Cartagine in fiamme/29. La catastrofe
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LA CATASTROFE
Erano davvero quelli gli ultimi giorni della disgraziata città. Tutti i tentativi fatti dal popolo e dai mercenari, per rompere la cerchia di ferro e di pietra, erano riusciti vani; sicché al cominciare della primavera del 608 A. G. C., la fame aveva cominciato a farsi sentire fortemente, poiché da tre mesi più nessun carico di viveri era riuscito ad entrare in Cartagine.
Erano stati già mangiati tutti i cavalli rimasti, poi gli elefanti, quindi gli animali domestici; ma ben altro ci voleva per nutrire una popolazione che contava ancora più di seicentomila persone, poiché quasi centomila erano già cadute nei continui combattimenti e negli sforzi supremi fatti per rompere quel terribile blocco.
Eppure quella valorosa popolazione non aveva ancora perduta ogni speranza di potersi aprire una via e di raggiungere le navi chiuse entro i due porti: il militare ed il commerciale.
Un avvenimento imprevisto scosse però ben presto la fiducia dei cartaginesi. Come abbiamo detto, da mesi e mesi i romani s'accanivano, con un'ostinazione feroce ed ammirabile, contro la borgata di Neferi, che consideravano come la chiave della città.
Scipione, visto che la fame non aveva ancora indotto la popolazione ad arrendersi, aveva deciso di tentare da quel lato uno sforzo supremo.
Una notte, raccolto il fiore delle sue truppe, aveva mosso coraggiosamente all'attacco, deciso di farla finita una buona volta.
Quella sera, invece d'Hiram, comandava i mercenari incaricati della difesa di quel posto importantissimo, un luogotenente di Asdrubale per nome Diogene, un uomo inetto e più propenso a seguire il triste esempio dato da Famea, che sacrificarsi per una patria che non era veramente la sua, essendo anche lui mercenario. Quel pessimo soldato fu sorpreso e volto facilmente in fuga dalle legioni romane, che avevano fatto impeto contro i bastioni, prendendoli d'assalto. La caduta di Neferi non aveva tardato a trarre in rovina le borgate vicine; così i romani erano riusciti a porre i piedi entro i due porti, investendo da presso le cinte estreme.
Era come se il nemico fosse in casa. L'assalto generale non doveva tardare e fu allora che il Consiglio dei Centoquattro e quello dei Suffetti, disperando ormai di poter difendere la città, decise di accettare l'audace piano proposto da Hiram, ossia di aprirsi una via attraverso il porto e di dare battaglia alla flotta romana. Cinquantamila uomini furono incaricati di aprire uno dei più giganteschi bastioni per dare il passo alla popolazione.
Non dovevano lavorare che di notte, onde i romani non potessero accorgersi dell'audace tentativo.
Alla metà della primavera, la via era aperta. La flotta cartaginese, che era sfuggita fino allora agli attacchi delle squadre, era pronta a salpare, per tentare la distruzione di quella avversaria. Era l'unica speranza che ancora rimaneva. L'esodo della popolazione era stato fissato per la mezzanotte. Le migliori truppe, sotto gli ordini d'Hiram e d'Asdrubale, dovevano imbarcarsi sulle navi di combattimento, coprire la via attraverso le quinqueremi romane, per lasciare il campo a quelle mercantili che erano numerosissime e che potevano imbarcare parecchie diecine di migliaia d'abitanti. Hiram, quella sera, era rientrato nel palazzo d'Hermon più presto del solito. Il vecchio lo attendeva angosciosamente con Ophir, Fulvia e Phegor; mentre gli schiavi affrettavano i preparativi della partenza, rinchiudendo, in grandi forzieri, le ricchezze del miserando loro padrone.
— Fra tre ore dobbiamo essere tutti a bordo della nave ammiraglia — disse il capitano, avanzandosi sul terrazzo. — Questo sarà l'ultimo colpo che giuocheremo. Date pure l'ultimo addio a Cartagine che non rivedremo più mai!
Un penoso silenzio aveva accolto le parole del guerriero.
Hermon aveva le lagrime agli occhi, Ophir singhiozzava sommessamente, Phegor era tetro. Solo Fulvia sembrava impassibile.
— Tutto dunque è finito per Cartagine? — chiese finalmente Hermon con voce sorda.
— Fra tre giorni i romani intimeranno la resa, poi daranno l'assalto generale — rispose Hiram. — L'ho saputo quest'oggi da un prigioniero romano. La distruzione della città è stata decretata dal Senato romano; e non dovrà rimanere pietra su pietra di quella che fu la nostra culla. Gli dei ci hanno abbandonati!
