Cartagine in fiamme/28. L'assedio di Cartagine

28. L'assedio di Cartagine

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L'ASSEDIO DI CARTAGINE


Occupata fortemente Utica, che doveva servire come base delle future operazioni, i romani, che come si disse, disponevano d'un esercito forte di 80.000 uomini, quasi tutti veterani, al comando dei consoli Manlio e Censorino, avevano incominciato l'investimento di Cartagine, mettendo il loro campo principale nel vicino borgo di Neferi, per poter meglio dominare la città, sia da parte di terra che di mare.

Non era cosa facile espugnare la capitale della vecchia colonia fenicia, anche perché occupava una posizione foltissima ed eminentemente strategica. Come abbiamo altrove accennato, essa sorgeva nel golfo di Tunisi, a cavalcioni d'una penisoletta unita al continente per mezzo di un istmo, non più largo di venticinque stadi.

Ancora oggi l'estremità circolare di quella lingua di terra conserva il nome di capo Kartadshena: e questa è l'unica memoria che quei luoghi abbiamo conservato di quell'opulenta città, che pel suo sfarzo e per le sue straordinarie ricchezze, era l'invidia di tutti i popoli del mondo allora conosciuto. Ai due lati aveva due ampi porti, uniti insieme per mezzo d'un canale; l'interno destinato a ricoverare le navi da guerra, e l'esterno per le triremi mercantili. Città, porti e sobborghi erano saldamente cinti da muraglie ciclopiche, stese su tre ordini e alte quindici metri; ed a queste mura facevano capo le due grandi vie di Utica e di Tunisi, per le quali Cartagine comunicava col continente. Ogni cinta poi aveva un gran numero di torri massicce e di merli, e immense caserme, capaci di contenere dai venti ai trentamila soldati, o scuderie per trecento elefanti.

Roma istessa non era munita così formidabilmente.

Sparsasi la notizia che i romani s'avvicinavan per la via di Utica, per tentare un assalto generale, tutti gli uomini validi, che aveva Cartagine, si erano precipitati verso le mura e dentro le torri a opporre la più fiera resistenza. Hiram che era stato nominato gran capitano di terra, aveva prontamente occupato, con un grosso stuolo di mercenari, l'estremità del borgo di Neferi, dove si supponeva che i romani avrebbero tentato il loro supremo sforzo.

Non fu senza sorpresa che i due consoli, che credevano in buona fede d'aver da fare una semplice passeggiata militare, ritenendo i cartaginesi completamente sprovvisti d'armi, videro le mura gremite di difensori, che li sfidavano con grida feroci, e che facevano lavorare catapulte mostruose. Nondimeno i forti guerrieri di Roma, abituati ormai alle facili vittorie, non si sgomentarono di quella bellica dimostrazione, e convinti di aver facilmente ragione di quel popolo che non era ormai più guerriero, diedero un furioso assalto da tutte le parti, tentando di raggiungere con le scale le formidabili muraglie.

Come era già da prevedersi, fu un nuovo disastro, peggiore di quello che Hiram aveva inflitto, due notti prima, alla squadra.

Massacrati dagli enormi blocchi di pietra che i cartaginesi avevano appositamente disposti sulle sommità delle torri, e abilmente nascosti dietro ai merli, e tempestati dalle catapulte, furono costretti, almeno pel momento, a rinunciare alla speranza di prendere d'assalto la città, che si difendeva col furore, che infonde la disperazione.

Mentre il popolo si copriva di gloria, Hiram, alla testa di due grossi reparti di cavalleria, spalleggiato da Famea, un generale che doveva più tardi ignominiosamente disonorarsi, lottava ferocemente all'estremità del borgo di Neferi, facendo un vero macello delle legioni avversarie, che cercavano d'impadronirsene con reiterati e sempre sfortunati assalti.

La resistenza opposta da quel valoroso popolo, destinato ad una spaventevole rovina, aveva resi più cauti i due consoli Manlio e Censorino, ai quali, il Senato romano, aveva affidato l'annientamento completo della capitale fenicia. Spaventati dalle enormi perdite subite e dalla saldezza delle mura, che avevano resistito a tutti i formidabili urti degli arieti, la sera istessa i romani battevano in ritirata verso Utica, tutt'altro che speranzosi di ottenere un migliore successo.

Si trattava d'intraprendere un vero e regolare assedio e di affamare la città; cosa non facile però, perché i cartaginesi prevedendo quella terribile calamità, da parecchie settimane avevano accumulato provviste immense per stancare gli assedianti.

