Commedia (Lana)/Inferno/Canto II

Canto II

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II.


Lo giorno se n’andava, e l’aer bruno
     Toglieva gli animai, che sono in terra
     Da le fatiche loro; e io sol uno
M’apparecchiava a sostener la guerra
     5Sì del cammino e sì de la pietate,
     Che ritrarrà la mente, che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m’aiutate.
     O mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
     Qui si parrà la tua nobilitate.
10Io cominciai: Poeta che mi guidi,
     Guarda la mia virtù s’ella è possente,
     Prima che all’alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvio lo parente,
     Corruttibile ancora, ad immortale
     15Secolo andò, e fu sensibilmente.




V. 1. Qui mostra Dante che cominciò ad andare allo inferno, e ch’era sera; che sicome dopo la sera viene la grande oscurità della notte, così chi va o lassasi correre in vita viziosa e di peccato, vae in grande tenebra. E perchè lo inferno è luogo dove li vizi e li peccati si punisce, è conveniente che poetizando metta principio di notte l’entrare dello inferno.

2. Qui mostra come li animali terreni a tale ora vanno a requiare, ed ello s’aparecchiava pure allora di sostenere l’affanno, lo quale hae a significare che qualunque va allo inferno, non speri requia, ma apparecchisi di sostenere infinita battaglia, guerra e pena.

7. Qui segue suo poema pregando la scienzia che lo aiuti a trattare tale poetria, sicome è usanza delli poeti in li principii delli suoi trattati, e li oratori in li principii delle sue arenghe.

9. Quasi a dire: or si parrà s’io saprò dire in rima.

10. Mostra ch’elli ebbe chiamato l’aiutorio della scienzia, elli ragionando con Virgilio, cioè con la umana ragione disse: guarda s’io sono sufficiente a tanta opera inanzi ch’io cominci nè scriva lo principio: del quale elli recita la risposta per quello che Virgilio scrive in lo sesto dello Eneidos sicome Eneas andò allo inferno, com’ è detto, e dice: Tu dici che di Silvio il parente, cioè lo padre di Silvio, che fu Eneas, andò al mondo corruttibile, cioè non anco morto, lì andò sensibilmente, cosi lì puoi tu andare. Alla

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Però, se l’avversario d’ogne male
     Cortese i fu, pensando l’alto effetto
     Ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale
Non pare indegno ad omo d’intelletto;
     20Ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
     Ne l’empireo ciel per padre eletto:
La quale e ’l quale (a voler dir lo vero)
     Fu stabilita per lo loco santo
     U’siede il successor del maggior Piero.
25Per quest’andata onde li dai tu vanto,
     Intese cose che furon cagione
     Di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
     Per recarne conforto a quella fede
     30Ch’è principio a la via di salvazione.
Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
     Io non Enëa, io non Paulo sono;
     Me degno a ciò né io né altri ’l crede.
Per che, se del venire io m’abbandono,




quale risposta risponde Dante e dice: Se l’ adversario d’ogni male, cioè Dio, li fe’ tanto di cortesia ch’ elli volse e ch’elli andasse ad avere consiglio con Aiichise, com’è detto, elio lo fe’ pensando lo grande effetto che dovea essere e seguire dello erede di Eneas, cioè che ne dovea nascere Romulo e Remo, li quali doveano edificare Roma, la quale cittade in processo di tempo sarebbe luogo di imperio e poi luogo di santa Ecclesia, e però dice: Il successor del maggior Piero. E perciò quand’elli li andò, elli intese dal padre come doveva reggersi contra Turno, e come doveva essere vincitore. E la cagione del papal manto, cioè del luogo principale della santa Ecclesia. Ancora dice Dante: andovvi poi; cioè ancora andò san Paulo in inferno, e fu fino al terzo cielo in Paradiso. E la cagione fu per revelarne cose che fusseno confortamento e accrescimento della fede cattolica. In la quale andata elli vide le jerarchie delli angioli come stavano, e di questo admaestrane san Dionisio, lo quale scrisse De angelica jerarchia. Sichè per esso si si acresce la fede: la quale virtude spirituale è lo principio della salvazione umana, e senza la quale non si può acquistar vita eterna, sicome ne scrive lo detto san Paulo: sine fide impossibile est Deo piacere. E apella san Paulo, sicome fa la scrittura, Vas electionis.

V. 31. Or dice Dante: la mia venuta non è a alcuni de’ predetti effetti, cioè di costituire cittadi, nè di agiungere conforto a nostra fede ancora ch’ il concede, sicome fu conceduto da Dio ad Eneas e a san Paulo; io non ne sono degno, nè ancora si crede per altrui ch’ io ne sia degno.

