Ben Hur/Libro Sesto/Capitolo VI

Capitolo VI

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Libro Sesto - Capitolo V Libro Settimo
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CAPITOLO VI.


La mattina del primo giorno del settimo mese, — Tishri in Ebraico, ottobre in italiano — Ben Hur si alzò dal letticciuolo nel Khan, di pessimo umore. Dopo l’arrivo di Malluch poco tempo era stato perduto in chiacchiere. Egli aveva cominciate le sue ricerche alla Torre di Antonia, andando audacemente, per via diretta, al tribuno. Gli spiegò la storia dei Hur e i particolari dell’accidente toccato a Grato, facendo risaltar l’innocenza dei condannati.

Scopo della ricerca era di scoprire se alcuno della disgraziata famiglia fosse vivo e di portare una supplica a Cesare, pregandolo di restituire ai superstiti i beni e i diritti civili. Tale supplica, Malluch non ne dubitava, avrebbe determinata un’inchiesta per ordine imperiale, dalla quale gli amici della famiglia non avevan ragione di temere. In risposta, il tribuno espose, con tutti i ragguagli, come avesse scoperta la prigione delle due donne nella Torre, e lesse il verbale che egli aveva fatto stendere intorno all’accaduto.

Malluch ottenne che se ne facesse una copia e quindi corse con essa da Ben Hur.

Sarebbe vano descrivere l’effetto che produsse la terribile storia nel giovine. Il suo dolore non si sfogò in lagrime o in grida; era troppo profondo per prorompere in [p. 394 modifica]manifestazioni rumorose. Egli rimase seduto e silenzioso per un pezzo, col viso pallido ed il cuore affranto da pensieri che lo torturavano e che ogni tanto si esprimevano con parole tronche e dette sotto voce.

— «Son lebbrose! son lebbrose! — Esse — mia madre — Tirzah — sono lebbrose! mio Dio!» —

Era in preda allo strazio più vivo; quindi prese il sopravento l’idea della vendetta.

Si alzò e disse frettolosamente:

— «Debbo andar in cerca di loro. Potrebbero esser moribonde.» —

— «Dove andrai a cercarle?» —

— «In un solo posto esse possono essere!» —

Malluch s’interpose ed ottenne, dopo molti sforzi, che la direzione delle ricerche fosse affidata a lui. Andarono insieme alla Porta davanti alla Collina del Cattivo Consiglio, dove mendicavano i lebbrosi. Là essi stettero tutto il giorno facendo elemosine, e così continuarono per tutto il resto del quinto mese e per tutto il sesto sempre infruttuosamente. La spaventevole città sulla collina fu frugata in ogni angolo dai lebbrosi eccitati dalle laute ricompense offerte. Anche la vecchia tomba fu invasa e i suoi ospiti furono assaliti di domande, ma essi si guardarono bene dal rivelare il proprio segreto.

Il tentativo di Ben Hur quindi fallì. E finalmente, la mattina del primo giorno del settimo mese giunse informazione che, poco tempo prima, due donne, infette di lebbra, eran state scacciate e sospinte fuor della città, alla Porta dei Pesci, dalle guardie. Proseguendo nelle indagini e facendo confronto di date, Ben Hur s’accertò che le due infelici eran proprio quelle cercate da lui. Una triste conclusione derivò da questa sicurezza. Ove si trovavan adesso le sventurate? Che era avvenuto di loro?

Non bastava che fossero lebbrose — pensava il figlio con quell’amarezza che il lettore può immaginare — non bastava! Erano anche state scacciate dalla città natia! Sua madre era morta! morta abbandonata!

Tirzah era morta! Egli solo era in vita. E perchè? Per quanto ancora, o Dio, per quanto ancora sarebbe durata questa Roma?

Pieno d’ira, senza speranza, ardente del desiderio di vendetta, entrò nella corte del Khan e la trovò piena di gente arrivata durante la notte. Mentre faceva la sua prima colazione ascoltò i discorsi dei vicini, ed in ispecie [p. 395 modifica]quelli di alcuni giovani, forti e robusti, che il modo di discorrere rivelava provinciali. L’aspetto maschio e vigoroso, del loro viso, la posa del capo, lo sguardo dell’occhio, rivelavano una vivacità ed una tenacia che non eran comuni al basso popolo di Gerusalemme. Traspariva nei loro modi un brio che, secondo alcuni, era l’effetto di una vita sana condotta in paesi montuosi, ma che potremmo attribuire, con più sicurezza, al regime di libertà che godevano. Erano Galilei venuti in città per varie ragioni, ma, in primo luogo, per prendere parte alla Festa della Tomba, fissata per quel giorno. Essi divennero tosto per lui oggetti di interesse, perchè provenivano da una regione in cui sperava di trovar pronto appoggio al compito che stava per assumersi.

