Cartagine in fiamme/12. Verso Utica

12. Verso Utica

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11. L'abbordaggio 13. Il ratto d'Ophir

VERSO UTICA


Cartagine e Utica erano le due più importanti colonie che avessero fondate i fenici, quegli intrepidi scorridori del Mediterraneo e anche dell'Atlantico. Incerta è la fondazione sia dell'una che dell'altra, perché colla scomparsa di quelle due città, vinte e distrutte dal ferro e dal fuoco dei romani, dopo lunghissime e sanguinosissime guerre, tutto andò perduto e ben pochi documenti sfuggirono alle fiamme.

Sembra tuttavia che fossero state più antiche di Roma e che avessero, in brevissimo tempo, acquistata una potenza invidiabile, stendendo le loro conquiste fino al territorio dei numidi a ponente, ed a levante fino al deserto della piccola Sirti.

Si vuole però che Utica fosse più antica di Cartagine e che fosse la prima fattoria aperta dai naviganti fenici e contemporanea di Gades, la moderna Cadice, che era un grande emporio commerciale, celebre per le sue industrie metallurgiche. Sembra anche che Utica e Cartagine dovessero la loro vita più a ragioni politiche che commerciali, specialmente l'ultima.

Discordie nate nella reggia di Tiro, l'opulenta città dei fenici, la quale aveva assorbito la civiltà dell'Egitto e della Caldea, ed aveva irradiato il mondo colla potenza e col loro sfarzo, che fruttarono scene di sangue, trassero una frazione aristocratica, rimasta soccombente nella lotta, a cercare un'altra terra lungi dalla madrepatria.

La tradizione segna per duce, a quegli emigranti, che dovevano più tardi sostenere gli assalti poderosi dei romani, lanciati ormai alla conquista del mondo, la vedova del grande sacerdote Melkarth, già capo dell'aristocrazia, ucciso da suo cognato 813 anni prima della nascita di Gesù Cristo, e usurpatore del trono. Comunque sia, fu certo una felice ispirazione che guidò quei coloni alla scelta del luogo e alla posizione delle due città, perché se fossero riusciti a tener testa alla repubblica romana, sarebbero diventate i più grandi empori commerciali dell'Occidente.

Tuttavia nei tre primi secoli, né Utica, né Cartagine svolsero la loro attività sul mare, quantunque discendenti di audaci navigatori e furono solamente gli eventi della madre-patria che li decisero a uscire dal continente africano ed a cercare nel Mediterraneo un nuovo campo ai loro istinti commerciali. Il tredicennale assedio della grande Tiro, patito per opera di Nabuccodonosor, avvenuto nella prima metà del sesto secolo, fu la causa d'una nuova corrente d'emigranti a Utica e a Cartagine, che ormai i fenici consideravano come una novella patria.

Quei nuovi fuggitivi non erano però né emigranti politici, né nobili, bensì trafficanti e naviganti, che andavano in cerca d'un'altra terra per continuare i loro commerci ormai perduti nel Mediterraneo orientale e furono quelli che diedero lo splendore e la ricchezza alla repubblica cartaginese, ma che ne determinarono, involontariamente, anche la perdita, colle conquiste della Sicilia e della Sardegna, che i romani consideravano come terre di loro pertinenza. Se Cartagine era città vasta e potente, Utica non lo era meno e rivaleggiava in splendore.

Al pari della prima, aveva templi famosi dedicati ad Astarte, la Venere sidonia, ad Esculapio, a Pallade, la bella ed austera dea nata pure su quella terra d'Africa, muraglie e bastioni immensi, dighe colossali, un arsenale grandioso, un bestiario, ossia una specie d'arena, dove gli schiavi, al pari dei gladiatori romani, combattevano contro le fiere, immense cisterne e piazze spaziose. Non era ancora Cartagine, tuttavia ben poco aveva da invidiare alla sua superba consorella assisa in fondo all'ampio e pittoresco golfo. Ancorata solidamente l'hemiolia da prora e da poppa, essendo la burrasca sempre violentissima, Hiram si accostò a Sidone che guardava attentamente la spiaggia dove brillavano, fra le palme gigantesche, numerosi lumi che pareva rischiarassero qualche immenso giardino e gli disse:

— Tu devi trasformarmi, accioché Phegor non mi conosca.

— Che quel cane sia fra il numero degli invitati?

— Ed il vecchio Hermon non lo conti?

— Sarà un affare di pochi minuti. Ti trasformerò in un autentico mercatante di Tiro.

— Preferisco, in un guerriero che viene a dare la sua daga a Cartagine.

— Naufrago?

