Cartagine in fiamme/13. Il ratto d'Ophir
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IL RATTO D'OPHIR
Fulvia con una scossa improvvisa si liberò dalla stretta, ergendosi fieramente dinanzi alla spia.
Una fiamma sinistra illuminava i suoi bellissimi occhi neri e profondi, ed il suo viso aveva assunto un aspetto selvaggio, quasi feroce.
— Tu vuoi lottare con me, una donna della grande Roma? — gli chiese con voce sibilante. — Provati dunque!... Tu non sai di che cosa siamo capaci noi, donne della forte e fiera terra itala!... Provati!...
Phegor, non abituato a vederla così fiera, così ribelle, era rimasto sconcertato.
Sapeva che le donne di Roma valevano ben di più di quelle cartaginesi, troppo rammollite dalla dolcezza del clima africano, tuttavia non le credeva risolute a quel punto.
— Minacci, mi pare — disse dopo un lungo silenzio.
— Sì, minaccio — rispose Fulvia con voce sibilante.
— Non mi ameresti più?
Un sorriso sdegnoso che l'ombra nera, proiettata dal porticato, non permise alla spia di osservare, contorse le labbra della giovane etrusca.
— Dammi tu prima una prova del tuo amore — disse.
— Vuoi il mio sangue?
— Non so che farne ora.
— Che cosa dunque?
— Il tuo silenzio.
— Ossia che non tradisca quegli uomini, è vero?
— Sì.
— Tu chiedi più della mia vita — disse la spia. — Oh! Che il Consiglio mi pagherebbe per tradirlo? Quell'esiliato è un nemico della repubblica.
— Lui, che ha combattuto contro Roma con Annibale?
— Io non l'ho veduto a combattere.
— Lo so io, che l'ho accolto in casa mia e curato da un colpo di lancia vibratogli da un astario romano.
— Ah! — fece Phegor. — È per quello e per altro ancora che vorresti salvarlo.
— Che cosa bestemmi tu — disse Fulvia con voce sprezzante. — Lui che ama la figlia di Hermon?
— Come ragionano queste etrusche — disse la spia ironicamente. — Ebbene, che cosa vuoi dunque tu da me?
— Una prova che tu veramente mi ami.
— Quale?
— Di non tradire quegli uomini.
— E sarai mia tu un giorno?
— Te lo prometto.
— Giuralo su Venere Anfitrite.
— Non è una mia divinità.
— Non importa: giuralo.
Fulvia rimase silenziosa. Se l'ombra del porticato non l'avesse nascosta, Phegor avrebbe scorto sul viso della giovane una angoscia terribile.
— Giuralo — ripetè Phegor.
— Sì, su Venere Anfitrite — rispose Fulvia con voce appena intelligibile.
— Ora so che tu sarai mia ed io non tradirò l'esiliato. Non rispondo però di quello che potrebbe accadere.
— Vuoi dire?
— Che il vecchio Hermon ha saputo che l'esiliato è a Cartagine e ha avvertito il Consiglio dei Centoquattro.
— Che qualche pericolo lo minacci? — chiese Fulvia con voce tremula.
Phegor la riprese per una mano e la trasse sotto una torcia, che ardeva infissa in un braccio di ferro di una colonna del porticato, guardandola negli occhi. Una bestemmia gli sfuggì e strinse il polso della giovane con tale forza da strapparle un gemito.
— L'ameresti? — le chiese con voce strozzata.
— Sei pazzo, Phegor. Il suo cuore non batte che per Ophir.
— Che importa? Potresti amarlo egualmente, sia pure senza speranza.
— Amo te e t'amo perché sei cattivo, perché sei un uomo diverso dagli altri, perché sei un malvagio.
— Non me lo hai detto prima d'ora, ma sono lieto d'udire dalle tue belle labbra queste parole. Sì, amami come un genio del male, come vuoi, purché tu un giorno diventi la mia donna.
Poi traendola nuovamente sotto l'ombra del porticato, le sussurrò in un orecchio:
— Giacché tu hai giurato, va' senza perdere un istante ad avvertire l'esiliato, che i mercenari, in grosso numero, hanno già ricevuto l'ordine d'immolarlo a Baal-Molok. Va'... Ogni istante che passa, il pericolo s'aggrava.
