Ben Hur/Libro Terzo/Capitolo IV
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Traduzione dall'inglese di Herbert Alexander St John Mildmay, Gastone Cavalieri (1900)
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CAPITOLO IV.
Nella baia di Antimona, ad Oriente dell’isola di Citera, erano raccolte le cento galere. Dopo aver occupato il primo giorno passandole in rivista, il tribuno fece vela per Nasso, la maggiore delle Cicladi, a mezza strada fra le coste della Grecia e quelle dell’Asia. Da questo punto avrebbe potuto inseguire i pirati sia che rimanessero nell’Egeo o si volgessero al Mediterraneo.
Mentre la flotta, in ordine di battaglia, muoveva verso all’isola, fu vista una galera solitaria avvicinarsi da settentrione. Arrio le andò incontro e dal capitano apprese quei particolari di cui aveva sommamente bisogno.
I pirati appartenevano alle ultime rive dell’Eusino, e della palude Meotide. Avevano fatto i loro preparativi con la massima segretezza, cosicchè la prima notizia che si ebbe di loro fu quando passarono il Bosforo e distrussero la flotta che vi stazionava. Di là all’Ellesponto tutto quanto galleggiava sul mare divenne loro preda. La flotta era composta di circa sessanta galere, quasi tutte triremi, ottimamente armate ed equipaggiate. L’ammiraglio era Greco e Greci erano i piloti, che si dicevano famigliari con tutti i mari d’oriente. Il bottino era incalcolabile. Grande la paura che destavano non solo sul mare ma nei porti. Le città sbarravano le loro porte e di notte armavano di sentinelle le mura. Il commercio era quasi impedito.
— «Dove si trovavano precisamente i pirati?» —
A questa domanda, la più vitale di tutte, Arrio ebbe questa risposta:
— «Dopo aver saccheggiato Efestia sull’isola di Lemno il nemico aveva costeggiato la Tessaglia, e, secondo le ultime notizie, era sparito nei golfi fra l’Eubea e l’Ellade.
Allora la popolazione dell’isola raccolta sulle sommità dei colli, per meglio assistere al raro spettacolo di cento navi procedenti in ordine e di perfetto accordo, vide la prima divisione improvvisamente volgersi a nord, seguita dalle altre, come squadroni di cavalleria moventi in colonna. La notizia delle scorrerie dei pirati era giunta all’isola, e nell’osservare le vele bianche che sparivano lentamente fra Nene e Siro, i più pensierosi fra gli abitanti si rallegravano dello scampato pericolo.
Ciò che Roma afferrava con la mano poderosa sapeva anche difendere: in compenso delle tasse, dava ai popoli sicurezza e protezione.
Il tribuno era più che felice avendo appreso le mosse del nemico, e ringraziò riverente la Fortuna. Essa gli aveva portate notizie certe e rapide, e aveva condotto i nemici in una posizione dove la loro sconfitta sarebbe stata più rapida e completa. Egli sapeva quanto danno una sola galera poteva fare in un mare aperto come il Mediterraneo, e quali erano le difficoltà di rintracciarla e punirla. Più facile sarebbe stata la vittoria e maggiore il merito se avesse potuto d’un colpo distruggere tutta la flotta dei corsari.
Se il lettore esamina una carta qualunque della Grecia e dell’Egeo, vedrà che l’isola d’Eubea o Negroponte giace quasi parallela lungo la classica costa dell’Ellade, come un baluardo avanzato contro l’Asia, lasciando fra sè ed il continente un canale lungo centoventi miglia e largo in media circa otto. Dall’imboccatura settentrionale era passata la flotta di Serse, e da quella erano passati gli audaci corsari dell’Eusino, attratti dalla ricchezza delle città lungo i golfi Pelasgici e Melici. Arrio pensava di trovarli non distanti dalle Termopili, e decise di accerchiarli da nord e da sud. Il tempo stringeva, e, abbandonando le frutta, i vini e le donne di Nasso, fece spiegare immantinente le vele, spingendo le navi alla loro massima velocità, finchè, sul far della sera, il monte Ocha apparve nero sull’orizzonte e il pilota annunziò vicina la costa dell’Eubea.
Ad un segnale della nave ammiraglia la flotta si arrestò. Quando il cammino fu ripreso, Arrio guidava una divisione di cinquanta galere, con le quali entrò nello stretto, mentre, un’altra divisione, composta di egual numero di navi, rivolse le prore al lato esterno dell’isola, con l’ordine di costeggiarla e di penetrare nello stretto dall’imboccatura settentrionale.
