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294 | Brani di vita |
tina ci dissero che era instituito un corso di ginnastica e di ballo e fummo presentati al professore.
Era un veneto bassotto e biondo; uno di quei veneti che girano ancora pei caffè, imitando colla voce tutti gli animali dell’arca e mangiando con molto appetito la stoppa accesa. Il corso cominciò subito. La ginnastica consisteva nel rovesciare le leggi della estetica umana, stando col capo sopra un saccone e le gambe per aria; e il ballo era una serie lunga e variata di pose plastiche e di riverenze eleganti.
Venne il carnevale. Gli alunni recitarono certe commedie morigerate e pure da far ridere i cani, quando il nuovo professore, che in qualche periodo misterioso della sua esistenza doveva essere stato tramagnino, volle aggiungere allo spettacolo un ballo di sua invenzione.
Ne ho una memoria confusa, ma il clou stava in questo, che il maestro cercava un tesoro, e un idolo, percotendo un campanello, glielo indicava. La scena era in China e l’idolo ero io.
È legge teatrale e filodrammatica che i Chinesi si distinguano dal resto della umanità pei lunghi baffi pioventi e il cappello a paralume. Così fui truccato io e messo a sedere colle gambe incrociate sotto un tempietto portatile, della stessa architettura del cappello. Avevo nella sinistra un campanello da orologio e nella destra un martellino metallico che finiva — lo vedo ancora — con una piccola pallottola poco più grande di un fagiolo.
S’intende che alla mia età, poco pratico di bat