Fulvia stava per uscire dal porticato, quando un immenso grido di spavento echeggiò nell'immenso cortile.
Hiram, Sidone ed i loro venti uomini, si erano precipitati verso la tavola degli sposi colle daghe alzate, tuonando:
— Fermi o siete morti!...
— Disgraziati! — esclamò l'etrusca. — Sono perduti!... Ah!... Maledetto Phegor!..
Dopo il primo grido di terrore era successo un breve silenzio. Suffetti consiglieri, suonatori e donne parevano intontiti da uno stupore impossibile a descriversi. Sola Ophir era rimasta tranquilla e sorridente come se si fosse trattato d'uno scherzo. Il vecchio Hermon fu il primo a riprendere il suo sangue freddo.
— Che cosa fate, miserabili? — chiese con ira. — È così che voi pagate l'ospitalità concessavi?
— Che nessuno si muova — ripetè Hiram con voce minacciosa.
— Chi sei tu che parli in tal modo a me, capo del Grande Consiglio dei Centoquattro?
— Non mi conosci più dunque, vecchio Hermon? — chiese Hiram con accento ironico. — Eppure io, che ho sparso il mio sangue per la grandezza della repubblica sono una tua vittima.
— Tu!...
— Non ti rammenti più vecchio Hermon, del capitano che esiliasti a Tiro, come un traditore della patria, perché aveva osato alzare gli occhi sulla tua figlia adottiva?
— Hiram! — esclamò Hermon gettando intorno a sé uno sguardo smarrito.
— Sì, il capitano che ha combattuto, quasi fanciullo, contro Roma.
Hermon era rimasto muto, mentre i consiglieri ed i Suffetti si erano fatti pallidissimi.
— Non mi aspettavi, è vero? — chiese Hiram, sempre ironico. — E non mi aspettavi certo questa sera.
— Che cosa vuoi tu? — chiese finalmente il vecchio con uno sforzo supremo.
— Ophir — rispose Hiram.
Il giovane che sedeva a fianco della fanciulla, si era alzato di colpo estraendo la daga e gridando:
— Bisognerà prima, che tu mi uccida, per rapirmi la sposa, se tu...
Non potè finire. Sidone che aveva fatto silenziosamente il giro della tavola, l'aveva afferrato pei fianchi e dopo d'averlo alzato come se fosse stato un fanciullo, lo aveva lasciato cadere al suolo, alzando su di lui la pesante daga iberica.
— Devo finirlo? — chiese, guardando Hiram.
Un urlo di rabbia era sfuggito da tutte le bocche. Senatori e consiglieri si erano alzati sfoderando le loro corte e larghe spade, mentre le donne fuggivano precipitosamente.
— A me schiavi! — gridò Hermon. — Soccorso!
Hiram in pochi salti aveva raggiunto Sidone atterrando quanti avevano cercato di fermarlo.
— A te Ophir! — gridò. — Lascia andare codesto giovane!... A me, numidi!
I venti marinai dell'hemiolia, venti colossi, con urto irresistibile avevano mandato a gambe all'aria Suffetti, consiglieri e gli schiavi che erano accorsi in aiuto del padrone, ed avevano raggiunto il capitano.
Sidone intanto aveva sollevato fra le poderose braccia Ophir, la quale simulava una certa resistenza, gridando e dibattendosi.
— In ritirata ora!... — tuonò Hiram.
Con pochi colpi di daga disarmò gli amici di Hermon che gli si erano gettati addosso, poi protetto dai suoi marinai che armeggiavano contro gli schiavi, raggiunse il portico. Fulvia approfittando della confusione, era là ad aspettarlo.
— Fuggi — gli disse. — I mercenari giungono.
— Vieni — rispose Hiram. — Siamo pochi, ma solidi.
Stava per oltrepassare l'ampio portone, quando s'arrestò mandando un vero ruggito di rabbia e di dolore.
Una doppia fila d'uomini, con elmetti e armature, scudi e azze, spade e lance, gli sbarrava ormai il passo.
Erano i mercenari, che udendo quelle grida e forse avvertiti da Phegor, erano accorsi e dietro di loro, quattro giganteschi elefanti, che reggevano delle torri celle piene d'armati, barrivano spaventosamente, facendo ondeggiare le loro poderose trombe.
