoltarlo e intenderlo ancora meglio. Le sue ultime parole già irrorate da lacrime furono: «Io non sapevo».
Poi s’abbandonò riverso tutto in pianto. Fu un pianto violento che gli tolse il respiro come avviene ad un bambino castigato ingiustamente o anche per una giustizia evidente anche a lui. Parve che il pianto avesse impedita la sua parola. Le lacrime furono interrotte dal singhiozzo violentissimo che s’associò presto a un suono strano che a Teresa dapprima parve ancora piú infantile del singhiozzo. Era il rantolo.
Poco dopo la morte di Roberto Teresa ritornò a quel letto. Ecco ch’egli, irrigidito, appariva forte e sereno come un soldato che rispondesse all’appello. E lei, per cui la morte non finiva nulla pensò cercando una consolazione a tanto strazio: “Ecco che prendi la tua rivincita. Come sei bravo!”.
V
La sua morte fu proprio quello ch’egli non aveva voluto:
Lo spavento.
L’associazione tanto intima di due persone d’indole tanto differente per quanto mitigata dal desiderio e dal rispetto deve finire coll’impartirle la fisonomia di uno dei due associati. Quella di Teresa e di Roberto portava le linee della faccia di Roberto. Teresa, indisturbata, aveva continuate le sue pratiche religiose, ma le era sembrato che il loro stesso contratto dovesse imporre anche a lei la stessa riserva di cui egli si vantava come di una manifestazione di affetto e la sua religione s’era privata del suo maggiore eroismo: Il proselitismo. Chiusa nel suo petto quella religione s’era immiserita, isterilita. Forse, dall’altro canto, anche quella di Roberto aveva perduto ogni nobiltà mancandole la chiara intelligente manifestazione.
E per lungo tempo Teresa esitante considerò l’orrore di quella morte. Egli aveva riconosciuta una colpa. Quale colpa? La sua irreligiosità. Ed essa pensò ch’egli all’ultimo momento si fosse convertito. Tutto quello che restò di Roberto sulla terra cioè nel cuore di Teresa si convertí. Si convertí silenziosamente. Solo la fià