Cartagine in fiamme/27. Lo scontro
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LO SCONTRO
Il supremo sforzo che tentava l'infelice Cartagine, condannata dall'egoistico Senato romano ad una completa distruzione, onde non avere rivali pericolosi nel Mediterraneo, mare che considerava puramente italiano, non doveva finire che in un immane disastro, malgrado il valore disperato dei suoi abitanti e dei suoi capitani.
Roma era diventata ormai troppo possente perché un popolo, fosse asiatico, od africano, od europeo, potesse arrestarla nei suoi trionfi. Foltissima per mare e per terra, poteva dettare legge al mondo allora conosciuto, senza timore di subire delle sconfitte. Inorgoglita dalle vittorie appena allora riportate in Grecia ed in Macedonia, dove i legionari romani avevano passato a filo di spada, con ferocia inaudita, popolazioni intere, le pareva facile giuoco vibrare un colpo mortale anche all'antica colonia fenicia, che un giorno aveva fatto tremare e dubitare i romani delle sorti della patria.
Ottantamila uomini, una forza imponente per quei tempi, erano stati scelti per la distruzione della misera città e per la conquista del suo territorio. Imbarcatili su una squadra che contava più di trecento navi, fra quinqueremi di battaglia e trasporti, li aveva inviati, senza perdere tempo, in Africa, per piombare sui cartaginesi, prima che questi avessero il tempo di rifornirsi di mezzi di difesa. Era contro quella superba flotta, bene munita d'equipaggi e di saldi guerrieri, destinati a combattere sui corvi, che Hiram tentava, con sì scarsi mezzi, di opporre un valido ostacolo all'invasione nemica.
Era un eroismo affatto inutile; tuttavia il fiero capitano, quantunque non si illudesse sull'esito finale, si era messo sollecitamente in rotta verso Utica, colla speranza almeno di sgominare l'avanguardia e di tribolare, per quanto gli fosse possibile, il grosso, onde dare tempo al popolo cartaginese di prepararsi alla resistenza e di ultimare i suoi armamenti.
Non erano che diecimila contro ottantamila, quasi tutti mercenari, che non dovevano provare il vero amore di patria, perché non combattevano che per la paga; tuttavia la presenza del grande capitano, amico di Annibale, aveva infuso in tutti un grande ardore, sperando in un miracolo. Fu sul far del giorno che la squadra cartaginese, che aveva vogato con gran lena, dal momento della sua partenza, giunse in vista d'Utica, città che si doveva ormai considerare come nemica perché si era data completamente nelle mani dei romani.
Hiram assicuratosi che la squadra romana non era ancora giunta, e disperando d'altronde, con sì poche forze che aveva seco, di prenderla d'assalto in poche ore, essendo ben munita, volse decisamente la prora verso settentrione. — Andremo ad incontrare i nostri nemici — disse a Sidone ed a Thala. — Può darsi che la squadra non giunga tutta unita e allora avremo buon giuoco. Non contiamo di distruggerla: sarebbe una speranza folle. Cerchiamo almeno di indebolirla.
Tutto il giorno le triremi e le quinqueremi cartaginesi arrancarono verso settentrione, senza scoprire alcuna nave.
La notte era nuovamente calata: ancora nulla. Forse la squadra nemica aveva fatto sosta a Malta, per rifornirsi di vettovaglie. Così almeno la pensavano i capitani cartaginesi.
Hiram che non voleva allontanarsi troppo dal golfo per non vedersi costretto, in caso d'una disfatta non improbabile, di ripararsi in altri mari lontani e perdere così Ophir, stava per dare ordine di ripiegare verso Utica, quando Phegor, a cui nulla sfuggiva, segnalò un gran numero di punti luminosi all'orizzonte. Venivano da settentrione, quindi non potevano essere che nemici.
— Devono essere loro — disse Sidone che in quel momento si trovava presso Hiram. — Sono molti, molti; però un urto poderoso si può darlo. Padrone, fa' spegnere tutti i nostri fanali e piombiamo di sorpresa su quei cani di romani. Daremo contro coi nostri rostri. Fa' dispensare vino ai rematori e dividi le tue forze su due colonne. Assaliremo a babordo ed a tribordo.