E’ vero che nessuna delle divisioni eguagliava il numero delle navi nemiche, ma questo svantaggio era compensato da altre considerazioni, non ultima fra le quali la superiorità che alla flotta romana davano la disciplina e l’esperienza militare. Inoltre l’astuto tribuno aveva calcolato, che, se per caso una delle due divisioni fosse sconfitta, l’altra, trovando il nemico fiaccato e malconcio dopo la vittoria, ne avrebbe avuto facilmente ragione.
Intanto Ben Hur continuava la sua vita di rematore. Il riposo nella baia di Antimona gli aveva giovato e lavorava di buona lena. Il capo, sulla piattaforma, era soddisfatto. In generale gli uomini non sanno quanto conferisca al proprio benessere l’esatta conoscenza di dove si trovano e di dove vanno. La sensazione d’esser perduti è dolorosa; peggio ancora è quella di sentirsi spinti ciecamente verso un punto ignoto.
L’abitudine non aveva a tal punto offuscati i sensi di Ben Hur da non fargli provare questa sofferenza, e, chiuso nel suo carcere angusto, lavorando talora per giorni e notti intere, gli veniva irresistibile il desiderio di conoscere a quale meta ignota si dirigeva la nave; su quali mari, vicina a quali terre si trovava. Ma ora questa curiosità era acuita dalla speranza che il colloquio col tribuno aveva destato nel suo petto. Tendeva l’orecchio ad ogni suono, quasicchè lo scricchiolio di ogni legno, il sibilo del vento fossero voci che gli potessero parlare; guardava il graticcio sopra il suo capo e quel poco di luce che gli era concessa, come attendendo una spiegazione; e più volte era in procinto di cedere all’impulso di parlare al capo sulla piattaforma, cosa che avrebbe altamente meravigliato quello stolido funzionario.
Nel corso del suo lungo servizio, osservando i pochi raggi del sole che penetravano fin sul pavimento della cabina, aveva imparato a conoscere con una certa approssimazione la direzione in cui moveva la nave. Questo avveniva soltanto nei giorni sereni come quelli che la Fortuna largiva al tribuno, e l’esperimento non aveva fallito dopo la partenza da Citera. Sapendo che si avvicinava alla sua patria, alla Giudea, badava ad ogni deviazione dalla rotta, ed ebbe una vera fitta al cuore quando s’accorse dell’improvvisa piega verso nord, avvenuta, come abbiamo osservato, dopo la partenza da Nasso. La ragione del cambiamento gli era ignota come lo era ai suoi compagni dì schiavitù.
Solo una volta in tre anni era salito sul ponte e aveva veduto il mare, e sappiamo quando. Egli non immaginava neppure che dietro alla nave che egli aiutava a spingere veniva una grande flotta in perfetto ordine.
Quando cadde la notte, la direzione continuava ad esser la medesima.
Un profumo d’incenso penetrò dai boccaporti.
— «Il tribuno è davanti all’altare» pensò. — «Siamo dunque alla vigilia di una battaglia?» —
Egli era stato in molte battaglie senza averne veduta una sola. Dal suo banco ne aveva udito il clamore, finchè quei suoni erano diventati famigliari alle sue orecchie come note di musica. Così pure aveva imparato a conoscere molti dei preliminarii della battaglia, principale fra questi, così pei Greci come pei Romani, il sacrifizio agli Dei. I riti erano uguali a quelli che si celebravano all’inizio di un viaggio, e, per lui, come abbiamo visto, erano sempre un indizio e un preavviso.
Una battaglia possedeva per lui e per gli altri forzati un interesse affatto diverso che per i marinai e i soldati. Per quelli poteva significare vittoria o sconfitta, per gli schiavi poteva arrecare un mutamento nella loro condizione, forse la libertà, certamente un miglioramento.
Quando le tenebre si fecero più dense furono accese le lanterne sulle scale, e il tribuno discese dal ponte. Al suo comando i soldati vestirono le loro armature, le macchine furono esaminate; giavellotti, lancie, e freccie ammucchiati sopra il pavimento, insieme a vasi d’olio infiammabile e pece, e a balle di cotone filamentoso.
Da ultimo Ben Hur vide il tribuno salire sopra la sua piattaforma e indossare l’elmo e la corazza, segni indubbi che il combattimento era vicino.
Ad ogni banco era fissa una catena pesante, e con queste l’hortator cominciò ad assicurare i piedi dei rematori, obbligandoli così all’obbedienza, e precludendo, in caso di disastro, ogni possibilità di salvezza.