— Eppure quanti nostri figli abbiamo sacrificati a Baal-Molok!
Hiram alzò le spalle.
— Una divinità bugiarda e feroce! — rispose poi. — Quali vantaggi ci hanno recati tanti sacrifici? Solo quello di fare piangere tante madri.
— E tu sei pienamente convinto che non si possa ormai più tentare nessuna disperata difesa in Cartagine?
— Nessuna — rispose Hiram. — Il popolo, quel popolo su cui voi tanto contavate, è ormai scoraggiato e le truppe sono stanche e decimate. Che cosa vuoi sperare? Solo la morte.
— E riusciremo noi ad aprirci un varco attraverso la flotta romana?
— Chi può dirlo? Io farò il mio dovere di guerriero fino all'ultimo, per salvare Ophir e per fare ai nemici il maggior danno possibile.
— Lasciar Cartagine! — gemette il vecchio. — Povera patria!... Che cosa accadrà del nostro popolo respinto verso il grande deserto? Come potrà vivere lungi dal mare?
— Seguiamo il nostro triste fato — disse Hiram. — Chissà, forse un giorno questo nostro popolo potrà riacquistare la sua antica potenza e ritrovare un altro Annibale e vendicare l'atroce onta.
— Noi allora non saremo più vivi.
— Facciamo l'ultima cena — disse Hiram. — Domani o posdomani questa casa non esisterà più e scomparirà fra vortici di fuoco.
— E dove andremo? — chiese Ophir, piangendo.
— Se la fortuna ci assisterà, andremo a cercarci una nuova patria, là dove i fenici ebbero la loro culla primitiva e dove ho passato due anni d'esilio — rispose Hiram. — Tiro ricorda Cartagine più di quello che tu credi, mia diletta.
— Io sono pronta a seguirti dove tu vorrai condurmi. Perderò la patria che pur tanto amavo; ma fra tanta disperazione mi rimarrà uno dei suoi più valenti difensori.
Si assisero per fare insieme l'ultima cena sul suolo natìo, cena che poteva anche essere l'ultima davvero per tutti, perché stavano per giuocare la vita in quel tentativo disperato.
Mancava qualche ora alla mezzanotte, quando Hiram, dopo aver osservate le stelle, s'alzò dicendo:
— È il momento d'andare. Coraggio, amici! Ophir, Fulvia, copritevi onde nessuno vi riconosca.
— Io ho giurato di rimanere in Cartagine — disse l'etrusca.
— A che fare? — chiesero ad una voce il capitano e Phegor.
— Vi avevo detto già che io non avrei lasciata la città — rispose Fulvia con voce ferma.
— Non sai tu che fra due o tre giorni succederà qui uno spaventevole massacro? — disse Phegor.
— Lo aspetterò tranquillamente. D'altronde non credo che i miei compatrioti pensino a trucidare barbaramente una intera popolazione. Distruggeranno la città, ma non i suoi abitanti.
— Chi lo assicura? — chiese Phegor.
— Tu non conosci i romani.
— Abbiamo già conosciuta la loro lealtà. Prima ci hanno privati delle armi, delle macchine da guerra e delle nostre migliori navi; e poi ci hanno intimato di lasciare il mare e diventare miseri agricoltori. Fidati ora di costoro, Fulvia!
— Ed hai ragione, Phegor — disse Hermon. — Più nessuno può credere alla generosità d'un simile popolo che mente così infamemente. Domani o posdomani prometteranno salva la vita agli assediati, e poi li trucideranno dal primo all'ultimo, appena avranno ceduto le armi.
— Succeda quello che si vuole, io non lascerò Cartagine — disse l'etrusca fissando su Phegor due occhi fosforescenti. — La mia decisione sarà irrevocabile. Vuoi rimanere con me e diventare mio marito, giacché tu dici che mi ami? Resta al fianco mio. Non lo vuoi? Ebbene, imbarcati sulla flotta e va' a trovare un rifugio in Iberia, od in Grecia.
— Senza di te? — gridò Phegor.
— Sì, senza di me — rispose l'etrusca.
— Fulvia! — esclamò Ophir. — Perché tu vuoi rimanere qui, in mezzo a questa gigantesca rovina, mentre hai la possibilità di salvarti e di rivedere ancora il tuo paese?
— È una follia la tua — disse Hiram. — Tuo padre e tua madre mi hanno salvati. Lascia dunque che ora io salvi te.
— No — rispose l'etrusca. — Io ti sarò egualmente riconoscente. Partite tutti e siate felici. Io voglio assistere all'immane disastro. Mi uccideranno i miei compatrioti? Della vita me ne rido io!