Hiram, che dinanzi a quel grave pericolo conservava una calma superba, la quale destava l'ammirazione di tutto l'equipaggio, impartì ai suoi capitani gli ordini, poi quando vide la flotta disposta su un doppio ordine, con un gran vano nel mezzo, comandò di avanzare colla massima velocità e di dare dentro coi rostri ferocemente.
La notte, che era piuttosto oscura, favoriva l'audace mossa del capitano. In pieno giorno un attacco non sarebbe stato possibile, se la flotta romana si fosse avanzata in ordine serrato.
Hiram, che aveva piena fiducia nel suo hortator, aveva affidato a lui la direzione della quinqueremi di comando, riservandosi di arrembare le navi romane alla testa dei mercenari, che erano in buon numero sulla sua nave. Alle dieci di sera, quando l'oscurità era maggiore, le due squadre erano quasi a contatto. Quella romana era perfettamente visibile, avendo i suoi fanali accesi, mentre quella cartaginese, era immersa nell'ombra, avendo spento tutti i suoi lumi. L'attacco stava per cominciare, quando Phegor s'accostò al capitano.
— Che cosa vuoi tentare? — gli chiese. — Qualche follia?
— Darò contro gli avversari — rispose il capitano.
— Vorresti tu sgominarli?
— Mi ci proverò.
— Non dimenticare che Cartagine ha bisogno d'uomini.
— Ne sacrificherò meno che mi sarà possibile.
— Prima di tentare un tale colpo pensaci due volte.
Hiram ebbe uno scatto d'ira:
— Chi comanda qui? Tu od io? Dimmelo prima d'impegnarmi a fondo.
— Io sono incaricato solamente di sorvegliarti.
— Va' a dire ad Hermon che se ne stia tranquillo nel suo palazzo, che il capitano d'Annibale si prepara a salvare Cartagine, giuocando la sua vita. Vuoi una barca prima che s'impegni la lotta? In tre o quattro ore potresti trovarti al sicuro entro Cartagine.
La spia fece un gesto di diniego.
— Sono meno vile di quello che tu credi — disse poi. — D'altronde te ne ho dato una prova la notte che tu mi assalisti presso la torre dell'ultima calata. Un altro, sapendo d'aver di fronte un guerriero forte come te, sarebbe fuggito come uno sciacallo, mentre invece io ti affrontai facendo del mio meglio per ucciderti.
— Io non lo nego — rispose Hiram. — Dimmi che cosa vuoi.
— Io?... Nulla.
— Allora lascia che io faccia quello che ritengo più opportuno. I romani sono là, dinanzi a noi. Dovrò io fuggire?
— No, tu sei un valoroso, un vero capitano degno di figurare a fianco del grande Annibale.
— Allora lasciami fare, e non occuparti d'altro che di salvare la tua pelle, se lo potrai.
— Non pensi più a Ophir?
— In questo istante supremo non penso che alla salvezza della repubblica — rispose Hiram.
— Tu sei un grande capitano.
Il cartaginese alzò, le spalle e s'accostò a Sidone che maneggiava, con forza sovrumana, il lungo remo che serviva da timone.
La flotta romana, certa di non trovare ostacoli, s'avanzava sicura e tranquilla verso Utica, preceduta da un forte nucleo di triremi, che le servivano come d'esploratori.
Era appunto su quelle, che dovevano portare un gran numero di guerrieri, che Hiram voleva tentare il colpo.
Assalire il grosso della flotta nemica, formato da non meno di duecento quinqueremi, fornite di corvi, già non ci pensava. Sarebbe stato come gettarsi nelle fauci d'un mostruoso leone.
L'avanguardia romana, che contava non meno di una cinquantina di navi, si era così avanzata fra le due linee cartaginesi le cui navi, non avendo alcun fanale, rimanevano confuse fra le tenebre.
Hiram lasciò che s'addentrasse ben bene nel trabocchetto, poi la sua voce s'alzò poderosa fra l'oscurità, dominando il fragore prodotto da quella moltitudine di remi.
— Sotto! Cartagine!...
Era quel grido il segnale convenuto per l'attacco.
La flotta cartaginese si era illuminata come per incanto, con fanali tutti verdi per distinguersi dalle navi romane, che li avevano invece tutti bianchi; poi triremi e quinqueremi si precipitarono all'assalto, emergendo improvvisamente dall'ombra.