Disgraziatamente discordie gravissime stavano per scoppiare fra i capi della povera città, indebolendo il governo del Consiglio dei Centoquattro e dei Suffetti. Asdrubale, generale cartaginese, che incarnava la potenza militaresca e che aspirava alla dittatura suprema e che si sapeva osteggiato da uno dei più popolari capi guerrieri, accusa questi di aver avuto segreti accordi con Micipsa, il figlio maggiore di Massinissa, il più implacabile, e feroce avversario di Cartagine, e lo fa trucidare in pieno Senato.

Sbarazzatosi del suo più pericoloso avversario, si crea dittatore non ostante gli ostacoli frappostigli da Hermon e dai Suffetti.

Ed ecco il regime tirannico, che però non scema, nei disgraziati cittadini l'ardore della difesa.

Invano i romani di tratto in tratto replicano gli assalti contro quelle mura formidabili che non accennano a cedere. Sono sconfitte su sconfitte e perdite immense che si seguono.

I fenici combattono fieramente giorno e notte dall'alto dei loro spalti turriti, senza prendere riposo, decisi a far pagare ben care al nemico le offese e le sue prepotenze.

Sorgeva però allora pei romani un nuovo astro, nato per mala sorte di Cartagine.

Era costui Cornelio Scipio Emiliano, uomo straordinario, sia per diplomazia, sia per talenti militari.

Suo padre, non si sa per quale motivo, ma forse colla speranza di fare di lui un grande guerriero, lo aveva ceduto in adozione al maggiore dei figli di Scipione l'Africano, il famoso vincitore di Zama.

A diciassette anni Scipione Emiliano, aveva già seguito suo padre nelle terribili guerre contro Perseo, facendosi subito notare per la sua audacia e per la sua finezza.

Giovane forte e robusto, che preferiva alle mollezze dei suoi compagni, le lotte coi gladiatori e le cacce, ai pettegolezzi del Foro, era stato scelto dai macedoni, che avevano una grande stima di lui, per arbitro in certe loro questioni interne, rimanendo essi pienamente soddisfatti della sua saggezza. Partito per la Spagna, si era coperto ben presto di gloria uccidendo, in un duello mortale, uno dei più formidabili capi iberi ed entrando pel primo in una delle città prese d'assalto dalle legioni romane.

Passato poi in Africa, aveva avuto occasione di stringere amicizia con Massinissa, l'eterno nemico della potenza cartaginese.

Il Senato romano, vedendo che i due consoli inviati alla conquista di Cartagine non riuscivano a fare un passo innanzi, aveva subito pensato al giovane guerriero, che l'esercito ammirava, anzi adorava.

Già Manlio e Censorino avevano dato, fino allora, troppe prove della loro inettitudine, per condurre a buon fine una così gigantesca impresa. Il loro esercito, quantunque formidabile, si consumava in inutili assalti, che i cartaginesi rispingevano facilmente senza subire troppe perdite. Fu dunque deciso d'inviare colà il giovane comandante, onde consigliasse i due consoli e rincuorasse, colla sua presenza, l'esercito, che cominciava a mostrarsi scoraggiato per le grosse perdite giornaliere che subiva, per l'inutilità dei suoi attacchi contro quelle mura formidabili, sempre coperte di miriadi di combattenti, che si lasciavano uccidere sul posto anziché fare un passo indietro.

L'abilità guerresca di Scipione Emiliano, si affermò presto splendidamente. Asdrubale e Hiram, udendo che i romani tenevano sempre fortemente il borgo di Neferi, avevano decisa insieme una sorpresa notturna, per distruggere il campo militare degli avversari, che come abbiamo detto era il più importante. Una notte oscurissima, i due comandanti, erano usciti silenziosamente da Cartagine, seguiti da buon nerbo di mercenari scelti fra i più risoluti, e si erano gettati furiosamente contro le palizzate che racchiudevano quattro legioni romane al comando del console Manlio, facendo orribile scempio dei soldati sorpresi in pieno sonno.

Tutti stavano per essere massacrati, quando Scipione Emiliano, accortosi a tempo della sorpresa, era accorso colla velocità del lampo colle riserve, sbarrando il passo ai cartaginesi già vittoriosi, e volgendoli poscia in rotta, non ostante la resistenza accanita opposta da Hiram, il quale aveva radunati intorno a sé tutti i vecchi guerrieri, che avevano combattuto con Annibale nella Spagna ed in Italia.