— Giacché il tempo è cattivo, possiamo ben dire che la nostra nave si è sfasciata contro le rocce del promontorio d'Apollinis.

— Il tuo progetto è ardito. Io avrei preferito piombare entro la sala del banchetto con tutti i nostri uomini, rapire Ophir e la etrusca e sgozzare tutti gli altri.

— E se il vecchio Hermon avesse preso le sue precauzioni contro un colpo di mano?

— Forse hai ragione, signore. Io sono sempre troppo spiccio nelle mie faccende. Vieni: ho composta una tintura splendida che ti farà rassomigliare ad un perfetto asiatico.

Scesero nel frapponte, mentre i loro uomini, già precedentemente avvertiti, su quanto dovevano fare, allestivano la scialuppa più grossa, scheggiando qua e là i bordi a colpi di scure.

L'assenza d'Hiram e del suo fedele hortator non durò che pochi minuti. Quando risalirono in coperta, con gli elmetti in testa, il corpo rinchiuso in una serie di minuscole catenelle strettamente unite, come usavano i fenici e che servivano benissimo da armature, erano irriconoscibili.

I loro visi, dapprima appena abbronzati, avevano assunta una tinta molto più oscura e le loro barbe, invece d'essere nere, erano diventate bionde come quelle dei popoli nordici, presso i quali andavano i fenici a caricare lo stagno e l'ambra, il primo in Inghilterra e la seconda nel Baltico.

— Chi di voi riconosce il vostro hortator? — chiese Sidone, rivolgendosi ai numidi e alzando la lampada che teneva in mano.

— Solo dalla voce — risposero.

— Venti uomini nella grossa barca e armati! I più solidi ed i più furibondi. Vi sarà forse da menar le mani.

Non aveva ancora terminato, che la grande scialuppa, che nelle forme rassomigliava un po' ad un acatium, con prora munita d'un piccolo rostro e la poppa che s'alzava, formando una larga arcata, che poteva servire di difesa al timoniere contro i dardi scagliatigli a tergo, veniva abbassata non ostante i colpi di mare che si frangevano contro i fianchi dell'hemiolia.

Hiram, Sidone ed i suoi venti uomini vi si calarono dentro, con non poche difficoltà però e presero subito il largo arrancando con gran vigore. La notte era ben poco propizia per una simile spedizione. Tuonava rumorosamente, il vento sibilava e ruggiva e le onde non si arrestavano un istante dall'accavallarsi con furia, sollevando con gran violenza la scialuppa e minacciando di scaraventarla contro la spiaggia.

Hiram, seduto presso Sidone, non staccava gli sguardi dai lumi che brillavano nei giardini della villa di Hermon; tendeva gli orecchi, cercando di raccogliere le note stridenti delle trombe di bronzo che dovevano dare il segnale del gran banchetto col quale i cartaginesi principiavano le loro nozze. L'hortator invece cercava discernere la spiaggia, aspettando ansiosamente i lampi per potersi dirigere. Quantunque possedesse muscoli poderosi, si trovava talvolta imbarazzato a tener fermo il lungo timone, tanta era la violenza dei marosi.

— Approdare con simile tempo è un'impresa che spaventerebbe i migliori marinai — disse, rivolgendosi a Hiram. — Non so in quale stato noi approderemo, caro signore.

— Temi che la barca si sfasci? — chiese il cartaginese, con un certo che di sgomento.

— Spero di no, tuttavia non risponderei con piena sicurezza.

— Vada pure a pezzi, purché approdiamo e non perdiamo le armi.

— Giungeremo a tempo?

— Il banchetto non comincerà che due ore prima la mezzanotte. Li sorprenderemo a tavola.

— Sii prudente, padrone. Utica è troppo vicina al palazzo del vecchio e vi è una forte guarnigione di mercenari, e nell'arsenale non mancano né le triremi, né le quinqueremi.

— Ci sbrigheremo presto.

— E la squadra, l'hai dimenticata? Potrebbe essersi rifugiata in questa baia.

— Non spaventarmi, Sidone.

— Non ne ho alcuna intenzione, padrone. Calcolo solo i pericoli che ci possono minacciare. Siamo sotto la costa! Attenti voi coi remi!... Non lasciateveli scappare di mano o andremo a fracassarci. Ecco il momento terribile!... Alzate la voce!...

I venti uomini mandarono un urlo altissimo che dominò per un istante il rombo delle onde e lo scrosciare dei tuoni.

— A noi!... Aiuto!...

— Benissimo — disse Sidone. — Avete dei polmoni di bronzo, giovanotti. Se quelli che abitano la villa del vecchio Hermon non sono sordi o già ubriachi di vini siciliani e sardi, ci udranno. Attenti!... Date dentro coi remi!