34. Conclude come teme, non sentendosi sufficiente, di non potere tal viaggio compiere.

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     Temo che la venuta non sia folle.
     Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono.1
E quale è quei che disvuol ciò che volle
     E per novi pensier cangia proposta,
     Sì che dal cominciar tutto si tolle,
Tal mi fec’ïo in quella oscura costa,
     Perché, pensando, consumai la impresa
     Che fu nel cominciar cotanto tosta.
Se io ho ben la parola tua intesa,
     Rispuose del magnanimo quell’ombra,
     L’anima tua è da viltade offesa;
La qual molte fïate l’uomo ingombra
     Sì che d’onrata impresa lo rivolve,
     Come falso veder bestia quand’ombra.
Da questa tema acciò che tu ti solve,
     Dirotti perch’io venni e quel ch’io intesi
     Nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,


  1. V. 50. Questa lezione è conformata da BU, BP e BS il Coii. BP ha, mei.




V. 37. E quale è quei, che disvuol ciò che volle. — E mostra come disvolea per esemplo quello ch’ avea cominciato.

43. Qui recita Dante la risposta di Virgilio, in la quale sicome apparirà, palesa la cagione e lo effetto che seguir si dee di tal viaggio. E prima dinota la condizione di Dante, la quale per allegoria hae a significare tutta la scienzia umana. E dice:

45. Cioè, che viltà facea Dante a volere rimanere di tale andata, sicome viltade impaccia e impedisce tutti li uomini che hanno bassa condizione a non volerli lassare crescere, ed esaltare si in le spirituali cose come in le temporali. E dà esemplo che sicome li animali si spauriscono per alcuna ombra, la quale elli estimano che sia altro che non è, così la viltade overo pusilanimitade impaccia lo uomo che crede ed estima minor podere che non è sua possanza.

49. Qui comincia a rimuovere Dante da tale imaginazione e profferali, come appare nel testo, di dirli la cagione per eh’ elli si mosse a venire a soccorrerlo e per cui preghiera e quale era lo luogo dov’ elli era.

52. Cioè che Virgilio era nel limbo, in lo quale sono anime le quali non hanno avuto fede cristiana, e non sono state al mondo viziose nè peccatrici, come sono li fantolini non battezzati, e come alcuni antichi che non sono in fede cristiana, ma furono al mondo persone di grande virtude ed eccellenzia; e di quelli così fatti fue, secondo questa poetria, Virgilio. Circa la quale posizione è da sapere che advegnachè l’ autore metta alcuna anima o persona in alcuno luogo in altra vita, non è certo che quella cotale la anima sia in quello luogo, ma giudicala secondo quello vizio o vertude.

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     E donna mi chiamò beata e bella,
     Tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
     E cominciommi a dir soave e piana,
     Con angelica voce, in sua favella:
O anima cortese Mantovana,
     Di cui la fama ancor nel mondo dura,



del quale ella ebbe maggiore nominanza al mondo. E questo modo di parlare è fittivo e poetico, per lo quale non si dee intendere pure quella persona di ch’ivi parla elli, ma deesi intendere che quel vizio del quale elli ragiona, è punito per la giustizia in tal modo; ed è universalmente una così fatta regola che sempre per lo opposito si punisce o purga lo peccato, sicome pare in li indivinatori , che sicome s’hanno voluto vedere troppo inanzi lo tempo, così li punisce per opposito ch’hanno volte le faccie indrieto; ancora li superbi che sicome hanno voluto superchiare altri, cosi sono da altri superchiati, cioè che purgandosi portano grandi pesi etc. E er questo sopra detto modo scrive che Virgilio è in lo limbo, e dice sospeso, cioè che non gli è fatta alcuna novità; non hanno gloria perchè non ebbeno fede; non hanno pena perchè non funno viziosi.

V. 53. Dante intende dimostrare in questo luogo come lo suo intelletto era abile e disposto a volere intendere a teologia. E imagina che questo suo intelletto abbia sua idea in cielo, la quale idea ello apella Lucìa, o gentile, cioè chiara e nobile. E imagina che questa idea sì si lamenti dello stato di Dante,ch’era vizioso ed insciente, per lo quale lamento si mosse Beatrice a pregare Virgilio che ’l soccorresse. Or quello che questa allegorìa hae a significare è che reggendosi Dante in sì imperfetto stato, propose di volere uscire ed imprendere teologìa.