Ma aveva fatto ancor di più come diplomatico. Aveva dissipati i sospetti che il vecchio re di Numidia, Massinissa, nutriva verso Roma ed era poi riuscito a togliere alla città assediata, uno dei suoi migliori comandanti, il generale Famea, il quale corrotto dall'oro romano, aveva disertato assieme a duemila e duecento cavalieri.

Il Senato, comprendendo di aver sottomano un uomo d'un valore altissimo, quantunque non avesse ancora quel giovane l'età prescritta per diventare console, gli aveva egualmente affidata la direzione della guerra africana, unendogli per compagno il console Livio Druso, e richiamando in patria gli altri due che avevano dato fino allora così poche buone prove della loro abilità strategica.

La notizia di quella nuova nomina, gridata dai romani sotto le mura di Cartagine, non aveva mancato di produrre sugli assediati una profonda impressione, perché nessuno ignorava la fama che godeva il giovane console. Specialmente Hiram, che meglio forse d'ogni altro conosceva il valore del nuovo avversario, avendolo sperimentato a Neferi, aveva provato un gran colpo al cuore.

— Mio povero Hermon! — esclamò la sera della elezione di Scipione, entrando nel palazzo del capo dei Centoquattro e salendo sull'ampio terrazzo dove Ophir e Fulvia lo attendevano per cenare insieme. — Questa nomina porterà sventura a Cartagine.

— Che cosa credi che tenterà quel Scipione? — chiese il vecchio che da parecchi giorni appariva assai accasciato.

— Quell'uomo ci attaccherà per mare e per terra e ci chiuderà tutte le uscite. Io al suo posto l'avrei già fatto.

— E lascerà morire di fame settecentomila uomini?

— Che si arrendano.

— Il nostro popolo non cederà senza combattere fino all'estremo delle sue forze. Siamo ancora in molti, Hiram, e possiamo tentare delle sortite.

— Quando la fame avrà indeboliti i nostri guerrieri ed il nostro popolo, chi potrà opporre ancora una valida resistenza? Fino ad oggi noi abbiamo potuto fare giungere viveri dal di fuori; aspetta che Scipione ci chiuda entro una cerchia di ferro e di pietra e vedremo quello che accadrà. E poi non tieni conto tu delle defezioni? Famea ha dato un troppo triste esempio.

— Io spero che non si troveranno fra noi due miserabili suoi pari — disse il vecchio Hermon con ira. — Quell'uomo meriterebbe la bocca ardente di Baal-Molok. D'altronde non contiamo che un solo traditore finora.

— Ed i suoi duemila e duecento cavalieri?

— Quelli erano mercenari stranieri, soldati senza patria.

— È appunto perché noi abbiamo troppi mercenari che io non sono tranquillo, — rispose Hiram — e perché sono appunto loro che costituiscono la nostra forza principale.

— Ed il popolo?

— Il nostro non è guerriero come quello romano: ed è questa la nostra debolezza. Un mercatante non sarà mai un buon soldato.

— Eppure hai veduto come si difende?

— È vero, ma resisterà all'assalto finale, quando le legioni romane, sicure della vittoria, varcheranno le nostre mura e si rovesceranno sulla città?

— Allora sapremo morire da forti, tutti in massa, stretti intorno ai nostri templi.

— A me basta morire al fianco tuo, Hiram — disse Ophir che fino allora non aveva preso parte alla conversazione.

— Tu morire! — esclamò il capitano. — Quando vedrò che ogni resistenza sarà inutile, ogni difesa perduta, radunerò i miei veterani e mi aprirò il passo attraverso le legioni romane; e tu ed Hermon, mi seguirete insieme con Fulvia.

— Io! — esclamò l'etrusca. — Qualunque cosa debba accadere, rimarrò in Cartagine.

— Per farti trucidare dai tuoi compatrioti? — chiese Hiram. — Credi tu che anche sapendoti etrusca, ti risparmierebbero nel furore dell'assalto? No, tu non rimarrai qui e ci seguirai.

Fulvia ebbe un sorriso sdegnoso ed il suo viso divenne smorto.

— Io rimarrò qui — disse poi.

— Per quale motivo?

— Solo io lo so: è il mio segreto.

Hiram la fissò a lungo. Una fiamma sinistra, terribile, balenava negli occhi dell'etrusca.

Cenarono in silenzio senza più scambiarsi una parola. Tutti erano tristi e preoccupati.

Di quando in quando s'interrompevano per accostarsi al muricciuolo e dare uno sguardo ai due porti e alle altissime torri, dalle cui piattaforme i frombolieri facevano scattare le catapulte, lanciando negli accampamenti romani enormi palle di pietra.

