Ben Hur/Libro Terzo/Capitolo V
Questo testo è completo. |
Traduzione dall'inglese di Herbert Alexander St John Mildmay, Gastone Cavalieri (1900)
◄ | Libro Terzo - Capitolo IV | Libro Terzo - Capitolo VI | ► |
CAPITOLO V.
Tutto l’equipaggio era desto e si preparava al combattimento. Gli ufficiali erano al loro posto. I soldati avevano impugnate le armi e munivano i baluardi, in doppia fila, come i legionari. Casse di giavellotti e faretre piene di freccie erano ammucchiate sul ponte. Presso al boccaporto centrale erano disposti serbatoi d’olio, e proiettili incandescenti, pronti ad essere lanciati sopra il nemico. Altri fanali furono accesi; apprestate secchie d’acqua per servire in caso d’incendio. I rematori di ricambio stavano schierati davanti al capo ed erano custoditi da alcune guardie. Ben Hur, che fortunatamente si trovava fra essi, tendeva l’orecchio al rumore degli ultimi preparativi e vedeva i marinai che ammainavano le vele, spiegavano le reti, caricavano le macchine, e appendevano gli scudi di cuoio ai parapetti della nave. Quindi un profondo silenzio si fece sulla galera, un silenzio pieno di incerta paura e di attesa.
Un ordine fu dato sul ponte e comunicato attraverso un boccaporto al capo degli schiavi. I remi si arrestarono di colpo.
Che cosa significava ciò?
Ciascuno dei centoventi schiavi incatenati ai banchi si fece questa domanda. Non erano animati da alcun sentimento di amor di patria, da alcun senso d’onore o di dovere. Provavano soltanto il fremito di uomini che una forza cieca e inesorabile spinge incontro ad un pericolo. Il più ottuso di essi si fece questa domanda, ma nessuno pensava a ciò che ne poteva derivare per loro. Incatenati ai banchi, la vittoria non avrebbe che ribadito le loro catene; mentre, in caso di disastro, incendiata o mandata a picco la nave, ne dividevano la sorte.
Ma Ben Hur pensava ad altro. Un suono come un tuffo di molti remi nell’acqua intorno a lui, attirò la sua attenzione. L’Astraea dondolava come in mezzo ad onde che si urtavano da parti opposte. Gli balenò l’idea che una grande flotta fosse vicina, una grande flotta che manovrasse, che si preparasse probabilmente all’attacco. Il sangue gli bollì nelle vene a quel pensiero.
Un altro ordine fu dato sul ponte. I remi si tuffarono nell’acqua e la nave riprese lentamente il suo cammino. Non un rumore si udiva a bordo, non un rumore veniva dal mare, eppure ogni uomo nella cabina si preparò istintivamente all’urto; la nave medesima sembrava averlo intuito e rimaneva silenziosa.
Finalmente un sonoro e prolungato squillo di tromba sul ponte ruppe il silenzio. Il capo abbassò il martello, e i rematori, chini sui remi, raddoppiarono i loro sforzi. La nave si slanciò innanzi, tremando come una creatura animata. Altre trombe si unirono al clamore, quali a destra e a sinistra, quali di dietro; nessuna suonò davanti, donde veniva solo un confuso tumulto di voci e di rumori. Vi fu una scossa violenta. I rematori in piedi, dinanzi al capo, vacillarono; alcuni caddero. La nave rinculò, riprese la spinta e si avventò con novello impeto. Grida alte ed acute di uomini atterriti sorsero d’ogni parte più forti degli squilli delle fanfare e del fracasso dello scontro. Poi, sotto ai piedi, sotto la chiglia, Ben Hur sentì l’urto e il rumore sordo di legname frantumato. I forzati si guardarono in viso. Un urlo di trionfo sorse dal ponte — la prua della nave Romana aveva vinto! Ma chi erano gli infelici che il mare aveva inghiottito? Di qual paese, di qual lingua erano essi?
Nessuna pausa, nessuna fermata. L’Astraea continuò la sua corsa. Alcuni marinai discesero a precipizio le scale, tuffarono le balle di cotone nei serbatoi d’olio e li passarono gocciolanti ai compagni sul ponte. Il fuoco doveva aggiungersi ai terrori del combattimento.
In quella la galera si piegò improvvisamente sopra un fianco cosicchè i rematori della parte opposta a stento poterono conservare il loro equilibrio. Un altra volta risuonò l’urrà dei Romani. Una nave nemica, afferrata dai ganci della grande gru girante sulla prua, veniva alzata nell’aria per esser poi ripiombata nelle onde ed affondata.
Il clamore aumentava d’ogni lato. Di tanto in tanto altri scrosci seguiti da urli di terrore narravano di altre navi mandate a picco con tutto il loro equipaggio.
Ma il combattimento non era tutto favorevole ai Romani. Sovente un soldato o un marinaio erano portati nella cabina e adagiati feriti, talvolta moribondi, sul suolo.
Spesso nuvole di fumo e di vapore, appestate dall’odore di carne abbruciata, si versavano attraverso i boccaporti, avvolgendo la cabina in una densa oscurità, rotta soltanto dal bagliore di qualche fiamma gialla.