54. Segue suo poema mostrando come tutte scienzie sono suddite a teologìa. E soggiunge alcune lode a Virgilio dicendo: anima cortese mantovana, del quale tanta nominanza è e sarà tanto che ’l mondo durerà: sappi che l’amico mio, lo quale non è amico della ventura, è impedito e impacciato dalla viltade sì che si rimuove da alto proposito; muovi con la tua parola ornata e con tutto quello ch’ha mestieri, a sua scampa, acciò che dal buono proposito non si tolla. E tacitamente dice: va tosto ch’io temo ch’ elli non sia già sì smarrito ed errato dalla dritta via, che troppo avrai tardato suo soccorso. Circa le quali parole è da notare tre cose.


La prima è lo modo del suadere altrui quando è bisogno lo suo servizio, cioè di ricitarli sua bontade e suo onorevile essere, e dice: di cui la fama. Ancora come lo uomo dee andare per soccorso a quelli che puonno e sanno fare e non ad altri, acciò che abbiano suo intento: e però dice: Or muori e con la tua parola

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    E durerà quanto il mondo lontana.*60
L’amico mio, e non della ventura,
     Nella diserta piaggia è impedito
     Sì nel cammin, che volto è per paura:
E temo che non sia già sì smarrito,
     Ch’ io mi sia tardi al soccorso levata, 65
     Per quel ch’io ho di lui nel Cielo udito.
Or muovi, e con la tua parola ornata,
     E con ciò che ha mestieri al suo campare,
     L’aiuta sì, ch’io ne sia consolata.
Io son Beatrice, che ti faccio andare: 70
     Vegno di loco, ove tornar disio:
     Amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al Signor mio,
     Di te mi loderò sovente a lui.
     Tacette allora, e poi comincia’io: 75


V. 60. La Crusca, il Patavino 316 e molti fra cui Foscolo, Tommaseo e Witte tennero Moto; altri molti fra cui il Lombardi e il Monti colla Nidobeatina, il Commento del Lana stampato dal Vindelino (che prese un testo di Dante col moto) il R. testo e commento, i tre codici dell’Archiginnasio di Bologna, il BV, quel di Bagno, il Cavriani, il parmigiano del 1373 hanno mondo. La voce lontana sta per lunga; e poichè Dante ha detto La cui fama dura nel mondo, sta bene che dica durerà quanto il mondo medesimo. Il Laur. XL, 7 al testo moto pose commento: durerà sempre che ’l secolo sarae.




ornata. La seconda cosa si è la fragilitade e fievolezza della umana specie, che per leggiera e poca cosa si distolle dal buono proponimento e lassasi ruinare in vizii ed in obscuritade; alla quale per opposito chi vuol contristare, dee avere virtude di fortitudine. La terza cosa è l’aiutorio e soccorso, lo quale non conviene essere tardo. Circa lo quale bisogna sollecitudine e continuanza a ritenere si l’amistade di quello che dee soccorrere, cioè Cristo benedetto, ch’elli non tardi a soccorrere, imperocchè egli è datore di tutte le grazie e soccorsi.

V. 70. Qui dice Beatrice chi ella è, e ’l merito ch’ella li farà del servigio ch’ella li domanda, cioè che si loderà a Dio di lui; la quale allegoria hae a significare grande lode al volume di Virgilio, se per esso si possa più venire a teologia ed a divinità.

75. Segue suo poema recitando la cortese risposta che fè’ Virgilio a Beatrice, e dice: O donna di virtù, sola per cui, la quale fae accedere allo intelletto umano ogni contento che è contenuto da quel cielo, ch’ha minori li cerchi suoi, cioè dal cielo della luna, lo quale è lo primo cielo, in fra il quale sono li quattro elementi e li animali sensitivi e vegetativi, come sono gli alberi e gli altri animali ch’hanno i sensi; quasi a dire: tu demostri e fai noto allo intelletto umano quello che per altre scienzie è ascosto, che filosofia non tratta nè giunge per modo di fede nè per revelazione delle divine cose.