Tumulti succedevano qua e là, prodotti da attacchi improvvisi che tentavano i nemici senza buon successo però, perché migliaia e migliaia di difensori vegliavano attentamente sugli spalti e sulle massicce bastionate, pronti a respingere gli assalitori.

Alla mezzanotte Hiram lasciava il palazzo per riprendere il suo posto all'estremità del borgo di Neferi, che era sempre il più minacciato. Le legioni romane mossero di nuovo alla riscossa, decise di tentare un audace colpo di mano, che permettesse loro di stringere il blocco e d'impedire agli assediati di ricevere dal di fuori le provviste, che fino allora non mancavano in città.

Visti inutili gli assalti furiosi, Scipione aveva già deciso di costringere gli abitanti alla resa per la fame. E la grande tragedia stava per cominciare. I cartaginesi, per consiglio di Asdrubale, avevano innalzata una formidabile trincea sull'istmo, onde tagliare il passo agli invasori, munendola con buon numero di catapulte.

Scipione che aveva compreso essere quella una delle maggiori chiavi di difesa, aveva dato ordine alle sue legioni d'impadronirsene a prezzo di qualsiasi sacrificio, per togliere agli abitanti ogni speranza di fuggire sul continente. Due giorni e due notti durò la battaglia, con perdite enormi da una parte e dall'altra; ma all'alba del terzo, la disciplina e la ferrea tenacia dei romani, ebbero ragione sulle raccogliticce truppe dei cartaginesi e la trincea fu conquistata. Era quello il primo colpo mortale. Padrone dell'istmo, Scipione poteva intercettare ogni passaggio di viveri.

Per essere più sicuro aveva fatto subito innalzare un'enorme muraglia, alta tre metri, che si estendeva dall'uno all'altro porto, in modo da chiudere dentro perfino le navi della squadra cartaginese e anche quelle mercantili. Tagliati fuori dalla terra, i cartaginesi potevano sperare ancora di ricevere soccorsi dal lato del mare. Scipione però era troppo buon stratega per lasciare loro aperta quella via, ed intraprese la costruzione di due altre dighe, più colossali della prima, separando la città dal mare.

Invano i cartaginesi avevano tentato di opporsi a quelle costruzioni, che toglievano loro l'ultima speranza di sfuggire alla stretta terribile del nemico.

Sorprese notturne, assalti furibondi, combattimenti disperati, non avevano ottenuto altro effetto che quello di affrettare i lavori ai romani, onde non rimanere continuamente esposti agli attacchi degli assediati e così il blocco che era costato alle legioni romane mesi e mesi di durissimo lavoro, sotto il cocentissimo sole africano e perdite immense, era cominciato per la disgraziata città.

— Ecco il principio della fine — aveva esclamato un'altra sera Hiram, rientrando nel palazzo, coperto di polvere e di sangue, avendo pugnato tutto il giorno nel borgo di Neferi, contro il quale i romani s'accanivano con un coraggio disperato. — La fame compirà il resto.

Hermon che era appena ritornato allora dal Consiglio e che, dall'alto della sua superba terrazza, stava guardando i romani a ultimare i lavori del blocco, era rimasto silenzioso.

Ophir, che non abbandonava mai il povero vecchio e che ogni sera aspettava fra mille angosce il fidanzato, che giorno e notte esponeva la vita sui bastioni della città, si era accostata al forte guerriero, slacciandogli la corazza e togliendogli lo scudo, che appariva crivellato di colpi di lancia e di spada.

— Tutto sta per finire è vero, mio Hiram? — gli chiese.

— Questi sono gli ultimi giorni di Cartagine — rispose Hiram con un gesto disperato. — Roma, quell'infame Roma, trionfa ancora.

— E cosa succederà ora? Che non vi sia alcun mezzo per uscire alla stretta fatale?

— Le nostre mura non sono ancora state conquistate, Ophir, — rispose Hiram: — ed il popolo non dispera ancora: e questo è un buon segno, perché potremo contare sempre sul suo appoggio.

— E fino a quando? — chiese Hermon volgendosi.

— Finché la fame non lo avrà abbattuto.

Il vecchio curvò il capo sul petto, mettendosi a camminare lentamente attorno alla tavola; sulla quale stava pronta la cena che nessuno pensava a consumare.

— Che cosa si deve fare? — chiese ad un tratto, fermandosi per la seconda volta dinanzi ad Hiram. — Se tu fossi il capo del Consiglio dei Centoquattro, nelle cui mani si trovano ormai le sorti della patria, giacché i Suffetti perdono il loro tempo a discutere senza mai prendere alcuna decisione, che cosa faresti?