Così parlando guardava ora Phegor ed ora il capitano: però quanta diversità in quegli sguardi! Sulla spia erano bagliori sinistri, gravidi d'una orribile minaccia; sul guerriero erano sguardi umidi che tradivano un immenso rimpianto, una cupa disperazione.
— Tu verrai! — urlò Phegor esasperato.
— Chi comanderà alla mia volontà? — disse l'etrusca con voce sibilante. — Tu, o con me in Cartagine, o senza di me. Hiram va a sfidare la morte combattendo, pel bene dei suoi compatrioti, va a tentare l'ultima battaglia; tu per chi devi pugnare?
— Sono un guerriero anch'io.
— Egli lotta per la salvezza della sua fidanzata.
— Io lotterò per te.
— Ebbene difendimi in Cartagine.
— È una pazzia, Fulvia — disse Hiram. — Tu cerchi la morte rimanendo qui.
— No, la vita invece — rispose l'etrusca.
— I romani ti spegneranno.
— Non l'hanno ancora uccisa la mia anima. E poi, — aggiunse con un certo sarcasmo, — saremo in due a difenderla, è vero Phegor?
La spia la guardava intensamente come se avesse cercato di sorprendere, nelle nere pupille della giovane etrusca, qualche pensiero.
— Mi hai udito, Phegor? — chiese Fulvia non avendo ricevuto alcuna risposta.
— Sì — rispose la spia con voce soffocata.
— Partirai?
— Senza di te? È impossibile.
— Rimani allora presso di me, a godere gli ultimi istanti della nostra vita, se è vero che noi dobbiamo morire. Io non ho paura né delle lance, né delle daghe dei miei compatrioti, e tu?
— La morte al fianco tuo non mi fa tremare — rispose la spia soggiogato dallo sguardo maliardo dell'etrusca. — Non ho amato che una sola donna durante la mia miserabile vita, te, che sei una straniera, una nemica. Triste sono nato e morrò infame; ma presso di te, nemica adorata.
— Folli! — gridò Hiram. — È la morte che cercate.
Afferrò poi Fulvia per una mano e la trasse violentemente verso di sé:
— Io non voglio che tu ti sacrifichi inutilmente, quando la vita può ancora arriderti sotto il bel cielo d'Italia, quel cielo che mi ha dato ebbrezze infinite e che mi ha guarito.
Un sorriso amaro comparve sulle labbra dell'etrusca.
— Va', Hiram, — disse poi; — fa' felice Ophir che tanto ti ha amato e che tu hai tanto amata. Se i miei numi e quelli di Phegor ci proteggeranno, chissà che un giorno non ci rivedremo. Parti! Le navi si illuminano nel porto e si preparano alla suprema battaglia. Addio Ophir, addio Hermon, addio Hiram! Io e Phegor assisteremo all'ultimo istante di vita dell'infelice Cartagine.
— Vieni con noi Fulvia! — gridò Ophir cercando di trascinarla.
— No: mai! — rispose l'etrusca con suprema energia. — Mai! Voglio vedere i miei compatrioti entrare in Cartagine.
— Uccideranno anche te.
— Non importa: avrò Phegor al mio fianco.
— Tu sei folle — disse Hermon. — Ti si offre la salvezza e la respingi!
— L'avevo già detto a Hiram che io sarei rimasta qui. Perché dovrei ora cambiare ciò che ho affermato? Partite amici. Se potrò sfuggire alla morte, verrò a raggiungervi un giorno a Tiro. Partite, prima che i romani s'accorgano del vostro tentativo.
— Se il guerriero che tuo padre salvò dalla morte ti pregasse di seguirlo, rifiuteresti? — chiese Hiram che appariva estremamente commosso.
— Sì.
— Se ti pregasse in nome di tua madre?
— Rifiuterei egualmente.
— Allora addio, Fulvia! Io non mi scorderò mai di te.
— Addio Hiram, addio fratello — rispose la giovane frenando i singhiozzi che la soffocavano. — Sii felice!
Baciò sulla fronte Ophir che piangeva, strinse la mano al vecchio Hermon, poi tenne per qualche istante, ben stretta nella sua, quella del forte guerriero.
— Sii felice! — ripetè.
Un drappello di veterani guidato da Sidone e Thala aveva fatto in quel momento irruzione sul terrazzo.
— Capitano, la flotta non aspetta che te — disse il fedele veterano.
— Eccomi — rispose Hiram.