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O donna di virtù, sola, per cui
     L’umana spezie eccede ogni contento
     Da quel ciel che ha minori i cerchi sui:
Tanto m’ aggrada il tuo comandamento,
     Che l’ubbidir, se già fosse, m’è tardi; 80
     Più non t’è uo’ d’aprirmi il tuo talento.1
Ma dimmi la cagion, che non ti guardi
     Dello scender quaggiuso in questo centro
     Dall’ampio loco, ove tornar tu ardi.
Da che tu vuoi saper cotanto addentro, 85
     Dirotti brevemente, mi rispose ,
     Perch’io non temo di venir qua entro.
Temer si dee di quelle sole cose2
     Ch’hanno potenza di fare altrui male:
     Dell’ altre no, che non son paurose. 90
Io son fatta da Dio, sua mercè, tale,
     Che la vostra miseria non mi tange,
     Nè fiamma d’esto incendio non m’assale.
Donna è gentil nel ciel, che si compiange
     Di questo impedimento, ov’ io ti mando, 95
     Sì che duro giudicio lassù frange;
Questa chiese Lucìa in suo dimando,


  1. V. 81. Rimessa la lezione rara, ma giusta col R. 1005, e col Laur. XL., 7; sebbene il commento pel manco d’un che non s’accordi, e dica il contrario.
  2. V. 88. Correggo col Cod. R.




V. 79. Cioè che era disposto a ciò che bisognava, e che non li facea più mestieri avrirli lo suo volere.

82. Qui si solve uno dubio: con ciò sia cosa che la vista del vedere lo demonio accresca pena a quelli che lo vedono: e dubitazioni, se ’l vedere che fanno que’ del paradiso quelli che sono in inferno li fa alcuna lesione. Alla quale risponde Beatrice che quella visione non fa alcuno duolo a quelli che sono in paradiso; e questo aviene perchè la divina grazia li fa tali perchè non possono ricevere alcuno duolo. E la cagione è perchè non sono sotto loro protezione e signoria; che a tutti quelli che sono sotto la protezione e signorìa del demonio, fa pena la sua vista; e quelli che sono nel cielo glorificati non puonno nuocere perchè non sono sotto la signorìa del demonio. E però dice: io non temo del venir qui dentro,1 perchè queste cose non mi possono far male, perocchè temer si dee di quelle c’hanno tale possanza, dell’altre, no.

97. Ancor dice Beatrice a Virgilio la cagione che la mosse del luogo dov’ ella era, cioè Lucìa, la quale disse: mo abisogna Dante

  1. Ecco una diversità dantesca avuta dal Lana.
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     E disse: Or abbisogna il tuo fedele
     Di te, ed io a te lo raccomando.
Lucìa nimica di ciascun crudele 100
     Si mosse, e venne al loco dov’io era,
     Che mi sedea con l’antica Rachele.
Disse: Beatrice, loda di Dio vera.
     Che non soccorri quei che t’amò tanto,
     Che uscio per te della volgare schiera? 105
Non odi tu la pieta del suo pianto,1
     Non vedi tu la morte che il combatte

  1. V. 106. Così fra gli altri 1 Cod. P e S dell’Archiginnasio bolognese e il V del l’Università. Witte dandoci pietà col Foscolo ci guasta il verso spostando l’accento e nausea col suono del successivo pianto.




di te, ed io te lo recomando. La quale Lucia, com’ è ditto, figura per allegorìa uno intelletto profondo di divinità; e soggiunge ch’ella si stava con l’antica Rachele. Circa la quale sentenzia tocca una istoria del testamento vecchio la quale brevemente è: che Jacob figliuolo di Isaac ingannò Esaù suo fratello, che tramutandosi della veste, e contraffacendosi in certi segni ad Esaù suo fratello, fittiziamente (1) ad Isaac si fe’ benedire, credendo Isaac ch’ elli fusse Esaù. Si fuggì e andoe a casa di Laban, lo quale stava più giornate di lungo da Isaac; e stando a casa del ditto Laban patteggiò seco in processo di tempo che lo ditto Jacob li dovea guardare lo bestiame sette anni, e lo ditto Laban li dovesse dare in capo del ditto termine Rachele sua figliuola per mogliera: quando fu passato lo detto termine, il ditto Laban li mise la sera nel letto un’al tra sua figliuola ch’avea nome Lia, e non Rachele. La mattina lo ditto Jacob veggendo che quella non era Rachele fu molto dolente. Alla fine ripatteggiò col suocero di servirlo al sopraditto offizio ancora sette anni, e dopo quel termine elli li dovea dare Rachele, e cosi fe’. Or figura la Scrittura santa questa Rachele per la vita contemplativa, perchè Jacob contemplò per essa 14 anni; e l’altra figliuola, cioè Lia, figura la vita attiva, in per quello che di fatto senza alcuna contemplazione di Jacob ella fu sua mogliera. Or vuol dire Beatrice ch’ ella stava in contemplazione quando dice: con l’antica Rachele.