La posizione d'Hiram era diventata d'un colpo terribile. Come tener testa ai mercenari ed ai loro elefanti che stavano per assalirlo davanti, mentre alle sue spalle si radunavano i Suffetti i consiglieri e tutti gli schiavi della villa? Era la morte che attendeva lui e tutti i suoi amici.
Nondimeno il prode capitano non volle darsi subito per vinto. Sapeva di aver sottomano, quantunque pochissimi, marinai d'un valore provato, robusti come èrcoli e decisi a vendere cara la vita.
— Sidone! — gridò.
— Padrone — rispose l'ortator che teneva sempre ben stretta Ophir.
— Dieci uomini con te, per chiudere il passo a Hermon ed ai suoi; dieci con me.
— E la fanciulla?
— Lasciala a Fulvia per ora.
Un baccano infernale coprì le sue ultime parole. Gli ospiti di Hermon, guidati dal fidanzato d'Ophir e rafforzati da una quarantina di schiavi i quali erano corsi a munirsi di spade e di lance, udendo i barriti degli elefanti, si preparavano ad assalire alle spalle i fuggiaschi, ormai chiusi nel patio. Sidone, lasciata la fanciulla che continuava a gridare, aveva occupata fortemente la porta che metteva nell'immenso cortile; aveva presi con sé soli otto uomini, lanciando gli altri al suo padrone, che aveva di fronte avversari ben più pericolosi di tutti quei vecchi Suffetti consiglieri e servi. Un vecchio guerriero che portava sull'elmetto tre piume nere di struzzo, si era intanto staccato dai mercenari e si era avanzato verso Hiram dicendogli:
— Arrenditi o lancio contro di te gli elefanti.
Il cartaginese udendo questa voce, trasalì, gettò sui mercenari un rapido sguardo. Solo in quel momento si era accorto che quasi tutti quei guerrieri erano vecchi veterani, forse superstiti delle campagne di Spagna, d'Italia e di Zama. Un lampo gli balenò negli occhi.
— Mi hai capito? — ripetè in quell'istante il capo dei mercenari. — O ti arrendi o faccio entrare nel patio gli elefanti e ti faccio accoppare a colpi di proboscide. Giù le armi!
Hiram si era avanzato verso il vecchio guerriero, mentre Sidone ed i suoi otto numidi impegnavano un furioso combattimento contro gli schiavi che i Suffetti ed i consiglieri spingevano innanzi con alte grida, tenendoci poco ad esporre le loro vecchie pelli a quei terribili colpi di daga, che piovevano da tutte le parti, e con accento sdegnoso disse:
— Tu intimi a me di deporre questa daga che ha combattuto col grande Annibale nell'Iberia, nella Gallia e sul lago Trasimeno?... Solo Zama l'ha vinta, quando la sfortuna si volse contro il vincitore dei romani. Non riconosci più dunque colui che ti guidò alla vittoria, capitano Capsa?1 Eppure hai combattuto ai miei fianchi e mi sorreggesti, quando nell'ultima carica dei nostri cavalli, caddi ferito, da una lancia romana.
— Chi sei tu? — gridò il vecchio guerriero visibilmente commosso.
— Il capitano Hiram.
— Hiram!... Il giovane che decise la vittoria di Annibale!... Hiram!... Il giovane eroe che tutto l'esercito adorava!... Ed io dovrò uccidere te?... Preferisco la morte, piuttosto che commettere un simile delitto!
Poi volgendosi verso i mercenari che guardavano con stupore e con profonda commozione Hiram, gridò loro:
— Chi di voi combatterà contro il giovane eroe? Non lo conoscete più camerati? È Hiram, il capitano d'Annibale, quello che ci guidò alla vittoria del Trasimeno. Avrete voi il coraggio d'ucciderlo? Se ve n'è uno, si faccia avanti e proverà la punta della mia daga.
Vi fu fra i veterani delle guerre d'Italia un movimento di stupore, poi spade e scudi caddero al suolo con uno scroscio assordante, mentre i conduttori degli elefanti facevano alzare ai loro animali le proboscidi in segno di saluto. Il vecchio Hermon che si trovava fra i suoi schiavi, aveva udito, malgrado il fragore delle armi, ciò che aveva detto Hiram ed aveva pure veduto i mercenari a gettare scudi e daghe. Un urlo di furore gli uscì dalle labbra:
— Miserabili mercenari che cosa fate? Date addosso a quel ladro!