Non si trattava di dare l'abbordaggio, onde non farsi sorprendere dal grosso della squadra nemica, che si trovava appena ad un miglio di distanza e che procedeva compatta su quattro colonne; ma di urtare, sventrare e colare a fondo quante più navi romane si poteva.
Il grido d'Hiram si ripetè su tutte le navi con un clamore assordante, lanciato da diecimila bocche.
L'urto dei cartaginesi fu formidabile, spaventoso. Lanciate a tutta velocità rostrarono furiosamente quante triremi si trovarono dinanzi alla prora con un rimbombo assordante, squarciando e sventrando.
L'avanguardia romana, sorpresa da quell'improvviso attacco, che era ben lungi d'aspettarsi, perché non credeva che la squadra cartaginese antiquata, ridotta a minimi termini e male armata avesse da osare tanto, non ebbe nemmeno il tempo di cambiare rotta.
In meno di cinque minuti, più di venti navi, cariche di marinai e di guerrieri, colarono a picco, fracassate dai rostri cartaginesi e andarono a fondo fra un urlìo spaventoso.
Le altre, sfuggite alla morte, diedero precipitosamente indietro, fuggendo verso il grosso della flotta, la quale, già avvertita da quei cozzi orrendi, che qualche terribile avvenimento succedeva, s'avanzava a gran furia di remi. Non vi era più nulla da fare da parte dei cartaginesi. La sorpresa era riuscita al di là delle loro speranze e di più non potevano fare con una flotta già ormai mezza sconquassata.
Il segnale di ripiegarsi a tutta velocità fu dato, e triremi e quinqueremi si misero in corsa verso Cartagine, prima che la poderosa squadra romana giungesse sul luogo dell'attacco.
— Credi tu che un altro avrebbe potuto ottenere un maggior successo con sì poco sforzo? — chiese Hiram a Phegor, che durante la battaglia non si era staccato un sol momento dall'audace capitano, sorvegliando attentamente ogni sua mossa.
— Tu meriteresti un arco di trionfo — rispose la spia. — Annibale sapeva scegliere i suoi capitani.
— Io spero che Hermon non si pentirà d'aver avuto fiducia in me.
— Sarà orgoglioso d'aver pensato a te. Tu hai guadagnato questa notte la mano d'Ophir.
— Se non fossi riuscito nell'impresa me l'avrebbe negata? — chiese Hiram aggrottando la fronte.
Phegor lo guardò per alcuni istanti senza rispondere, poi disse:
— Si dubitava di te.
— Di me?
— Un altro al tuo posto si sarebbe forse vendicato dell'esilio immeritato e avrebbe tradita la patria.
— Altri forse, ma non io — disse Hiram con fierezza.
— E allora avresti perduto Ophir.
— Se è in mia mano!
— E tu credi che il vecchio Hermon ignori dove tu l'hai nascosta?
— Chi può averglielo detto? Solo tu.
— Io devo servire tutti coloro che mi pagano — rispose la spia. — Se rendo qualche servigio a te, è mio dovere renderne anche agli altri.
— Che durante la mia assenza abbia assalita la casa di Fulvia? — chiese Hiram, impallidendo.
— Il vecchio Hermon ne avrebbe forse avuta l'intenzione; ma io l'ho sconsigliato dal farlo; quindi non hai nulla da temere. Cartagine ha troppo bisogno di buoni guerrieri per guastarsi coi suoi figli migliori. Non so però se tu avrai tempo di far tua sposa la figlioccia di Hermon ed io l'etrusca — aggiunse poi Phegor con un profondo sospiro. — Questa guerra verrà a guastare i nostri affari.
— I romani non sono ancora entrati in Cartagine — disse Hiram. — Una città così ben fortificata e così popolosa, non si prende in un solo giorno.
Si era voltato guardando oltre la poppa. Sull'oscuro orizzonte i fanali delle navi romane brillavano dispersi qua e là, come uno sciame di lucciole. I romani erano però così lontani da non incutere timore alle fuggenti navi cartaginesi, le quali avevano marinai ben più allenati e vogatori più abili.
— Giungeremo a Cartagine ben prima di loro — disse Hiram. — La vendetta, per questa volta almeno, non l'avrete, superbi romani. Ciò vi dimostrerà quanto può fare un popolo calpestato da un altro, pel solo pretesto di essere il più forte. Vi aspetto in città.
