Cartagine in fiamme/11. L'abbordaggio

11. L'abbordaggio

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L'ABBORDAGGIO


Phegor vedendo fuggire l'inafferrabile suo avversario, dovette dare l'ordine, ad una delle più solide e più veloci navi della squadra, di dare la caccia all'hemiolia, almeno per assicurarsi dove sarebbe andata a rifugiarsi, onde impedirle di andare a guastare le nozze fra Ophir ed il figlio del ricco mercatante. Infatti mentre il grosso della squadra riprendeva i suoi ancoraggi e mandava le sue barche a raccogliere l'equipaggio dell'acatium, che affondava insieme alla nave, una grossa quinqueremi aveva attraversato a tutta velocità il canale slanciandosi sulle tracce dei fuggiaschi.

Doveva essere certo ben equipaggiata e anche montata da gente di fegato per osare d'inseguire quell'hemiolia che da sola aveva sfidata una squadra così poderosa, formata dalle più forti galleggianti della repubblica. Hiram, quantunque la notte fosse oscurissima, essendo scomparse tutte le stelle, l'aveva benissimo scorta e sebbene sapesse di avere al suo comando delle persone pronte a tutto e d'una fedeltà straordinaria, aveva provata una stretta al cuore. Un combattimento in mare, a lui, uomo di terra, non gli sorrideva affatto, specialmente sapendo di dover affrontare un equipaggio tre o quattro volte più numeroso.

S'accostò a Sidone che aveva lasciato il remo ad uno dei suoi uomini e che in piedi sulla panchina guardava pure attentamente la quinqueremi che seguiva la via dell'hemiolia. Una profonda ruga solcava la fronte del vecchio ed intrepido pilota.

— Dunque? — chiese Hiram.

— Sarà impossibile padrone gareggiare a lungo con quei cento remi. I nostri uomini hanno dei muscoli di bronzo, tuttavia finiranno per cedere.

— Allora verremo raggiunti.

— Indubbiamente, padrone.

— Dove ci conduci?

— Cerco d'ingannare la quinqueremi — rispose Sidone guardando la stella polare sulla quale si regolavano quegli audaci naviganti, essendo affatto sconosciuto l'uso della bussola che i cinesi, quantunque imperfettamente, conoscevano già. — Punto sull'isola di Malta.

— È ad Utica che noi dobbiamo andare.

— E ci andremo padrone, se riusciremo a sbarazzarci di quel maledetto pescecane, col quale dovremo purtroppo fare i conti e anche fra non molto! Ah!... Se la notte fosse più oscura!

— Tutto dobbiamo tentare, Sidone.

— E lo tenteremo — rispose l'hortator.

Discese nel frapponte dove i trenta numidi, seduti su delle panche arrancavano furiosamente, tendendo i muscoli al punto di farli quasi scoppiare.

— Ohe, — disse, — abbiamo una quinqueremi a poppa che viene all'abbordaggio e qui si tratta di giuocare la pelle. Si può contare su uno sforzo supremo dei nostri remi per tentare un salto falso?

— Sì, hortator — risposero i remiganti.

— Per quanto?

— Duecento battute.

— Sia — rispose Sidone. — Aspettate il mio comando.

Rimontò in coperta e raggiunse Hiram che dal casseretto di poppa spiava la quinqueremi.

— S'avanza come un delfino — gli disse. — Danno dentro quei mercenari. Devono essere greci, padrone.

— Ed i nostri sono numidi.

— È vero padrone, ma sono trenta contro cento.

— Possiamo tentare.

— Lo spero.

— Sono pronti?

— Non aspettano che il mio segnale.

— Se il colpo mancasse?

— Verremo all'abbordaggio.

— Potranno egualmente servire i corvi con un mare così mosso?

— Le costole dell'hemiolia sono salde, padrone e anche se avverrà un urto non cederanno. Se il brutto momento giungerà, chiameremo tutti in coperta e daremo dentro colle asce. I nostri uomini non hanno paura quando tu li guidi. Sanno che sei stato un gran capitano di Annibale.

La quinqueremi aveva guadagnato qualche centinaio di metri, tuttavia si trovava ancora ad una rispettabile distanza, avendo indugiato alquanto ad uscire dal canale.

— Dunque, Sidone? — chiese Hiram, con una certa inquietudine.

— Credo che questo sia il momento buono — rispose l'hortator, — purché i nostri uomini resistano ad un tale sforzo.

