Catullo e Lesbia/Annotazioni/26. A sè stesso - LXXVI Ad seipsum

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Annotazioni - 26. A sè stesso - LXXVI Ad seipsum
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LXXVI.


Il poeta è stanco; non ha più forza di lottare coi rivali che invadono il campo dell’amor suo; la voce della propria dignità gli risuona nel cuore; torna con la mente a tutto il bene voluto a quella ingratissima donna, e anzi che pentirsene, se ne compiace, perchè la memoria del bene che si è fatto produce sempre una piacevole soddisfazione nell’animo, una dolce e serena voluttà. Ha si può dire egli guarito dì tanto amore? tutt’altro. L’amore gli ha penetrato ogni fibra, gli ha sparso per tutte le membra come un vile torpore, gli ha sbandito dal petto ogni letizia. Egli conosce la necessità di lottare con sè stesso, di sradicare dalle viscere sue quell’amore; ma conosce altresì che le sue forze non sono da tanto:

Difficile est longum subito deponere amorem;

una vecchia passione non è come un vecchio vestito: [p. 313 modifica]chi non ha amato giammai può dire soltanto il contrario.

Quando l’amore ha poste radici profonde nel cuore per isbarbicarlo bisogna portar via un brano di questo: sradica una pianta qualunque, porterà con sè la sua zolla. Si ha un bel dire col nostro poeta:

Hoc facies, sive id non potes, sive potes.

Si può riuscire a vincere; ma qual vittoria! S’è vero che l’amore sia malattia dell’anima, è anche vero che, succeduta la crisi, la convalescenza dura per tutta la vita. Il povero Catullo sa tutto questo; perde la fede nelle proprie forze, e si rivolge agli Dei. Gli Dei, poveretti, son destinati a far da comodino ai mortali. Non hai più forza di mal fare? Pentiti bravamente e rivolgiti al cielo:

Sei impotente a resistere a un nemico, a una sventura, a un pericolo? Alza le palme, e prega.... chi? Non lo sai neppur tu, ma non importa: la preghiera è la resistenza estrema del debole: a ciò che l’uomo non può, si dà il nome di Dio.


Pag. 224.          Eripite hanc pestem, pemiciemque mihi.

Così chiama l’insano amore per Lesbia cagione d’ogni suo danno e rovina; chè pestis dissero i Latini ogni male; onde Sallustio appellò i Romani la peste del [p. 314 modifica]mondo: Romani pestis conditi orbis terrarum; e Virgilio chiama peste la fiamma che divorava le navi:

                                        Lentusque carinas
Est vapor, et toto descendit corpore pestis;

e pernicies, ultima rovina, esterminio ed anche la morte, come in Plinio: Plus quam drachmæ pondere potum perniciem affert.


Pag. 224.          Quæ mihi subrepens imos, ut torpor, artus.

Torpore, infiacchimento, abbandono generale di forze, così nell'animo come nelle membra: quanta verità!

Torpent infractæ ad prælia vires.

Il poeta vuol combattere, ma non può: la mente gli grida: resisti; ma il cuore gli mormora, piangendo: non ne posso più.