La barca subiva in quel momento delle scosse spaventevoli. Montava la cresta delle onde, poi s'inabissava violentemente, quindi risaliva ondulando pericolosamente. Spruzzi d'acqua saltavano a bordo come piccole trombe, inzuppando i remiganti e non risparmiando nemmeno Hiram e Sidone.

— Date la voce! — gridò per la seconda volta l'hortator, appena cessato un formidabile scoppio di tuono.

I venti remiganti alzarono un nuovo urlo, più acuto del primo.

— A noi!... Aiuto!

Un momento dopo parecchie fiaccole comparvero sulla riva e uomini accorrevano attraverso i giardini della villa del vecchio Hermon.

— Eccoli — disse Sidone, ridendo. — Tu padrone hai elaborato un piano superbo; dobbiamo però sperare che Melkarth ci aiuti.

— Speriamo che non ci manchi all'ultimo momento. Si sfasci pure la barca ora, a noi poco importa.

Le onde s'incalzavano sempre più altissime. Si rompevano contro la spiaggia che fortunatamente era sabbiosa e priva di scogliere, poi tornavano indietro cozzando contro le altre che il vento sospingeva.

Era il gran momento per la barca. Sidone si era alzato in piedi per maneggiare il remo.

Cortine di spuma s'abbattevano sui rematori, impedendo quasi a loro di scorgere la sponda che era ormai a pochi passi.

Fra il rompersi dei marosi, si udivano di quando in quando voci umane che gridavano:

— Coraggio!...

— Non ne abbiamo bisogno — brontolava Sidone. — Ci vogliono dei muscoli solidi e null'altro.

Un cavallone enorme prese la barca, la sollevò scuotendola come una piuma, poi la scaraventò innanzi.

Avvenne un cozzo violentissimo che fece stramazzare i remiganti gli uni addosso agli altri, poi un secondo, meno intenso però.

L'onda si ritirava in quel momento.

La scialuppa, rimasta quasi in secco sulla spiaggia, si rovesciò sul tribordo, sbalzando fuori Hiram, Sidone ed i loro marinari.

Alcuni uomini, che erano muniti di torce, si gettarono prontamente su di loro, afferrandoli per le braccia e traendoli verso le dune, prima che l'onda ritornasse. Altri invece si erano impadroniti della barca mettendola al sicuro.

— Da dove venite? — chiese una voce.

Hiram, ancora stordito dalla caduta, aveva alzati gli sguardi verso l'uomo che lo interrogava.

Doveva essere qualche maggiordomo della villa, a giudicarlo dalle ricche vesti che indossava, tutte di lana finissima e con pieghe amplissime a vari colori e dai braccialetti d'oro che gli stringevano le abbronzate braccia.

— Siamo poveri naufraghi, scampati dalla tempesta per grazia di Melkarth — rispose Hiram. — La nostra trireme si è spaccata, verso il tramonto sulle rocce di Apollinis.

— Chi siete?

— Guerrieri di Tiro che vengono ad arruolarsi fra i mercenari della repubblica.

— Gente dabbene?

Sidone facendosi innanzi colla fronte aggrottata e additando Hiram, disse al maggiordomo con voce indignata:

— Non so chi sia il tuo padrone, fosse pure un Suffetto, non potrebbe nemmeno giungere ai lombi del mio signore. Egli ha sangue reale nelle vene, ricordatelo, ed è uno dei più famosi capitani di Tiro.

— Sia allora il benvenuto. Egli giunge in una notte in cui l'ospitalità si offre a tutti, chiunque siano, anche se nemici.

— Che cosa accade dunque qui? — chiese Hiram.

— La figlia del mio padrone va sposa d'un ricco mercante di Cartagine ed il banchetto è cominciato. Seguitemi, o sfortunati figli del mare: vi sarà un posto anche per voi.

— Raccomanda ai tuoi uomini la nostra barca — disse Sidone. — Ne avremo bisogno per andare a Cartagine.

— I nostri schiavi se ne incaricheranno — rispose il maggiordomo.

— Siamo pronti a seguirti.

Il drappello si mise in marcia, fiancheggiato da quattro africani che portavano delle torce.

Attraversò meravigliosi giardini, dove altissime e splendide palme proiettavano cupe ombre e dove un gran numero di fontane mormoravano sotto viali immensi, e giunse finalmente dinanzi ad un immenso fabbricato a più piani, sormontato da un terrazzo da cui, di giorno, si doveva dominare l'intera baia d'Utica.

