Pagina:Deledda - Colombi e sparvieri, Milano, 1912.djvu/310


— 300 —

stelle fisse; e a lungo, nella notte serena, di cui l’aria profumata e la dolcezza lunare penetravano fino alla stamberga, Jorgj fissò il foglietto azzurro come una volta dall’orlo del ciglione contemplava il cielo stellato.

Per calmarsi volle scrivere alla sua amica: prese dal tavolinetto il libro e la carta, accostò il calamaio, il lume, la penna. Ma questa cadde a terra. Egli non ne aveva altra e per raccattarla doveva curvarsi sul letto. Questo movimento gli portava sempre la vertigine: tuttavia senza esitare egli si volse col petto sull’orlo del lettuccio, la testa in giù, il braccio teso a cercare.

Trovò la penna e si rimise nella solita posizione; e solo allora si accorse che aveva potuto muoversi senza provare la vertigine.

Un sudore gelato lo coprì tutto; le sue tempia, i suoi polsi e le sue dita pulsarono violentemente, ma i pensieri rimasero lucidi, le cose intorno non si mossero nel solito giro vorticoso....

Egli credette di morire per la gioia: una gioia simile all’angoscia, così violenta che gli spezzava il cuore.

Rimase immobile per alcuni momenti. Non ricordava più neanche la sua amica. Solo vedeva uno splendore lontano, come di un incendio.

Ma il timore d’illudersi tornò ad offuscare ogni cosa. Si sollevò e stette seduto in mezzo al giaciglio ardente e umido di sudore, coi pugni tremanti e i pollici fissi come due chiodi sul materasso. La sua testa tremava e dondolava, i suoi denti battevano; ma i pensieri continuavano a sfilar lucidi nella sua mente e le cose intorno rimanevano ferme, di nuovo illuminate da uno splendore abbagliante.

Allora fu certo d’esser guarito. Piano piano si tirò su, respinse il cuscino sulla testiera del letto e vi appoggiò la schiena; mosse la testa,