— Da' il comando: noi intanto ci prepareremo alla lotta suprema se non potremo sfuggire all'urto.

Sidone si sedette sulla panchetta, afferrò il martello di legno e si mise a battere precipitosamente il disco di bronzo, con un fracasso assordante. Quasi subito l'hemiolia parve che si sollevasse tutta intera sulle onde. I trenta numidi maneggiavano i remi con vigore straordinario, imprimendo alla nave una corsa violentissima.

La prora tagliava i marosi col suo rostro, con impeto irresistibile, spezzandoli a metà.

La battuta precipitosa dell'hortator echeggiava da pochi istanti, quando le raffiche del simun che soffiavano dal sud, portarono fino sul ponte della nave fuggiasca un rintocco altrettanto affrettato. Anche il pilota della quinqueremi incitava i remiganti a raddoppiare la battuta.

— Padrone, — disse l'hortator che era diventato un po' pallido, — quella gente non ci segue per vedere dove andiamo, bensì per darci battaglia. Qualunque tentativo che noi faremo non avrà alcun risultato. Fra poco ci saranno addosso.

— Che ci siano altre navi dietro di quella?

— È quello che io sospetto, padrone. Non avrebbero tanto coraggio quei mercenari.

— Le vedi tu che hai gli occhi d'un marinaio?

— Te ne avrei già avvertito. L'orizzonte è troppo fosco per distinguerle.

— Non sono però vicine.

— Oh no!...

— Decidi che cosa debbo fare, tu che sei il pilota.

Sidone rimase un momento silenzioso, misurando cogli occhi la distanza che li separava dalla quinqueremi, distanza che già spariva rapidamente nonostante lo sforzo poderoso dei trenta numidi, poi disse affettando una certa calma:

— Non è conveniente che i nostri remiganti si esauriscano completamente. Un abbordaggio è ormai inevitabile e se le braccia non sono solide non si può sperare in una vittoria. Padrone, prepariamoci alla lotta suprema e non pensare in questo momento alla tua Ophir.

— Non penso che al filo della mia daga ed alla robustezza della mia ascia — rispose fieramente Hiram. — Chi sul lago Trasimeno, giovanissimo ancora, ha deciso la vittoria del grande Annibale, può salvare ancora il suo equipaggio.

— Con un prode come te, padrone, non si dispera mai di vincere.

— Da' gli ordini per l'abbordaggio.

Sidone si slanciò verso il boccaporto gridando con voce tuonante:

— Venti uomini in coperta, dieci ai remi! Su, lesti, all'abbordaggio!

Poi rivolgendosi verso gli altri che avevano rialzati i corvi:

— Alle asce, amici! Nessuna paura e sotto sempre!

La quinqueremi sicura di aver facilmente ragione di quella nave che non aveva nemmeno la metà della sua portata ed un numero così scarso di remi, giungeva con gran furia colla speranza di piantare il suo formidabile rostro proprio nel mezzo della poppa dell'hemiolia e di sprofondarla con un solo colpo. Tutti gli uomini di combattimento si erano schierati dietro le murate del ponte, che era piuttosto alto, e sulla cima delle due torricelle situate una a prora e l'altra dinanzi al cassero poppiero.

Per sua mala sorte aveva da fare con un pilota rotto a tutte le astuzie, dalle braccia poderose che giuocavano col lungo remo come se fosse una pagliuzza e che difficilmente si lasciava sorprendere.

Quando vide la quinqueremi a sole quindici braccia e che quindi era impossibile a quella, colla velocità che aveva raggiunta, di fermarsi bruscamente e di deviare, con un poderoso colpo di timone gettò l'hemiolia fuori della rotta che seguiva, poi facendola virare quasi sul posto, la lanciò diritto sul tribordo del legno nemico, gridando contemporaneamente con voce tuonante:

— Ritirate i remi!... Tutti in coperta.

Hiram dal canto suo si era slanciato verso i due corvi di babordo tenendo nella sinistra lo scudo e impugnando nella destra un'ascia di guerra che solamente le sue braccia erculee potevano facilmente maneggiare.

— Taglia! — gridò.

L'hemiolia che correva in senso inverso, passava in quel momento, bordo contro bordo, sul fianco della quinqueremi.

I due corvi che erano lunghi quattro metri e larghi due, caddero d'un colpo solo, piantando profondamente i loro solidi arpioni di ferro sulla murata. Le due navi, arrestate in piena corsa, si sbandarono sollevando fra il loro fianco di babordo l'una e di tribordo l'altra, un'altissima ondata che raggiunse i loro margini superiori.

