Opere (Caro)/I. Apologia degli academici di Banchi di Roma contra messer Lodovico Castelvetro/Canzone del Caro in lode della casa di Francia
Questo testo è incompleto. |
CANZONE DEL CARO
in lode della casa di francia
Venite all’ombra de’ gran gigli d’oro,
care muse, devote a’miei giacinti:
e d’ambo insieme avinti
tessiam ghirlande a’ nostri idoli, e fregi.
E tu, signor, ch’io per mio sole adoro,
perché non sian dall’altro sole estinti,
del tuo nome dipinti,
gli sacra, ond’io lor porga eterni pregi:
ché por degna corona a tanti regi
per me non oso: e ’ndarno altri m’ invita,
se l’ardire e l’aita
non vien da te. Tu sol m’apri e dispensi
Parnaso: e tu mi desta, e tu m’aviva
lo stil, la lingua e i sensi,
si eh’altamente ne ragioni e scriva.
Giace, quasi gran conca, infra due mari
e due monti famosi, Alpe e Pirene,
parte delle piú amene
d’Europa, e di quant’anco il sol circonda:
di tesori e di popoli e d’altari,
ch’ai nostro vero nume erge e mantene,
di preziose vene,
d’arti e d’armi e d’amor madre feconda.
Novella Berecintia, a cui gioconda
cede l’altra il suo carro e i suoi leoni:
e sol par ch’incoroni
di tutte le sue torri Italia e lei:
e dica: — Ite, miei Galli, or Galli interi,
gli indi e i persi e i caldei
vincete, e fate un sol di tanti imperi. —
Di questa madre generosa e chiara,
madre ancor essa di celesti eroi,
regnano oggi fra noi
d’altri Giovi altri figli ed altre suore;
e vie piú degni ancor d’incenso e d’ara,
che non fur giá, vecchio Saturno, i tuoi.
Ma ciascun gli onor suoi
ripon nell’umiltate e nel timore
del maggior Dio. Mirate al vincitore
d’Augusto invitto, al glorioso Errico,
come, di Cristo amico,
con la pietá, con l’onestá, con l’armi,
col sollevar gli oppressi e punir gli empi,
non coi bronzi o coi marmi,
si va sacrando i simulacri e i tempi.
Mirate, come placido e severo
è di se stesso a sé legge e corona.
Vedete Iri e Bellona,
come dietro gli vanno, e Temi avanti,
com’ha la ragion seco, e ’l senno e ’l vero:
bella schiera che mai non l’abbandona.
Udite come tuona
sopra de’ licaoni e de’ giganti.
Guardate quanti n’ha giá domi, e quanti
ne percuote e n’accenna; e con che possa
scuote d’Olimpo e d’Ossa
gli svelti monti, e ’ncontro al ciel imposti.
Oh qual fia poi, spento Tifeo l’audace
e i folgori deposti!
quanta il mondo n’avrá letizia e pace!
La sua gran Giuno in tanta altezza umile,
gode dell’amor suo, lieta e sicura;
e non è sdegno o cura
che ’l cor le punga, o di Calisto o d’io.
Suo merto e tuo valor, donna gentile,
di nome e d’alma inviolata e pura.
E fu nostra ventura,
e providenza del superno Iddio,
ch’in si gran regno, a si gran re t’unio,
perché del suo splendore e del tuo seme
risorgesse la speme
della tua Flora e dell’Italia tutta.
Che se mai raggio suo ver’lei si stende
(benché serva e distrutta),
ancor salute e libertá n’attende.
Vera Minerva, e veramente nata
di Giove stesso e del suo senno è quella
ch’ora è figlia e sorella
di regi illustri, e ne fia madre e sposa.
Vergine, che di gloria incoronata,
quasi lunge dal sol propizia stella,
ti stai d’amor rubella,
per dar piú luce a questa notte ombrosa.
Viva perla, serena e preziosa,
qual ha Febo di te cosa piú degna?
per te vive, in te regna;
col tuo sfavilla il suo bel lume tanto
ch’ogni cor arde, e ’l mio ne sente un foco
tal, ch’io ne volo e canto
infra i tuoi cigni, e son tarpato e roco.
Evvi ancor Cintia, e v’era Endimione:
coppia che si felice oggi sarebbe,
se ’l fior che per lei crebbe,
oimè non l’era (e ’n su l’aprirsi) anciso!
Ma che, se legge a morte amore impone?
se spento, ha quel che (piú vivendo) avrebbe?
se ’l morir non rincrebbe,
per viver sempre, e non da lei diviso?
Quante poi, dolci il core e liete il viso,
v’hanno Ciprigne e dive altre simili?
quanti forti e gentili,
che si fan, bene oprando, al ciel la via?
e se pur non son dèi, qual altra gente
è che piú degna sia
o di clava o di tirso o di tridente?
Canzon, se la virtú, se i chiari gesti
ne fan celesti, del ciel degne sono
l’alme di ch’io ragiono.
Tu lor queste di fiori umili offerte
porgi in mia vece, e di’: — Se non son elle
d’oro e di gemme inserte,
son di voi stessi, e saran poi di stelle.