Ansando e boccheggiando, Ben Hur sapeva che passavano attraverso le vampe di una nave incendiata, che ardeva con tutti i rematori incatenati ai loro posti.
Improvvisamente l’Astraea si arrestò. I remi balzarono dalle mani dei forzati, ed essi medesimi furono rovesciati dai sedili. Sul ponte risuonò il calpestìo furioso di molti piedi, e ai fianchi si udì lo stritolìo di navi e il frantumarsi di remi. Gli schiavi, si gettarono per terra o strisciarono in cerca di nascondigli. In mezzo a questo panico un corpo umano fu lanciato a capofitto attraverso il boccaporto, ai piedi di Ben Hur.
Egli vide un busto seminudo, una massa di capelli neri spioventi sul viso, e, sotto, uno scudo di vimini e di cuoio: Un barbaro del settentrione, cui la morte aveva tolto vendetta e bottino. Come era venuto in questo luogo? Gli uncini ferrati lo avevano strappato dal ponte nemico? No, l’Astraea era stata arrembata! I Romani combattevano sul proprio ponte. Un brivido prese l’Ebreo. Forse Arrio era assalito, lottava per la propria vita. Se fosse ucciso! Il Dio d’Abramo non lo voglia! Che sarebbero divenute le speranze ed i sogni vagheggiati? Madre, sorella, casa, patria, dovrebbe perderli di bel nuovo? Il tumulto raddoppiò sopra il suo capo; nella cabina tutto era confusione, i rematori paralizzati sui loro banchi, uomini correnti qua e là all’impazzata; solo il capo, seduto davanti al suo tavolo, aspettava impassibile un ordine del tribuno, esempio di quella mirabile disciplina che aveva soggiogato il mondo.
L’esempio fece bene a Ben Hur. Si padroneggiò abbastanza per riflettere. Onore e dovere costringevano il Romano al suo posto, ma per lui queste ragioni non esistevano. Egli era uno schiavo e forse questo era il momento di riacquistare la libertà. A che pro’ il sacrificio? Per lui il vivere era un dovere, non il morire. La sua vita apparteneva ai suoi cari. Essi gli apparirono davanti alla fantasia accesa, palpitanti in carne ed ossa, con le mani tese verso di lui. Egli li salverebbe. Si mosse, fece due passi, si arrestò: ahimè! Una condanna romana lo costringeva al suo destino. Mentre essa perdurava, la fuga era inutile. In tutto il mondo non v’era un cantuccio in cui egli potesse dirsi sicuro, in cui non lo avrebbe raggiunto la vendetta di Roma! Inoltre egli aveva bisogno della libertà concessa secondo tutte le formalità della legge, per poter girare senza molestia la Giudea e rintracciare la madre. O Dio! Quanto aveva sperato e pregato per una tale liberazione! Finalmente era apparsa vicina stando alle parole del buon tribuno. E se quel benefattore venisse ucciso? I morti non ritornavano a mantenere le promesse dei vivi. No. Arrio non doveva morire. Meglio, in ogni caso, perire con lui che continuare la vita di forzato.
Un’altra volta Ben Hur girò gli occhi intorno a sè. Sul tetto della cabina la mischia continuava; i fianchi della galera urtavano ancora con quelli della nave nemica. Sui banchi gli schiavi si agitavano, cercando di strappare le loro catene, e tornando vani i loro sforzi, urlavano come pazzi. Le guardie erano salite sopra coperta; la disciplina aveva ceduto il posto al panico. No, il capo sedeva ancora al suo posto, calmo, impassibile, senz’altra arma che il suo martello, col quale invano cercava di richiamare all’ordine gli schiavi. Ben Hur gli rivolse un ultimo sguardo, poi si mosse, non per fuggire, ma per cercare il tribuno.
In due salti si trovò a mezzo della scala e potè vedere alla sfuggita un lembo di cielo infocato, alcune navi vicine, il mare coperto di rottami, il combattimento sulla nave fervente intorno al quartiere del pilota, dove un pugno di Romani si difendeva contro gran numero di assalitori. Quindi, improvvisamente, il terreno gli mancò sotto i piedi, ed egli fu balzato indietro con violenza. Il pavimento della cabina gli sembrò alzarsi e sfasciarsi; poi in un batter d’occhio tutta la parte posteriore dello scafo si divise in due, e sprofondò in mezzo a un tumulto di onde e di spume, nel mare, che avidamente si rinchiuse sopra di esso, trascinandola seco come una paglia.
Non possiamo affermare che il giovane Ebreo avesse contribuito attivamente alla sua salvezza. La sua forza straordinaria e le indescrivibili risorse che la natura tiene in riserbo per momenti di estremo pericolo a nulla gli valsero in quella oscurità, in quel vortice di acqua e di rottami. Lo stesso atto di trattenere il respiro fu un atto meramente istintivo.
Il flusso dell’acqua lo aveva cacciato indietro nella cabina, dove sarebbe morto annegato se non ne fosse stato rigettato per il riflusso seguente. Nell’affondarsi, la enorme massa lo vomitò da uno dei boccaporti e gli permise di riguadagnare la superficie.