Un profondo silenzio si fece nella cabina, rotto dapprima solo dal rumore dei remi giranti nei loro sostegni di cuoio. Ogni forzato sentiva l’ignominia dell’atto, e Ben Hur più acutamente degli altri. Ad ogni costo avrebbe voluto evitarlo. Il cigolare crescente delle catene annunziava l’avvicinarsi del capo. Arriverebbe anche a lui; ma il tribuno non sarebbe intervenuto in suo favore?
Questo pensiero, derivante da orgoglio o da egoismo, come il lettore vorrà, si era impadronito violentemente di Ben Hur.
Egli credeva che il Romano sarebbe intervenuto; in ogni modo questa circostanza avrebbe rivelato i sentimenti e le intenzioni di lui. Se, intento com’era alla battaglia imminente, avesse pensato a Giuda, sarebbe stato un indìzio dell’opinione favorevole che s’era formato, indizio ch’egli lo innalzava tacitamente sopra i suoi compagni, e un tale indizio avrebbe giustificato ogni speranza.
Ben Hur aspettava con angoscia. L’intervallo sembrava un’eternità. Ad ogni colpo di remo, guardava verso il tribuno, che, terminati i preparativi, si era disteso sopra il suo letto a riposare; vedendo la qual cosa il numero sessanta ebbe un impeto d’ira e giurò di non voltarsi più da quella parte.
L’hortator si avvicinava. Era giunto al numero uno, e il cigolar delle catene aveva un suono orribile. Finalmente era la volta del numero sessanta! Calmo nella sua disperazione. Ben Hur arrestò il suo remo e tese il piede all’ufficiale. In quella il tribuno si mosse, si alzò a sedere, fece un cenno al capo.
Un impeto di gioia assalì l’Ebreo. Il grande uomo girò gli occhi sopra di lui e disse alcune parole al capo. Egli non le intese, ma quando tuffò nuovamente il suo remo nell’acqua tutta la nave gli sembrava illuminata da una luce vivissima e nuova. La catena pendeva inerte al suo fianco, e il capo, ritornando alla sua piattaforma cominciò a battere il suo tavolo sonoro. I colpi del martello gli sembravano note di musica. Col petto appoggiato all’impugnatura di piombo, spingeva il remo con tutte le sue forze, finchè il legno si piegava quasi a spezzarsi.
Il capo si avvicinò al tribuno e con un sorriso indicò il numero sessanta.
— «Che forza!» — egli disse.
— «E che animo!» — il tribuno rispose. «Per Pol! Egli lavora meglio senza i ferri. Non mettiglieli più.» —
Così dicendo si adagiò nuovamente sopra il suo letto.
La nave continuava ad avanzare, spinta dai soli remi, attraverso l’onde appena increspate dal vento. Tutto l’equipaggio, tranne le sentinelle, dormiva: Arrio nella sua cabina, i soldati sopra il pavimento.
Una volta, due volte, s’era fatto lo scambio dei rematori, ma Ben Hur non poteva dormire. Tre anni di tenebre ed ora un filo di luce finalmente! Naufrago già sbattuto dalle onde ed ora in vista di un porto! Come un morto che si sveglia improvvisamente alla vita, sentiva in sè tutto il fremito e i brividi della resurrezione. Non era questo il momento di dormire. La speranza del futuro fa dimenticare le suggestioni e gli impulsi che vengono dal presente e dal passato. Partendo dal favore del tribuno, essa lo trascinava per vie fiorite verso orizzonti di porpora e d’oro. Le sofferenze ricompensate; restaurata la sua casa e la fortuna della famiglia; la madre e la sorella strette nuovamente fra le sue braccia, — queste erano le sue idee su cui si imperniavano le sue splendide fantasticherie. Le visioni che la speranza gli dettava, non erano amareggiate da alcun dubbio. Esse esistevano veramente per lui, assumevano tutta la consistenza di cose vere, riempiendo il suo petto di una gioia così profonda, così perfetta, da non lasciare alcun posto a pensieri di vendetta. Messala, Grato, Roma e tutte le tristi memorie che ad essi si connettevano, erano spariti per lui, come cose morte, — miasmi della terra sopra i quali egli s’innalzava leggiero e sicuro, ascoltando il canto delle stelle.
La profonda oscurità che precede l’alba avviluppava le acque e l’Astraea continuava la sua rotta, quando una sentinella, scendendo rapidamente dal ponte, si avvicinò ad Arrio e lo destò. Il tribuno balzò in piedi, indossò l’elmo, la spada e lo scudo e andò dal capo dei soldati.
— «I pirati sono vicini. Affrettatevi!» — egli disse, e, con passo fermo e confidente, salì, per le scale, sul ponte.