Il vecchio guerriero si voltò e con vero sdegno gridò:
— Quest'uomo che oggi tu chiami ladro, capo del Consiglio dei Centoquattro, fu un giorno l'orgoglio della repubblica. Noi non combatteremo mai contro di lui!
— Cani codardi, vi farò frustare tutti! — urlò Hermon sempre più furioso.
— E noi risponderemo colle nostre daghe — rispose il guerriero avanzandosi verso la porta che metteva sul cortile.
— Voglio che l'uccidiate!... La salvezza della repubblica lo esige.
— Va' tu a misurarti con lui.
— Traditori!... Rubate il denaro della repubblica, vili mercenari!
— E paghiamo col nostro sangue.
— Sterminate codeste canaglie!!...
— Eccoti accontentato — rispose il guerriero.
Si volse verso i suoi uomini che assistevano impassibili a quella scena, dicendo loro:
— Fate largo al capitano Hiram!
I mercenari, che avevano già raccolti scudi e armi, si erano ritirati da una parte e dall'altra dell'immensa porta, mentre i conduttori degli elefanti facevano retrocedere i giganteschi animali che erano ridiventati tranquilli.
— Non credete a quel vile sciacallo! — gridò Hermon. — Uccidetelo e vi pagherò dieci talenti!...
Nessun guerriero si mosse.
— Grazie Capsa! — disse Hiram al vecchio guerriero. — A te devo la vita e la mia felicità, perché ero qui venuto a rapire la figlioccia di Hermon, che mi ama e che desidero divenga mia sposa. Se vuoi, vi è un posto anche per te sulla mia nave onde sottrarti al castigo che ti spetta per aver disobbedito al capo dei Centoquattro.
— Non temere per me — rispose il guerriero. — Cartagine ha troppo bisogno di noi per difendersi dai romani. Lascia che quella vecchia cornacchia gridi. Addio capitano e buona fortuna!
Si strinsero la mano, poi Hiram gridò:
— Avanti, miei numidi... Ophir, Sidone!
I Suffetti ed i consiglieri avevano fatto atto d'invadere il patio, ma era troppo tardi. Capsa con un gesto aveva fatto accorrere cinquanta uomini i quali, con una mossa fulminea, avevano sbarrata la porta del cortile.
I venti numidi con Hiram, Ophir e Fulvia erano appena usciti dalla villa, quando udirono un formidabile cozzare d'armi. Suffetti, consiglieri e schiavi, si erano gettati furiosamente contro i mercenari colla speranza di aprirsi il passo. Avevano però da fare con guerrieri incanutiti fra le battaglie e che costituivano il nerbo delle forze cartaginesi.
Il drappello fuggiva attraverso i giardini, dirigendosi verso la spiaggia che non era lontana più di cinquecento passi. Il fragore delle onde, rompentesi contro gli scogli, si distingueva nettamente, malgrado lo scrosciare delle armi, gli urli e le bestemmie che facevano rintronare il vasto cortile del palazzo. Quando vi giunsero, la grossa barca era arenata dietro le prime dune, al sicuro dai cavalloni. I numidi in un lampo la misero in acqua, tenendola solidamente ferma finché vi furono dentro Hiram, Ophir e Fulvia, poi saltarono sui banchi afferrando i remi.
— Avanti! — gridò Sidone. — Forza sui cavalloni.
La barca prese il largo sbalzando e ribalzando fra la schiuma che si rovesciava sopra i bordi.
Hiram si era stretta fra le braccia Ophir, mentre Sidone si era messa a fianco Fulvia.
— Mia! — esclamò il cartaginese alla giovane.
— Per la vita e per la morte — rispose Ophir che era ancora profondamente commossa. — Ah!... Mio Hiram, credevo di non rivederti mai più. Un piccolo ritardo ancora e non mi avresti più trovata libera, perché Hermon aveva giurato di costringermi colla forza a sposare quell'uomo che io non ho mai amato.
— Dubitavi di me?
— No, della tempesta che avrebbe potuto impedirti di prendere terra.