Il tempo che aveva passato sott’acqua gli era sembrato un’eternità. Con la bocca spalancata respirò a pieni polmoni l’aria vivificatrice, e gocciolando acqua dai capelli e dagli occhi, si arrampicò sopra una trave che galleggiava dappresso.
La morte lo aveva seguito con avide mani sott’acqua. La morte sotto mille aspetti lo insidiava alla superficie.
Sul mare giaceva una gran nube di fumo, dalla quale tratto tratto apparivano dei punti luminosi, che egli riconobbe per navi incendiate.
La battaglia continuava tuttavia, non si sapeva con quale fortuna. Di tanto in tanto qualche nave gli passava vicino come un’ombra gigantesca. Attraverso la nebbia si udivano scrosci e frastuoni di navi cozzanti.
Ma un altro pericolo più immediato attrasse la sua attenzione. Quando l’Astraea si era sfasciata, il combattimento fra assalitori e assaliti ferveva sopra il suo ponte, il quale era sprofondato insieme con le altre parti della nave. Molti di questi combattenti erano ritornati a galla e avevan ripreso la lotta, servendosi degli appoggi precari di assi, travi e pezzi d’alberatura. Stretti insieme in abbraccio mortale, si contorcevano disperatamente, si assalivano con spade e giavellotti, sbattuti tutto il tempo dalle onde agitate, trascinati ora in una ora in un’altra direzione da correnti opposte e da vortici, ora all’oscuro, ora illuminati dalla luce macabra delle navi incencendiate.
Ben Hur non aveva nulla a che vedere con quella lotta, e si sforzò di allontanarsi al più presto possibile.
In quella udì il rumore di remi in ritmico movimento e vide una galera avvicinarsi rapidamente. La prora maestosa sembrava doppiamente alta, e la luce rossa che la illuminava le dava l’apparenza di un drago o di un mostro marino. Sotto di essa il mare saliva spumeggiante.
Cacciando la trave innanzi a sè, cercò di portarsi in salvo. Il tempo stringeva, ogni istante era prezioso. In quel momento, a portata della sua mano vide uscire dall’acqua un elmo dorato, poi due mani con le dita tese, mani larghe e forti che cercavano di aggrapparsi alla sua trave. Ben Hur si ritrasse atterrito. Un’altra volta l’elmo si sollevò, poi due braccia si agitarono violentemente. La testa si rovesciò sulle spalle esponendo il volto alla luce. La bocca spalancata, gli occhi aperti, esterrefatti, la pelle divenuta di un pallore cinereo, da moribondo; una visione orribile! Ma Ben Hur diede un grido di gioia a quella vista, e, prima che l’uomo si sprofondasse per la terza volta, l’afferrò per la catena che assicurava l’elmo sotto il mento, e lo tirò verso la trave.
Quell’uomo era Arrio, il tribuno.
Per un istante l’acqua si alzò spumeggiante intorno ad essi, avvolgendoli come in un vortice, durante il qual tempo Ben Hur ebbe molta difficoltà per aggrapparsi alla trave e allo stesso tempo sostenere il corpo del Romano. La galera era passata, e i suoi remi avevan quasi sfiorato i due naufraghi. Dritta in mezzo ai corpi galleggianti dei combattenti era passata, lasciando dietro di sè una scìa che le vampe vicine tingevano di rosso, come la coda fiammeggiante di un serpente. Si udì un fracasso a cui tenne dietro un grido altissimo, disperato. Ben Hur provò un sentimento di gioia selvaggia; l’Astraea era vendicata.
La battaglia si andava allontanando. La resistenza s’era mutata in fuga. Ma chi erano i vincitori? Ben Hur comprendeva che la sua libertà e la vita del tribuno dipendevano dalla risposta. Adagiò il Romano sulla trave e aspettò. L’alba veniva lentamente. Egli ne seguiva il sorgere con una grande speranza, ma anche con timore. Che cosa gli avrebbe essa portato? Se i pirati avessero vinto, la vita del Romano era perduta.
Finalmente la luce sorse in tutta la sua potenza. A sinistra vide la terra, ma troppo lontana per potervi arrivare a nuoto. Qua e là sul mare altri naufraghi come lui galleggiavano aggrappati a rottami. In alcuni punti masse nere e fumanti ingombravano il verde delle acque. A destra, molti cubiti distanti, una galera giaceva sopra il suo fianco, la vela a brandelli, i remi inerti. Più lontano potevasi scorgere delle piccole macchie che si movevano, forse navi che fuggivano o che s’inseguivano, forse uccelli marini dalle ali bianche.
Un’ora passò in questo modo e la sua angoscia crebbe. Se il soccorso tardava, Arrio poteva morire. Qualche volta sembrava già morto nella sua fredda immobilità. Gli tolse l’elmo dal capo, e con grande difficoltà gli sciolse anche la corazza. Il cuore batteva leggermente. Questo segno aumentò le speranze di Ben Hur, che, più fiducioso, si dispose all’attesa.