Fu Hiram che questa volta rimase muto.

— Che cosa faresti tu dunque? — ripetè il vecchio, dopo alcuni istanti di silenzio, con voce semispenta.

— Io proporrei di mandare al campo romano, affidandoli alla lealtà di quei legionari, le donne ed i fanciulli, e di far seppellire sotto le rovine della città, tutti gli uomini validi alle armi, dopo una estrema difesa — rispose Hiram. — Morire sì, ma colle armi in pugno.

— E tu mi lasceresti Hiram? — gridò Ophir.

— Rimani al mio fianco se mi ami, e moriamo insieme — disse il capitano.

— Sono pronta!...

— Non siamo giunti ancora a quel momento, fanciulla adorata. Io penso di spezzare questo cerchio di ferro e di pietra che minaccia di soffocarci. Quando vedrò che tutto sarà finito per Cartagine, mi aprirò il passo fra i legionari. Se la morte ci coglierà incolperemo il destino e malediremo i nostri dei, che non sono stati capaci di proteggere il nostro amore.

— Non bestemmiare le nostre divinità, Hiram — esclamò Ophir.

— A che cosa hanno servito? — chiese Hermon, con voce rauca. — Non valgono quelle dei romani, ai quali hanno riserbato onori, glorie, potenza e la conquista del mondo. Esculapio!... Che cosa fa costui nei nostri templi? Tanit, Melkarth, Astarte! Non vedono essi che la nostra città ed il nostro popolo soccombono? Gettiamole in mare quelle false divinità e atterriamo quel mostruoso Baal-Molok, che non ha altra occupazione che di chiedere la vita dei nostri figli.

— Padre! — gridò Ophir.

— Armi e guerrieri — rispose Hermon corrucciato. — Ecco la forza, ecco la potenza, ecco la leva del mondo.

«Se noi invece di dedicarci esclusivamente ai nostri commerci, affidando le nostre difese a vili mercenari, che non hanno patria e che si vendono a chi meglio li paga; se noi invece di occuparci solamente dei nostri guadagni e delle nostre ricchezze, ci fossimo addestrati nel maneggio delle armi, non saremmo a questo punto e non assisteremmo impotenti alla rovina della patria.

«Vi è il popolo, gridano, un popolo numeroso e pronto a morire per la difesa del suolo natìo: che cosa ha fatto? Siamo in settecentomila, abbiamo combattuto, avremo forse compiuto più atti d'eroismo dei nemici e non siamo stati capaci, così numerosi, di impedire ai romani infinitamente minori di noi per forze, il blocco.

«Bella gloria quella!...»

— Eppure un giorno, Hermon, tu disprezzavi gli uomini di spada! — disse Hiram.

— È vero: sono stato uno stupido. Ecco il frutto che raccogliamo noi mercatanti: la nostra rovina. Ma tu che hai nel cervello il genio della guerra, tu che sei giovane, tu che hai combattuto contro a questi romani e che li hai vinti; tu che sei stato compagno di Annibale, non sapresti trovare qualche via, la migliore che ci salvi da questo immane disastro?

— Te l'ho già detto — disse Hiram. — Non ci rimane che di aprirci una via verso il mare e d'assalire con impeto supremo gli assedianti. Raggiunto il continente, vengano a battaglia campale nei nostri deserti i guerrieri di Roma.

— Una via verso il mare! — esclamò Hermon colpito vivamente da quelle parole.

— Sì, sfondiamo la trincea eretta dal nemico, armiamo tutte le nostre navi e tentiamo un colpo disperato. Quando si raduna il Consiglio?

— A mezzanotte.

— Porta ai tuoi compagni la mia proposta. Non vi è niente d'altro da tentare, ricordatelo, Hermon. È un uomo di guerra che ti consiglia, ma non aspettare che la fame abbia atterrata la popolazione. Se riusciremo a forzare il blocco e sorprendere alle spalle i romani, forse Cartagine potrà sfuggire alla tremenda distruzione che l'attende. Ecco quello che ti dice il capitano di Annibale.

— E chi si assumerà il comando della flotta?

— Io, se tu avrai sempre fiducia in me — rispose Hiram.

— E come hai vinto i romani sul mare, li vincerai ancora — disse Ophir con entusiasmo.

— Questo lo si vedrà, fanciulla mia — disse Hiram. — O ci salveremo o morremo tutti nella suprema impresa. La mia daga appartiene sempre alla patria.