All'esterno non si vedeva brillare nessun lume, essendo le case cartaginesi e fenicie ben poco dissimili da quelle degli arabi moderni. Pochissime finestre alle facciate di fuori e tutte invece all'interno, sul grandioso cortile, coronato da gallerie, sorrette da una moltitudine di colonne di marmo di vari colori.

Giunti dinanzi all'ampio portone, che era spalancato, il maggiordomo fece sostare i naufraghi, dicendo loro:

— Permettetemi che vada ad avvertire il padrone.

La sua assenza non durò che pochi istanti.

— Siete ospiti del mio padrone Hermon, capo del Grande Consiglio dei Centoquattro della repubblica cartaginese. Tutti avete un posto alla sua tavola.

Fece loro attraversare il magnifico patio lastricato di pietre lucidissime, multicolori e fiancheggiato da altissime colonne, attorno alle quali ardevano numerose torce disposte a spirali e piccoli bracieri dorati che esalavano fragranti profumi. Hiram ed i suoi compagni fecero la loro entrata in un immenso cortile, circondato da superbi porticati e tutto risplendente di luce.

Attorno ad una immensa tavola, un po' bassa, stavano cinquanta o sessanta persone, sedute su larghi cuscini di porpora.

Vi erano Suffetti, consiglieri dei Centoquattro e non poche donne per la maggior parte giovani e bellissime.

Grandi vasi di cristallo, che reggevano vere piramidi di fiori ed un numero straordinario di anfore d'oro e d'argento, coprivano la tavola, insieme ad una moltitudine di tazze e di tondi, quasi tutti di prezioso metallo. Tutti quei personaggi ridevano e chiacchieravano, pure non dimenticandosi di mangiare i profumati manicaretti e di far onore soprattutto ai generosi vini di Sicilia e di Sardegna.

Hiram, dopo il primo momento di stupore, aveva fissati i suoi sguardi su una fanciulla che portava tra i nerissimi capelli un piccolo serpente d'oro e che indossava, sopra la sarapide nazionale, corta e colle maniche strettissime, una lunga e ricchissima dalmatica, aperta sul petto, a fondo purpureo, con due strisce larghe bianche sul davanti, e che aveva ai polsi due preziosissime armille, ossia braccialetti d'oro massiccio che formavano una spirale a quattro giri.

— Ophir! — mormorò, impallidendo.

Il vecchio Hermon che le sedeva a sinistra, mentre a destra stava un giovane magro, con una barbetta nera e la pelle molto abbronzata, probabilmente il fidanzato, vedendo entrare i naufraghi si era alzato, dicendo loro: — Siate i benvenuti in questa notte di gioia per la mia casa. Il mare vi manda ed io vi accolgo e vi offro un posto alla mia mensa, chiunque voi siate.

Ad un suo cenno il maggiordomo guidò il drappello verso un'altra tavola, di dimensioni minori della prima, riservata agli ospiti e che era riccamente imbandita. Hiram nel passare dinanzi a quella occupata dagli amici di Hermon, si fermò un istante di fronte a Ophir.

La fanciulla, che lo aveva egualmente riconosciuto, non potè trattenere un lieve grido.

— Che cos'hai, Ophir? — chiese il vecchio, impressionato.

— È nulla, padre — rispose prontamente Ophir che aveva subito riacquistato il suo sangue freddo. — La punta di una delle mie armille mi è entrata nella pelle.

— Mi sembri pallidissima e agitata.

— T'inganni, padre.

— Allora beviamo agli sposi! — gridò il vecchio, empiendo il bicchiere.

Nel frattempo Hiram ed i suoi compagni si accomodarono intorno alla tavola a loro assegnata, attaccando le vivande, per farsi credere affamati.

— Ti ha riconosciuto? — chiese sottovoce Sidone a Hiram.

— Sì — rispose questi.

— Ha dei buoni occhi la tua fidanzata

— Non è mia ancora; pel momento è di quel giovanotto che le siede accanto.

— L'ho notato già quel disgraziato — disse Sidone. — Ci vuol poco a spedirlo in quel mondo dal quale più non si ritorna.

— Forse non sarà necessario ucciderlo.

— Meglio spacciarlo, signore. E poi, quando noi ci scaglieremo addosso a tutti quei vecchi Suffetti e consiglieri, cercherà indubbiamente di difendere la sua sposa.

— Quanti schiavi credi che vi siano qui?

— Un bel numero di certo — rispose Sidone. — Passano a dozzine sotto il porticato, ma di quelli non dobbiamo occuparci molto. Appena il sangue scorrerà, fuggiranno come un branco di gazzelle o di delfini. Ah!...