Hiram si era prontamente gettato sul primo ponte volante mentre l'hortator, abbandonato il remo e impugnata una draghinassa ibera si era precipitato sul secondo.

I numidi li avevano seguiti mandando urla feroci.

Quattro mercenari, i primi che si erano trovati presso gli arpioni, si erano scagliati contro Hiram investendolo impetuosamente.

Quattro volte l'ascia del capitano s'alzò ed i quattro mercenari caddero in mare colle armature squarciate.

— Avanti amici! — aveva gridato il prode attraversando di corsa il ponte volante.

Gli uomini della quinqueremi non erano però rimasti inattivi. Mentre quelli che stavano nelle torri lanciavano dardi e frombole, gli altri si eran gettati in massa verso le estremità dei corvi, per contrastare il passo ai numidi che stavano per irrompere sulla tolda.

Erano tre volte superiori e fors'anche di più, tutti difesi da corazze e muniti di scudi e armati di daghe, di scuri e di picche colla punta molta aguzza in forma di foglie.

Hiram si era gettato risolutamente nel folto della mischia, aprendosi il passo a gran colpi d'azza per far largo ai numidi che lo seguivano. Pareva un demonio della guerra.

Quanti tentavano di contrastargli il cammino, cadevano morti o moribondi ai suoi piedi, cogli elmetti spaccati, le corazze squarciate e gli scudi a pezzi.

— Largo! — tuonava. — Largo o vi stermino tutti.

I numidi che gli stavano dietro, tutti pezzi d'uomini dalle braccia muscolose e potenti, lo sostenevano gagliardamente menando le mani con furore e schiantando, colle loro pesanti scuri, le lance che s'appuntavano contro di loro. Anche Sidone, da parte sua, era riuscito a mettere piede sulla tolda e trascinare i suoi uomini con slancio irresistibile, aprendosi un gran solco sanguinoso fra i mercenari che tenevano fortemente il casseretto.

Per dieci o quindici minuti fu un battagliare terribile, con molti morti da una parte e dall'altra, poiché quelli della quinqueremi, sostenuti dagli uomini che occupavano le torri che saettavano senza posa, opponevano una poderosa resistenza, quando ad un tratto, fra quell'orribile frastuono, s'alzò un grido che fece cessare la strage.

— Al fuoco!

Quel grido era stato lanciato dagli arcieri della torretta di prora. Qualche freccia incendiaria era caduta a qualcuno, forse, ed aveva incendiate le altre che stavano nel piccolo deposito inferiore.

Hiram, vedendo una nuvola di fumo nero e denso alzarsi, mista a scintille, aveva prontamente comandato ai suoi uomini di dare indietro. Con pochi colpi di scure si sbarazzò dei mercenari che l'avevano chiuso come entro un cerchio di ferro e tentò di guadagnare il corvo. Se la quinqueremi prendeva fuoco, anche l'hemiolia, che era solidamente trattenuta dagli arpioni dei ponti, poteva correre il medesimo pericolo. Anche Sidone aveva gridato ai suoi:

— In ritirata!

I mercenari d'altronde, spaventati dalle fiamme che avevano avvolta tutta la torretta con rapidità prodigiosa, non opponevano più una grande resistenza, premendo a loro di salvare la nave. In un momento i numidi furono sui ponti che attraversarono velocemente.

— Tagliate!... Tagliate! — gridò Hiram, vedendo che un drappello di mercenari si preparavano a varcare a loro volta i corvi, che erano troppo solidamente agganciati per poterli rialzare a forza di braccia.

Pochi colpi di scure bastarono per troncare le tavole, facendo cadere in acqua i nemici che vi si trovavano sopra.

— Allarga!... Allarga! — comandò allora Sidone.

Alcuni numidi portarono in coperta dei buttafori e con una spinta vigorosa allontanarono l'hemiolia, che minacciava di venire spinta addosso alla nave nemica dall'impeto delle onde.

Era tempo, poiché una pioggia di scintille cominciava a cadere sulla tolda. La quinqueremi bruciava come un fastello di legna secca. La torretta in un momento era stata consumata ed il fuoco, non prontamente combattuto, si era dilatato con spaventevole rapidità, invadendo il castello di prora e comunicandosi anche alle murate.