Tutta la notte la squadra cartaginese continuò a fuggire velocissima, e poco prima dell'alba, si trovava ormai al sicuro dentro il porto mercantile, difesa da un gran numero di catene tese all'imboccatura del canale, onde impedire l'entrata alla navi avversarie.
Alle grida di vittoria, lanciate dagli equipaggi, una folla immensa si era riversata sulle calate, ansiosi di notizie.
Hiram approfittando della confusione che regnava a bordo di tutte le navi e dei clamori entusiastici dei suoi marinai e dei cittadini, ai quali la buona nuova era stata comunicata con una rapidità fulminea, era disceso in una scialuppa insieme con Thala, Phegor e Sidone per recarsi al palazzo di Hermon innanzi a tutto.
Presero terra quasi inosservati all'estremità del molo di ponente e salirono, a passo di corsa, verso il tempio di Tanit, nei cui pressi sorgeva la sontuosa dimora del capo dei Centoquattro.
Trovarono il vecchio sull'ampio terrazzo, sovrastante la casa e dominante tutto il porto. Era intento a osservare ed a contare le navi della squadra, essendosi intanto alzato il sole. Scorgendo Hiram, un lampo d'ira intensa era balenato nei suoi sguardi.
— È così che tu difendi la patria, — gridò, — facendo una semplice passeggiata sul mare per rientrare subito senza aver nemmeno scagliato un dardo?
— Non vi era bisogno di adoperare gli archi — rispose Hiram con calma. — Erano i rostri che dovevano agire.
— Per fendere l'acqua è vero? — chiese Hermon con sarcasmo. — L'ultimo dei miei servi sarebbe stato capace di ottenere le vittorie che hai riportato tu.
— Non quello però di mandare a fondo, rotte e fracassate, più di venti navi romane, cariche di guerrieri e di affogarli tutti.
— Che cosa dici tu? — gridò il vecchio rizzandosi con suprema energia.
— Che tutta l'avanguardia della flotta romana è stata dispersa; e che metà di essa riposa ormai in fondo al Mediterraneo.
Hermon guardò Phegor che sorrideva silenziosamente.
— È vero — disse la spia. — Il capitano ha teso ad essa un agguato e l'ha distrutta.
Un urlo di gioia era sfuggito dalle labbra del capo dei Centoquattro.
— Tu hai compiuto un simile miracolo Hiram?
— Ho fatto quello che ho potuto. Tu sai di quali navi poteva disporre la repubblica.
— Ed hai egualmente vinto?...
— E ti riconduco tutti gli uomini che mi avevi affidati, e che sono così necessari alla difesa della città.
— Tu sei Melkarth in persona. Qua, fra le mie braccia, figlio mio!... Tu sei un degno compagno di Annibale.
Il vecchio si era gettato addosso al capitano, stringendoselo freneticamente fra le scarne braccia:
— E dire che avevo dubitato di te!...
— Avevi torto — rispose semplicemente Hiram.
— Ed i romani?
— Sono ancora al largo. Probabilmente avranno gettato le ancore a Utica.
— E non t'hanno inseguito?
— Sì, ma noi siamo stati più lesti di loro.
— È grossa la loro squadra?
— Numerosissima.
— Si frangerà contro i nostri formidabili bastioni — disse Hermon. — La vittoria che tu, figliuol mio, hai riportata, infonderà novella febbre nel nostro popolo. Con uomini come te si ha il diritto di sperare.
Poi vedendo che Hiram girava intorno gli sguardi sospettosamente, gli chiese: — Che cosa cerchi?
— Guardavo se Ophir era qui.
Il vecchio sorrise paternamente.
— Tu credevi che io approfittassi della tua assenza per riprendermela, è vero? — chiese.
— Infatti mi era sorto un tale dubbio — rispose Hiram.
— L'ho lasciata dove tu l'hai nascosta, quantunque non ignorassi dove si trovava — disse Hermon.
— Allora lascia che vada a vederla.
— È inutile. Manderò i miei servi a prenderla e rientrerà nel mio palazzo a festeggiare il mio ospite.
— Chi?
— Tu: un esiliato non ha più casa e gli offro la mia.
— E Fulvia?
— Seguirà Ophir. Vieni con me al Consiglio che ha tanto bisogno, in questi momenti, dei tuoi lumi e del tuo braccio. Dobbiamo pensare a organizzare la difesa, prima che i romani ci siano addosso.