— Che cosa hai?

— L'etrusca, padrone.

— Fulvia?

— Sì, padrone, guardala: è sotto quel porticato e sta portando alla tavola degli sposi un'anfora.

Hiram si era vivamente voltato e scorse infatti la giovane etrusca tutta vestita di bianco, colle braccia nude, la sottana della sarapide corta fino al ginocchio, che s'avanzava verso la tavola, portando su una spalla un'altissima anfora d'oro, piena certamente di vino generoso.

— È necessario che mi veda — disse Hiram a Sidone.

— È presto fatto — rispose l'hortator alzandosi. — Ehi, fanciulla, porta anche qui da bere — gridò poscia. — I nostri marinai hanno sete.

L'etrusca, udendo quella voce che non le era nuova, si era bruscamente fermata, guardando con vivo stupore il pilota, poi, dopo una breve esitazione s'accostò rapidamente alla tavola.

— Tu! — esclamò. — Sei mutato, però la tua voce ti ha tradito. Sei l'hortator dell'hemolia.

— Ed io chi sono dunque — chiese il cartaginese, volgendosi.

— Hiram!... Temevo che non giungessi a tempo. Tutto è pronto per le nozze ed il gran sacerdote di Venere Anfitrite è già giunto.

— E anche noi siamo giunti e siamo pronti — disse Sidone.

— Phegor è qui? — chiese Hiram.

— No, ma so che lo si aspetta.

— È dunque vivo ancora — chiese Hiram, con rabbia.

— È stato qui stamane.

— T'ha veduto?

— Sì.

— Sospetta qualche colpo disperato da parte mia?

— Non lo so, tuttavia sta' in guardia. Si dice che vi siano dei mercenari a guardia dei giardini.

— Ah! — fece Hiram, aggrottando la fronte.

— Ed ho udito anche a barrire qualche elefante.

— Allora si sospetta di me. Puoi avvicinare Ophir?

— Sì padrone, essendo io la sua schiava favorita.

— Avvertila di tenersi pronta.

— Che cosa vuoi tentare? — chiese l'etrusca con ansietà. — Rapirla?

— Siamo tutti decisi.

Fulvia ebbe come un soprassalto e divenne smorta.

— L'ami, — disse poi con voce tetra — ed ella t'ama!

— Verrai anche tu con noi, non è vero...?

— E mia madre?

Questa volta fu Hiram che si fece smorto; però non tradì ciò che gli aveva svelato Phegor nel momento di cadere in mare.

— Penserà Sidone a cercarla e condurla a bordo della mia nave — disse poi.

— Tu sei buono — disse Fulvia.

— Cerco di pagare il mio debito di riconoscenza che ho con te, mia buona fanciulla. Va' e sii pronta. Quando i miei uomini si getteranno contro gli amici di Hermon, fuggi subito verso la spiaggia.

— Sì, Hiram... e poi, dove andremo?

— In Italia, innanzi a tutto. Tu rivedrai la tua bianca casetta, dove tu allietasti la mia convalescenza e che tornerà tua.

— Ah! — fece Fulvia.

— Va', prima che notino il nostro colloquio.

L'etrusca si ripose sulla spalla l'anfora e andò a deporla sulla tavola, dinanzi ai due fidanzati.

Nel passare dietro a Ophir, la urtò lievemente. Gli sguardi delle due fanciulle s'incontrarono e anche si compresero.

Fulvia era appena tornata verso il porticato, quando un uomo gli si rizzò bruscamente dinanzi. Era Phegor.

— Li conosci, a quanto sembra, quei marinai — disse la spia con voce ironica. — Qualcuno di loro ti ha ammaliata?

— Che dici, Phegor? — chiese l'etrusca facendo uno sforzo supremo per nascondere le sue angosce.

La spia del Consiglio dei Centoquattro proruppe in uno scoppio di risa stridulo.

— Stupidi! — disse poi. — Credevano che io avessi gli occhi del vecchio Hermon. Sono giovane ancora e ci vedo benissimo.

— Che cosa dici Phegor? — ripetè la fanciulla.

La spia l'afferrò strettamente per una mano e tendendo l'altra verso la tavola dove sedevano i numidi, le disse con voce minacciosa: — Sono loro!...

— Chi loro?

— L'ho conosciuto sebbene si sia tinto il viso e la barba. Nessuno inganna Phegor.

— T'inganni od impazzisci.

— Tu hai parlato poco fa con l'esiliato di Tiro. Stupido! Gettarsi nella bocca del leone!... Vedrai quali denti avrà fra poco la belva africana!... Non lascerà intatto nemmeno un briciolo di carne!