V. 103. Recita le parole che li disse Lucia, come appare nel testo. (1) Correggo questo passo della Vind. col Cod R. Questo fittiziamento aggiunto al contraffacendosi esprime l’opera della mente per riuscire all’intento, ciò che nel e XXVII del Purg. dice scaltramente. Non intendo chiosare la letteratura del Lana che è vasta e bella, incurando certi suoni dati da copisti ad alcune voci, che non muto nel dubbio d’indovinare i veri. Questo sia detto una volta per sempre. Ma con ciò non attribuisco ad errori di amanuensi certe forme le quali disusate oggi hanno pur buona ragione di essere lasciate cosi come s’incontrano sebbene si trovino in ortografie diverse quali ad es. hae, li, elli, mogliera, in per quello che, vae, sicome, el vèneno, èbbeno. ec. ec. ec.

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     Su la fiumana, onde il mar non ha vanto?1
Al mondo non fur mai persone ratte
     A far lor prò, ed a fuggir lor danno, 110
     Com’ io, dopo cotai parole fatte,
Venni quaggiù dal mio beato scanno,
     Fidandomi nel tuo parlare onesto,
     Che onora te e quei che udito l’hanno.
Poscia che m’ebbe ragionato questo, 115
     Gli occhi lucenti lagrimando volse;
     Perchè mi fece del venir più presto:
E venni a te così, com’ella volse;
     Dinanzi a quella fiera ti levai,
     Che del bel monte il corto andar ti tolse. 120
Dunque che è? perchè, perchè ristai?
     Perchè tanta viltà nel core allette?
     Perchè franchezza, perchè ardir non hai2
Poscia che hai tre donne benedette
     Curan di te nella corte del cielo, 125
     E il mio parlar tanto ben t’impromette?
Quale i fioretti dal notturno gelo


  1. V. 108. Onde giustissimo per da cui invece del comune ove è del Cod. perugino
  2. V. 123. Questa bella vcriante è dello stesso Codice, perugino 253 membranaceo del secolo XIV


V. 109. Qui mostra come dopo le parole di Lucìa ella fu solleceta a venire a Virgilio.

124. Or dice Virgilio: or sai la cagione che mi fe’ venire a te, e sai chi concede che tu facci cotale viaggio, cioè le sopradette tre donne, cioè Lucia, Beatrice e Rachele. E ancora lo mio parlare sopra ciò t’ha permesso di trarti, com’è ditto in lo primo Capitolo, di questo stato per luogo eterno, cioè mostrandosi lo Inferno e ’l Purgatorio.

127. Qui dàe esemplo Dante a volere mostrare com’era tutto cambiato dal volere, in che ello era posto quando viltà l’assalio. E dice: sicome li fiori de’ prati per lo gelo della notte si piegano e chiudensi1, e poi quando lo sole li rivede e li riscalda, si drizzano ed avronsi, così la sua virtude piegata e chiusa dalla viltade si dirizzò ed apersesi per lo ditto di Virgilio, e tornò suso lo primo proposto, e con franchezza disse a Virgilio che era acconcio di seguirlo, e come tutti e due aveano uno medesimo volere; sicome appare nel testo.

E qui è finita la intenzione del secondo capitolo.

  1. Chiudensi e non chiudonsi mantengo scritto; e cosi in molti altri luoghi, simili desinenze come proprietà di lingua e di grammatica naturale; conciossiachè tanto si trova in quasi tutti gli antichi e fors’ era in tutti, e si distolse per mano
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     Chinati e chiusi, poi che il Sol gl'imbianca,
     Si drizzan tutti aperti in loro stelo;
Tal mi fec’io, di mia virtute stanca: 130
     E tanto buono ardire al cor mi corse,
     Ch’io cominciai come persona franca:
O pietosa colei che mi soccorse,
     E tu cortese, che ubbidisti tosto
     Alle vere parole che ti porse! 135
Tu m’hai con desiderio il cor disposto
     Sì al venir, con le parole tue,
     Ch’io son tornato nel primo proposto.
Or va, che un sol volere è d’ambedue:
     Tu duca, tu signore e tu maestro: 140
     Così gli dissi; e poichè mosso fue,
Entrai per lo cammino alto e silvestro.



de’ copisti che l’adattarono al pronunciare della loro età. In quella antica la terminazione della terza voce in plurale d’ogni tempo facevasi aggiungendo un no alla voce terza del singolare. In questo Lana raro incontrasi l’artificioso, che è passato in uso oggi che par natura, e perciò gl'imperiti, ma arroganti al solito, gli attribuirono a difetto e a vizio ciò ch’è anzi integrità e giustezza. Chi voglia aver la storia della lingua la studii in chi scrisse innanzi al quattrocento, o in quel torno