Phegor si ritirò in un angolo traendo seco Fulvia, singhiozzante. Hiram diede alla povera fanciulla un ultimo sguardo, represse un sospiro e scese la scala dando la mano ad Ophir.
Hermon li seguiva triste e taciturno. Pochi minuti bastarono a raggiungere il porto, dove si trovava pronta all'attacco tutta la squadra. Un profondo silenzio regnava sulle calate e sulle mura, quantunque migliaia e migliaia di persone si fossero radunate pronte ad imbarcarsi, se l'ardito tentativo avesse avuto buona fortuna.
Anche nel vicino campo romano, che si trovava al di là dell'immensa diga, fatta innalzare da Scipione, non si udiva alcun rumore.
— A te il timone, Sidone — disse Hiram, dopo d'aver fatto dare il segnale di partenza alla flotta. — Attacca a colpi di rostro e sfonda qualunque ostacolo che vedrai sorgere dinanzi a te.
Comandò di abbassare tutti i corvi, mettendo dietro ognuno dei forti drappelli di guerrieri, onde poter respingere qualunque abbordaggio, e mosse diritto verso la bocca del porto, dinanzi a cui si trovava ammassata la flotta romana, ancorata su una doppia linea.
Le navi cartaginesi si erano pure disposte su due linee, onde l'urto riuscisse più poderoso e procedevano quasi silenziose, avendo avuto i remiganti la precauzione di avvolgere i remi con stracci.
Non si udiva che il gocciolìo dell'acqua, cadente dalle lunghe pale. Hiram, dal castello di prora, sorvegliava attentamente i nemici. Ai suoi fianchi aveva Ophir ed Hermon. Intorno a lui si erano stretti i veterani ed i numidi con Thala, per proteggerlo dai dardi.
Giunte alla bocca del porto, le navi cartaginesi presero una corsa furiosa contro le romane, che non s'aspettavano certamente una simile sorpresa. La quinqueremi d'Hiram, che era alla testa della flottiglia, fu la prima a precipitarsi all'attacco con impeto irresistibile.
Con un colpo di rostro squarciò il fianco ad una triremi, che le sbarrava il passo; poi filò a tutta forza di remi fra la doppia colonna urtando a destra ed a sinistra le navi avversarie, strappando loro le ancore e gettando le une addosso alle altre.
Tre navi minori, che avevano seguita la sua volta, passarono felicemente attraverso a quello squarcio, raggiungendo il legno ammiraglio, ma alle altre mancò il tempo.
I romani, quantunque sorpresi, non avevano perduta la testa. Dato mano ai remi, a loro volta assalirono con rapidità prodigiosa il resto della flotta cartaginese, ributtandola entro il porto dopo un brevissimo combattimento. Hiram, colle lagrime agli occhi, impotente, aveva assistito alla sconfitta. Gettarsi contro la squadra romana, che era forte di trecento navi, sarebbe stata una follia, un massacro inutile.
Il valoroso aveva bensì in un impeto di disperazione, fatta la proposta di ritornare indietro e di impegnare un'ultima lotta, ma Hermon, Thala e Sidone si erano opposti energicamente a quel sacrificio, che non sarebbe stato di nessun giovamento alla patria; e quelle quattro navi, sfuggite miracolosamente alla stretta formidabile dei romani, avevano continuata la loro veloce corsa verso levante per mettersi in salvo a Tiro.
Tre giorni dopo il tentativo disperato della flotta cartaginese, Scipione, che era premuroso di finirla con quell'assedio che stremava le sue legioni, inviava degli araldi sotto le mura di Cartagine, invitando quei cittadini che volevano sfuggire agli orrori dell'assalto, a uscire e di arrendersi nel campo romano.
Cinquantamila persone, per la maggior parte donne e fanciulli, uscirono dalla città, mettendosi sotto la protezione del console, e fra quelle il generalissimo Asdrubale che dimentico, all'ultima ora, del suo dovere di patriota, andò a gettarsi ai piedi di Scipione implorando mercé.
Sua moglie, che era salita sul tempio d'Esculapio, che s'innalzava sopra la rocca, vedendolo uscire coi fuggiaschi, fece vedere a quel codardo il suo coraggio, precipitandosi insieme coi figli nella sottostante strada. A mezzogiorno i romani montavano all'assalto, impegnando dovunque furiosi combattimenti. Non valsero le catapulte, né le daghe, né il coraggio disperato degli assediati a trattenerli.
Superate le mura, dopo aver subito però terribili perdite, si rovesciarono nel foro, cercando di giungere per tre vie alla rocca dove si erano radunati gli ultimi difensori della disgraziata città.