Quei legni erano talmente impeciati e spalmati di materie resinose che, quando l'incendio scoppiava a bordo, difficilmente potevano venire salvati, non avendo alcuna pompa, istrumenti affatto sconosciuti in quell'epoca. I mercenari ed i remiganti erano prontamente accorsi coi recipienti, ma era come gettare olio su un braciere.

Le fiamme, lungi dal calmarsi, avvampavano con maggior furia, costringendo l'equipaggio a dare indietro, onde non correre il pericolo di venire soffocato dalle ondate di fumo nero, pesante e puzzolente che il vento spingeva attraverso la coperta. In mezzo a quella bolgia infernale, che assumeva di momento in momento proporzioni più terribili, si udivano comandi, urla, imprecazioni.

Tutto il mare, intorno alla quinqueremi, rosseggiava come se torrenti di zolfo fuso scendessero lungo i fianchi.

L'hemiolia, guidata da Sidone, si era precipitosamente allontanata, spingendo il vento nembi di scintille che sfilavano in gran numero al di sopra del mare.

Hiram guardava con uno stringimento di cuore il dilagare dell'incendio. La sua anima generosa non poteva assistere indifferente a quella catastrofe che doveva, presto o tardi, distruggere l'intero equipaggio.

— Sidone! — gridò. — Vedremo noi perire miseramente quei prodi, senza porgere loro nessun aiuto?

— Che cosa vorresti fare per loro, padrone? — chiese l'hortator, con un accento, un po' beffardo. — Abbordarli di nuovo ed imbarcarli sulla tua hemiolia a rischio di bruciare insieme con loro? Aiutarli mentre cercavano di distruggerci o di affondarci? Hanno già uccisi sette uomini!

— È vero che sono mercenari, racimolati fra tutti i popoli marinareschi del Mediterraneo e non già cartaginesi, tuttavia l'idea di lasciarli bruciare vivi sulla loro nave, senza scampo alcuno, mi desta orrore!

— Se fosse l'hemiolia che avesse preso fuoco, li vedresti, padrone, accorrere a noi, non già colle scialuppe, bensì col rostro e chi si salverebbe del tuo equipaggio? Lasciali morire, arrostiti o annegati, poco monta... Fortunati ancora di avere la scelta fra il troppo caldo e la frescura dell'acqua! Approfittiamo invece per correre verso Utica, giacché più nessuno ci spia. Fra mezz'ora la quinqueremi sarà in fondo al mare.

Hiram stava per ribattere, quando l'hortator lo prevenne:

— Li vedi quei punti luminosi che ingrandiscono a vista d'occhio? L'avevo sospettato.

— Sì, vedo infatti dei punti luccicanti verso il sud. Non saranno faville?

— Sono i lumi della squadra, padrone. Tutte le quinqueremi e anche le triremi accorrono in aiuto della compagna. Abbiamo appena il tempo di scomparire fra le tenebre. Ohe!... Giù nel frapponte e tornate ai remi.

I superstiti, che si erano pure accorti dell'avanzarsi della squadra cartaginese, erano prontamente scomparsi, balzando sui gradini del boccaporto centrale. L'hemiolia, che si era arrestata a tre o quattrocento passi dalla nave avversaria, non tardò a riprendere la fuga verso il settentrione, senza però troppo discostarsi dalla terra che Sidone indovinava, quantunque la profonda oscurità gl'impedisse di scorgerla.

Fuori dalla luce proiettata dall'incendio, non aveva almeno pel momento, nulla da temere.

La squadra intanto faceva forza di remi per accorrere in aiuto della quinqueremi che ormai avvampava dalla prora alla poppa.

Dietro le cortine di fuoco che s'alzavano gigantesche, contorcendosi colle selvagge mosse dei serpenti in furore e fra le crescenti ondate di fuoco e di scintille, echeggiavano orribili le grida dei marinai e dei guerrieri. Strane luci illuminavano le onde, che scrosciavano contro i suoi fianchi, quasi fossero impazienti d'ingoiare la preda ormai sicura. Erano cavalloni color del fuoco intenso, di tinte livide che montavano fragorosamente all'assalto, muggendo e rimuggendo su quella disgraziata carcassa.

Ben pochi dovevano salvarsi, malgrado gli sforzi disperati dei camerati, stretti fra i tizzoni che grandinavano da ogni parte, le tavole ardenti che bruciavano a loro i piedi.

