Contro Wagner/Nietzsche contro Wagner/Epilogo
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EPILOGO.
1.
Mi sono spesso chiesto se io non dovevo assai più agli anni maggiormente difficili della mia vita che a tutti gli altri. Ciò che v’è in me di più intimo m’insegna che tutto ciò ch’è necessario, considerato dall’alto e interpretato nel senso d’una economia superiore, è anche utile in sè, — non bisogna soltanto sopportarlo, bisogna anche amarlo... Amor fati: tale è il fondo della mia natura. — E per quanto riguarda la mia lunga malattia, non le debbo forse assai più che alla mia sanità? Le debbo una sanità superiore, una sanità che si fortifica di tutto ciò che non la uccide!
Io le debbo anche la mia filosofia... La grande sofferenza è l’ultima liberatrice dello spirito; essa insegna il grande dubbio che d’ogni U fa un X, un X vero e verace, ciò è dire la penultima lettera innanzi l’ultima... Il grande dolore, il dolore lungo e assiduo che ci consuma in qualche modo a fuoco lento, il dolore che prende tempo, ci forza, noialtri filosofi, a discendere nella nostra ultima profondità e ad allontanare da noi ogni fiducia, ogni bonomia, ogni attenuazione, ogni tenerezza, ogni meditazione, nella quale, forse: altra volta, avevamo posta la nostra umanità. Io dubito che una tale speranza «renda migliore»; ma so ch’essa ci rende più profondi. Già che noi impariamo ad opporle la nostra fierezza, il nostro dileggio, la nostra forza di volontà, simili a quell’indiano che, per quanto crudelmente torturato, si considera vendicato del suo carnefice dalla cattiveria della sua lingua; sia che ci rifugiamo, di fronte al dolore nel nulla, nella rassegnazione muta, inflessibile e sorda, nell’oblio e nell’abolizione di sè, si è altro uomo uscendo da quei lunghi e perigliosi esercizi della dominazione di se, si ritorna con qualche punto interrogativo in più — e sopra tutto con la volontà di porre per l’innanzi più numerose domande, più profonde, più severe, più dure, più cattive e più silenziose, di quante mai ne furon poste fin allora, nel mondo... La fiducia nella vita è sparita, la vita stessa è divenuta un problema. — Ma non si creda che per questo sia stato necessario divenire oscurantista! L’amore della vita è tuttavia possibile, — ma si ama in altro modo... È l’amore per una donna che ci inspira dei dubbi.
2.
Cosa assolutamente strana è che dopo cotesto primo gusto ve ne viene un altro — un secondo gusto. Da simili abissi, anche dall’abisso del grande dubbio, si ritorna rigenerato. Come se si fosse fatta pelle nuova, si diventa più suscettibile e più cattivo, con un più sottile gusto per la gioia, con lingua più delicata per tutte le buone cose, con sensi più gioiosi, con una seconda e più perigliosa innocenza nella gioia, nello stesso tempo più infantile e cento volte più raffinato che per il passato.
Quanto ci ripugna ora il godimento, il grossolano sordo ed oscuro godimento, come generalmente lo intendono i gaudenti, le nostre «persone istruite», i nostri ricchi, i nostri governanti! Con quale malizia noi ora ascoltiamo tutto quel fracasso da fiera, in mezzo al quale l’uomo istruito e il cittadino si lasciano oggi violentare dall’arte, dal libro, dalla musica, per giungere al «godimento spirituale» inaffiato da bevande spiritose! Quanto fan male ora ai nostri orecchi quei clamori teatrali; quanto son fatti estranei a noi il tumulto romantico, il solletico dei sensi che piace alla plebaglia istruita, e tutte quelle aspirazioni all’ideale, al sublime, all’anfigorico! No: se noi che siamo guariti abbiamo ancora bisogno d’un’arte, è di tutt’altra arte — d’un’arte gioiosa, leggera, fuggitiva, divinamente fattizia e piena d’una divina certezza, di un’arte che come una pura fiamma aleggi verso un cielo senza nubi! Innanzi tutto un’arte per artisti, solamente per artisti! Allora ci intenderemo meglio su ciò che importa per questo, la gaiezza, tutta la gaiezza, amici miei!... Vi son cose che noi sappiamo troppo bene, ora, noi che possediamo la conoscenza: ah come impariamo oramai a ben dimenticare, a ben ignorare, da artisti!... E per quanto riguarda il nostro avvenire: non ci si incontrerà certo su le orme di quei giovani egizi che infestavano i templi nella notte, abbracciando le statue e volendo a viva forza svelare, scoprire, porre in piena luce tutto ciò che, per buone ragioni, è tenuto nascosto. No, questo cattivo gusto, questo voler raggiugere la verità, «la verità ad ogni costo», questa mania di adolescenti per l’amore della verità — tutto questo non c’importa più: noi siamo troppo esperti, troppo seri, troppo gai, troppo induriti, troppo profondi... Noi non crediamo più che la verità resti verità quando le si strappa il velo — ed abbiamo vissuto abbastanza per esserne persuasi... Oggi è per noi quistione di convenienza che non si voglia tutto vedere nella sua nudità, e trovarsi ovunque presente, e tutto comprendere, e tutto «sapere». Tutto comprendere — significa tutto disprezzare... «È vero che il buon Dio vede tutto?» chiedeva una bambina a sua madre: «mi sembra una sconvenienza» — avvertimento ai filosofi!... Bisognerebbe avere maggior rispetto del pudore, rifugio della natura che si tien nascosta dietro enigmi ed incertezze multiple. Forse la verità è femmina, ed ha delle ragioni per non lasciar vedere le sue ragioni?... Forse il suo nome, per parlare greco, è Baubò?... Ah quei Greci! se ne intendevano essi del vivere! Per ciò è necessario fermarsi bravamente alla superficie, all’epidermide, di adorare l’apparenza, di credere alle forme, ai suoni, alle parole, a tutto l’Olimpo delle apparenze. Quei Greci erano superficiali — per profondità... E non torniamo ad essi, noialtri rompicolli dello spirito che abbiam salito le più alte e pericolose sommità del pensiero moderno, e che di qui abbiam guardato intorno a noi, al di sotto di noi? Non siamo, anche in questo, greci? Adoratori di forme, di suoni, di parole? E appunto per questo — artisti?