Mentre li stava osservando, la sua mente riandava velocemente le imprese eroiche possibili ad una legione composta di tali soldati, addestrati nella severa disciplina Romana, un uomo entrò nella corte. Aveva il viso rosso come per fuoco, e gli occhi scintillanti rivelavano una certa agitazione.

— «Che cosa fate» — chiese ai Galilei — I Rabbini e i principali fra i nostri vanno al Tempio a veder Pilato, Venite. Fate presto. Andremo anche noi con loro.» —

Subito tutti lo circondarono.

— «A veder Pilato? E che cosa farà Pilato?» —

— «Hanno scoperto una congiura. Il nuovo acquedotto di Pilato deve venir pagato col denaro del Tempio.» —

— «Come? Col tesoro sacro?» —

Ripeterono in coro la domanda con gli occhi pieni d’ira.

— E’ il Corban — denaro di Dio — Ah! il barbaro tocchi un siclo di quel denaro, se osa!» —

— «Venite! — gridò il messaggiero. — La processione sta attraversando il ponte. Tutta la città la segue. Posson aver bisogno di noi. Fate presto!» —

In un batter d’occhio tutti furono pronti. Col capo scoperto e le corte tuniche senza maniche, presentavan l’aspetto caratteristico dei mietitori e dei braccianti del loro paese. Stringendo alla vita le cintole per assettare le vesti essi fecero per uscire dal Khan.

Allora Ben Hur si fece avanti e disse loro:

— Uomini della Galilea. Io son un figlio di Giuda. Volete prendermi con voi?» —

— «Ma forse ci batteremo!» — risposero.

— «Io non sarò il primo a fuggire, nel caso!» —

[p. 396 modifica]La risposta li mise di buon umore, ed il messo disse:

— «Hai l’aria abbastanza robusta. Vieni con noi.» —

Ben Hur si gettò il mantello sulle spalle.

— «Voi prevedete una lotta?» — chiese calmo, nello stringersi la cintura alla vita.» —

— «Sì.» —

— «Con chi?» —

— «Con il corpo di guardia Romano.» —

— «Sono legionari?» —

— «E di chi potrebbe fidarsi un Romano?» —

— «Che cosa adopererete per battervi?» —

Essi lo guardarono tacendo.

— «Ebbene — egli disse — bisognerà fare quello che si potrà, ma non sarebbe meglio eleggere un capo? I legionari hanno sempre uno che loro comanda, ed è così che possono agire come se fossero mossi da una sola volontà.» —

I Galilei lo fissarono curiosamente che, quasi, l’idea tornasse loro nuova.

— «Rimaniamo almeno d’accordo di non dividerci e di restare vicini. — egli soggiunse — Adesso son pronto e voi?» —

— «Lo siamo. Avanti.» —

II Khan, rammentiamolo, era in Bezetha, la nuova città, e per arrivare al Pretorio, come i Romani chiamavano il palazzo di Erode sul Monte Sion, i Galilei dovevano percorrere la pianura a nord-ovest del Tempio. Per viottoli e scorciatoie attraversarono rapidamente il distretto di Akra, giungendo alla Torre di Marianna, donde, in pochi passi, si arrivava alla porta della fortezza. Per via essi incontrarono molta gente che, come loro, andava a chieder notizie della nuova empietà commessa dai Romani. Finalmente arrivarono alle mura del Pretorium, dove la processione degli anziani e dei Rabbini era già entrata, con gran seguito, lasciando dietro sè una folla immensa e clamorosa. Un centurione stava alla porta con un corpo di guardie completamente armato, schierato sotto alle magnifiche mura di marmo.

Il sole si rifletteva sugli elmi e sugli scudi dei soldati, ma essi erano ugualmente indifferenti al suo splendore e alle grida e agli insulti della plebaglia. Attraverso alle porte di bronzo una corrente di cittadini continuava ad entrare mentre un’altra, più esigua, sortiva.

