Brani di vita/Libro primo/Sulle scene

Sulle scene

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SULLE SCENE1


Se me lo dicessero, non lo crederei; ma fui filodrammatico ed attore e non posso negare la verità. Furono pochi minuti, fu incoscienza di bambino, fu tutto quel che vorrete, ma il fatto è che fui filodrammatico anch’io!

La storia è antichissima e, se non temessi di usare una frase nuova, direi che risale e si nasconde nella notte dei tempi.

Dovete dunque sapere che in un anno del secolo scorso (la precisione è inutile), regnando Pio IX, io studiavo la grammatica latina in un Collegio diretto da certi preti, ignoranti assai, ma nemmeno malvagi. Avevo circa nove anni ed ero magro come un figlio del conte Ugolino.

Sarà stato l’istinto che fece fiutare a questi preti l’odore dei tempi nuovi, ma il fatto è che una mat[p. 294 modifica]tina ci dissero che era instituito un corso di ginnastica e di ballo e fummo presentati al professore.

Era un veneto bassotto e biondo; uno di quei veneti che girano ancora pei caffè, imitando colla voce tutti gli animali dell’arca e mangiando con molto appetito la stoppa accesa. Il corso cominciò subito. La ginnastica consisteva nel rovesciare le leggi della estetica umana, stando col capo sopra un saccone e le gambe per aria; e il ballo era una serie lunga e variata di pose plastiche e di riverenze eleganti.

Venne il carnevale. Gli alunni recitarono certe commedie morigerate e pure da far ridere i cani, quando il nuovo professore, che in qualche periodo misterioso della sua esistenza doveva essere stato tramagnino, volle aggiungere allo spettacolo un ballo di sua invenzione.

Ne ho una memoria confusa, ma il clou stava in questo, che il maestro cercava un tesoro, e un idolo, percotendo un campanello, glielo indicava. La scena era in China e l’idolo ero io.

È legge teatrale e filodrammatica che i Chinesi si distinguano dal resto della umanità pei lunghi baffi pioventi e il cappello a paralume. Così fui truccato io e messo a sedere colle gambe incrociate sotto un tempietto portatile, della stessa architettura del cappello. Avevo nella sinistra un campanello da orologio e nella destra un martellino metallico che finiva — lo vedo ancora — con una piccola pallottola poco più grande di un fagiolo.

S’intende che alla mia età, poco pratico di [p. 295 modifica]Battute, mi regolavo coi cenni che mi faceva don Gamberini dalle quinte; quel don Gamberini, Dio glielo perdoni, che m’insegnò a far versi!

La sera dello spettacolo fui dunque portato in palcoscenico. Il maestro cercava affannosamente il tesoro e, quando fu presso ad un pozzo di cartone, don Gamberini, alzando al cielo due sterminate braccia, mi dette il segnale. Picchiai sul campanello usando la pallottola come mi pareva più logico, ma il suono era debole. Don Gamberini diceva "più forte" ed io, con un di quei lampi di genio che illuminano le menti privilegiate, rivoltai il martello e cominciai a picchiare dalla parte del manico. Il maestro scese nel pozzo di cartone per trovare il tesoro e don Gamberini mi disse "basta".

Ma io ci avevo trovato gusto e picchiai così bene che il campanello di acciaio si ruppe come il vetro e l’idolo chinese restò privo delle insegne della sua professione.

La conclusione di tutto questo fu che mi punirono colla privazione della cena, e l’infelice debutto mi disamorò dal teatro.

Non ho mai più calcato le tavole del palcoscenico, e l’arte filodrammatica fece così una perdita irreparabile!

Note

  1. Dal Corriere Filodrammatico, Bologna 1904.