— Sono perduti! — esclamò Hiram, che sembrava profondamente commosso, guardando Sidone che non staccava gli occhi dalla fiammeggiante quinqueremi.

— Non vorrei certo trovarmi al loro posto, padrone — rispose l'hortator, alzando le spalle. — Se la squadra si è condotta dietro le piccole e rapide veliere, giungerà forse a tempo per salvare almeno qualcuno. Preferirei però che le avessero lasciate nel porto.

— Perché?

— Ci daranno la caccia, padrone. Quei mercenari non ci lasceranno tranquilli, lo vedrai.

— Fortunatamente ignorano che la nostra rotta è Utica.

— Almeno lo credo anch'io. Cerchiamo intanto di guadagnare maggior via che ci sarà possibile, e di scomparire ben presto nelle profondità del golfo. Quando si faranno le nozze d'Ophir?

— Domani sera.

— Ci terremo allora fino al tramonto al di là del promontorio d'Apollinis e non ritorneremo al sud che colle tenebre. Io non dubito d'ingannare quel cane di Phegor. Ah!... Che fosse a bordo della quinqueremi? Quale fortuna se avesse commessa l'imprudenza d'imbarcarsi su quella!

— Avremmo udita la sua voce — rispose Hiram. — Ama gridare quello spione.

— Buona notte! — gridò Sidone.

— A chi?

— Se ne va: acqua e fuoco!... Ecco due bravi nemici.

L'intenso chiarore che si proiettava sul mare e verso il cielo, prodotto dalle fiamme immense che divoravano quell'ammasso di legnami, scemava rapidamente. La disgraziata quinqueremi, arsa fino alla linea di galleggiamento, affondava fra nembi di fumo e guizzi di fiamme rossastre. La squadra era giunta in tempo per raccogliere gli ultimi superstiti.

Per alcuni istanti Hiram e Sidone udirono delle urla lontane e scorsero qualche cortina di fuoco alzarsi sulle onde, poi le tenebre ripresero il loro impero e tutto avvolsero nuovamente.

La quinqueremi era scomparsa: l'acqua aveva vinto il fuoco.

— È finita, padrone — disse l'hortator, fregandosi le mani. — Ora spetta a noi a camminare presto e bene. Peccato che il tempo accenni a diventare cattivo. Queste lunghe ondate che vengono dal settentrione non indicano nulla di buono, tuttavia spero che Melkarth che ci ha protetto finora, non cesserà di guardarci. Su, amici, vogata lunga!... Riprendo la musica.

Ritornò al suo banco, prese il martello e si mise a battere il tempo della vogata. Tutta la notte la fortunata hemiolia continuò a risalire verso settentrione. Prima dell'alba aveva già superato il promontorio d'Apollinis, che con quello dei Mercurt formava l'ampia baia di Cartagine, però aveva continuato la sua rotta, non osando mostrarsi in pieno giorno nelle acque d'Utica pel timore d'incontrare la squadra cartaginese.

Il mare, come aveva predetto Sidone, era cattivissimo: al di là del promontorio, raffiche poderose soffiavano dal settentrione, sconvolgendo le acque e sollevando grosse ondate che tribolavano non poco l'hemiolia e affaticavano assai gli uomini dei remi.

Sidone si mostrava inquieto e pareva che interrogasse troppo di frequente il cielo. Il bravo pilota presentiva forse una burrasca non lontana. Non era prudente scostarsi troppo dalle coste d'Africa e continuare la corsa verso il settentrione. Il mare poteva diventare maggiormente cattivo e ostacolare il ritorno dell'hemiolia nella baia di Cartagine.

Fu dunque deciso di rifugiarsi senz'altro lungo le coste orientali del promontorio d'Apollinis, per essere pronti a gettare, le ancore ad Utica, non appena scomparso il sole.

L'hemiolia, quantunque vivamente sbattuta, reggeva però benissimo all'impeto dei marosi, poiché i fenici sapevano dare alle loro navi una grande resistenza, forse mai raggiunta dai costruttori romani e greci.

Il ritorno nella baia fu dunque compiuto felicemente e qualche ora dopo la scomparsa del sole di quel giorno, l'hemiolia s'avviava silenziosamente ad Utica, gettando le ancore a cinquecento metri dalla spiaggia, a settentrione della cittadella.

— Vedi quei lumi? — aveva subito chiesto Hiram all'hortator.

— Sì, padrone.

— Illuminano la villa del vecchio Hermon. Là batte il cuore d'Ophir.