— Con Sidone non vi è nulla da temere. Egli saprebbe guidare una nave anche sulle punte delle onde più spaventevoli. Aggrappati bene a me Ophir: stiamo per attraversare il punto più pericoloso e la scialuppa non è la mia hemiolia.
In quel momento si udì una voce stridente gridare fra le tenebre.
— Ci rivedremo etrusca!... Che Venere Anfitrite ti maledica, spergiura!...
— Phegor! Ancora lui, sempre lui! — esclamò Hiram stringendo i denti. — Cane d'un traditore!... Tu sarai l'uomo fatale che amareggerai, finché non ti avrò squarciato il petto, la mia felicità.
— Sì, hai ragione, quella spia mi fa paura — disse Ophir serrandosi contro Hiram.
— Forse giungerà troppo tardi, mia diletta. Noi non torneremo più a Cartagine. È in Italia che fuggiremo. Vengano i Suffetti ed i membri del Consiglio dei Centoquattro a scovarci laggiù!
— Povero Hermon! — disse Ophir, con un sospiro. — Sono stata ingrata verso di lui, ma egli non doveva impormi un uomo che non amavo. Non è cattivo e mi perdonerà.
— Ohe! — gridò in quell'istante Sidone. — Date dentro forte!... Le onde c'investono e l'hemiolia è ancora lontana.
La scialuppa subiva soprassalti spaventosi. Il mare era diventato terribile e gorgogliava e schiumava come una immensa caldaia scaldata da fuochi infernali. Un ciclone giungeva dal largo con un orribile frastuono, colla velocità d'un fulmine, scavando orrendi abissi e sollevando montagne gigantesche. I fiori di tempesta orlavano di bianco le onde e sopra di essi, si udivano a stridere i gabbiani, risvegliati bruscamente dai soffi poderosi del vento che spazzava tutta la spiaggia d'Utica.
Sidone che pure non era così facile a spaventarsi e che considerava il mare come un vecchio amico, scuoteva la testa e guardava con inquietudine verso il settentrione, là dove rumoreggiava il ciclone.
— Melkarth non doveva prepararci un simile pericolo. Se ci salva, sacrificheremo a lui il più bel vaso di Tiro che abbiamo. Su giovanotti!... Forza e coraggio!
Malgrado l'impeto furioso dei cavalloni, la scialuppa bene guidata e sorretta da quei venti remi, maneggiati gagliardamente, continuava ad allontanarsi dalla spiaggia, puntando verso un punto luminoso, che brillava fra le profonde tenebre, il fanale poppiero dell'hemiolia.
Nessuno più parlava: tutti ascoltavano con angoscia le urla della tempesta e le incessanti strida dei gabbiani, le quali riempivano d'orrore lo spazio. Passarono cinque minuti angosciosi. Vi fu un certo momento in cui la spuma, che si scagliava sulla scialuppa, era tanta e tanta da non poter sapere se si trovavano ancora sopra o sotto i cavalloni.
Melkarth, il dio del mare, certo vegliava sugli audaci naviganti, poiché si trovarono ad un tratto quasi sotto il tribordo dell'hemiolia.
— Gettate le funi! — gridò Sidone all'equipaggio che era accorso tutto in coperta.
Sette od otto solide corde furono lanciate destramente e subito afferrate dagli uomini della scialuppa.
— Hai paura Ophir? — chiese Hiram.
— No — rispose la giovane. — So nuotare.
— A te prima.
Le legò attorno al corpo, sotto le ascelle, una corda, mentre Sidone faceva altrettanto con Fulvia, poi vennero lanciate.
Caddero entrambe in acqua, ma i marinai dell'hemiolia furono lesti a ritirare le funi e tirarle a bordo.
Per gli altri la cosa fu più facile, non ostante l'impeto dei cavalloni. Un quarto d'ora dopo tutti erano in salvo, compresa la scialuppa; e l'hemiolia, sorretta dai suoi quaranta remi, lasciava quelle acque pericolose dirigendosi verso il promontorio d'Apollinis.
Note
- ↑ Il vecchio veterano, in questo capitolo chiamato Capsa, apparirà col nome di Thala in tutto il resto del romanzo. Si tratta di una svista dell'autore [N.d.R.]