Intanto i diversi quartieri avevano preso fuoco. Gli stessi cartaginesi avevano incendiate le loro case, per opporre fra loro e lo spietato nemico una barriera di fuoco. Perfino i templi ardevano: e questi per opera dei disertori romani, i quali, non potendo sperare alcuna mercé da parte del severo proconsole, avevano preferito cercare la morte fra un'onda di fuoco.
Spaventoso fu l'assalto dato alla rocca. Le tre vie che vi conducevano furono gremite di cadaveri cartaginesi, e quella fu l'ultima difesa opposta da quei miseri. Poi cominciò l'orrenda strage! Mentre i romani s'avanzavano verso il centro della città, passando a filo di spada quanti incontravano, e mentre le case fiammeggiavano lanciando in alto spaventevoli lingue di fuoco, ed immensi turbini di fumo, Fulvia, dall'alto del terrazzo di Hermon, assisteva impassibile alla distruzione della città. Invano Phegor, che vedeva il fuoco avanzarsi da una parte, tutto distruggendo, ed i romani dall'altra, tutto sterminando, aveva cercato di trascinarla con sé sperando di trovare in qualche luogo uno scampo. L'etrusca si era energicamente rifiutata di seguirlo.
— Non è ancora giunto il momento — rispondeva a tutte le preghiere della spia. — Resta presso di me: voglio mirarti al bagliore delle fiamme.
— Non vedi, fanciulla, che siamo quasi circondati dal fuoco? — urlava la spia, pazza di terrore.
— Il palazzo di Hermon è troppo solido per crollare.
— Ti dico che ben presto avvamperà.
— T'inganni, Phegor. Guarda che superbo spettacolo! Guardalo Phegor! Io non avevo mai veduto prima d'oggi una città a bruciare. Vieni qui, presso di me Phegor, e stringimi stretta fra le tue forti braccia.
— Tu sei pazza, Fulvia! Tu cerchi la morte.
— Ebbene, moriamo insieme.
— Io voglio vivere per amarti e non morire.
— Guarda Phegor! Guarda!
La spia, suo malgrado, si era avvicinata al parapetto della terrazza, sopra il quale passavano già nubi di densissimo fumo.
Tutta la città era in fiamme e centinaia e centinaia di case diroccavano con immenso fragore, travolgendo gli abitanti che si erano asserragliati dentro per sfuggire alle spade romane.
Urla spaventevoli s'alzavano da tutte le parti; e verso i bastioni migliaia di fuggiaschi, stretti da vicino dai nemici, si precipitavano nel vuoto, imprecando contro la barbarie romana.
Fulvia si era avvicinata a Phegor, stringendolo fortemente fra le braccia e posando il mento su una delle di lui spalle.
— È superbo questo spettacolo! È vero Phegor? — chiese la giovane con un suono di voce che fece trasalire la spia. — Come deve essere orribile la morte fra le fiamme.
— Se la temi, fuggiamo allora! — gridò il disgraziato.
— Aspetta ancora, aspetta mio diletto, poi ce ne andremo.
— Sarà troppo tardi allora. Il fuoco ci circonda... fuggiamo Fulvia! Fuggiamo! Ho paura!
— Tu? che sei sempre stato così coraggioso?
In quel momento un'immensa nube di fumo si abbattè su di loro, avvolgendoli in un nembo di scintille.
Quasi nell'istesso momento urla spaventevoli echeggiarono nelle stanze inferiori del palazzo. Erano gli schiavi che urlavano a squarciagola:
— Al fuoco! Al fuoco!
Phegor, mezzo soffocato dal fumo, fece uno sforzo disperato per liberarsi dalla stretta di Fulvia; ma questa resistette ferocemente, anzi raddoppiò la pressione.
— Fuggiamo!... Lasciami Fulvia! — gridò Phegor mentre una seconda nube li copriva, e tutto intorno al terrazzo s'alzavano vampe gigantesche.
— Sì, quando il fuoco ci avrà consumati entrambi! — rispose l'etrusca con voce terribile. — Tu hai uccisa mia madre ed io ti rovescerò nel baratro fiammeggiante, miserabile! Muoio io, ma morrai anche tu!
— Grazia, Fulvia.
— No, voglio la tua vita — rispose l'etrusca raddoppiando la stretta. — Sappi però, prima che i nostri corpi si consumino nella voragine cartaginese, che ti ho sempre odiato e che non ho amato che un solo uomo: Hiram!
Un singhiozzo le lacerò il petto e fu anche l'ultimo.
Un istante dopo la terrazza sprofondava, trascinando entrambi in quel mare di fuoco! Cartagine non esisteva più!