— «Che succede?» — domandò un Galileo a uno di quelli che uscivano.

[p. 397 modifica]— «Nulla — fu la risposta — i Rabbini son davanti alla porta del palazzo e chiedono di veder Pilato. Egli rifiutò di accordare udienza, ed essi gli mandarono a dire che non se ne sarebbero andati finchè non fossero stati ascoltati. Ora stanno aspettando.» —

— «Entriamo — disse Ben Hur tranquillamente prevedendo ciò ch’è probabilmente i suoi compagni non avrebbero preveduto — e cioè che un dissidio era sorto fra i pretendenti e il governatore, dissidio facile a tramutarsi in un tentativo serio di ribellione.» —

Dentro alla Porta vi eran molti alberi che formavano un doppio filare; essi eran coperti di foglie e ombreggiavano dei sedili fatti di assi inchiodate alla meglio.

La gente, tanto entrando che sortendo, evitava cautamente l’ombra degli alberi, poichè, — e potrà parer davvero strano, — un ordine dato dai Rabbini e che pretendeva esser tratto dalla legge divina, proibiva che entro alle mura dì Gerusalemme crescesse alcun che di verde. Si dice che perfino il Re Sapiente, il quale desiderava un giardino per la sua moglie Egiziana, fu costretto a cercarselo nel crocicchio delle valli al di là di En-rogel.

Attraverso le cime degli alberi si vedeva la facciata del palazzo. Voltando a destra, la compagnia penetrò in una piazza larga, a sinistra della quale sorgeva l’abitazione del governatore. Una moltitudine eccitata riempiva la piazza. Tutti guardavano verso un porticato sotto al quale appariva una gran porta chiusa, davanti alla quale stazionava un’altra schiera di legionari.

La folla era così fitta che gli amici non avrebbero potuto avanzarsi, se tale fosse stato il loro desiderio; rimasero perciò indietro, osservando ciò che succedeva. Vicino al portico potevano vedere gli alti turbanti dei Rabbini, l’impazienza dei quali si comunicava a volte alla folla dietro di essi. Spesso si udiva un grido: — «Pilato se sei il governatore, fatti avanti, fatti avanti!» —

Dopo un po’ un uomo si spinse tra la folla: il suo viso era rosso dalla collera.

— «Israele non ha più voce in capitolo!» — egli disse a voce alta. — «Su questa terra santa siamo cani di Roma.» —

— «Credete voi ch’egli uscirà?» —

— «Uscire? Non ha egli rifiutato tre volte?» —

— «Che cosa faranno i Rabbini?» —

— «Come a Cesarea — rimarranno qui, sinchè darà loro udienza.» —

[p. 398 modifica]— «Non oserà toccare il tesoro, nevvero?» — domandò uno dei Galilei.

— «Chi lo sa? Un Romano, non profanò il Santo dei Santi? V’è nulla di sacro per essi.» —

Un’ora trascorse, e, sebbene Pilato non si fosse degnato di rispondere, i Rabbini e la folla non si mossero. Venne mezzogiorno, portando un acquazzone, che si rovesciò sul capo degli aspettanti, ma senza recare alcun cambiamento nella situazione, tranne che la folla, se era possibile, era aumentata e rumoreggiava di più. Il gridìo era quasi continuo: — «Vieni fuori, vieni fuori!» — Certe volte erano varianti poco rispettose. Ben Hur teneva riuniti i suoi amici. Egli giudicava che l’orgoglioso Romano si sarebbe stancato, e che la fine del dramma non poteva esser molto lontana. Pilato non aspettava altro che il popolo gli offrisse un pretesto per ricorrere alla violenza.

E la fine venne. In mezzo alla confusione si udì un rumore di colpi, seguito da grida di dolore e di rabbia. Gli uomini venerabili davanti al portico si voltarono spaventati. La gente che stava di dietro si spinse avanti. Quelli nel centro si sforzavan di uscire dal parapiglia; e per un istante, la pressione delle forze contrarie fu terribile. Mille voci si alzarono per rispondere, la sorpresa si mutò rapidamente in panico.

Ben Hur si mantenne calmo.

— «Puoi vedere?» — egli disse ad uno dei Galilei.

— «No.» —

— «Ti alzerò.» —

Prese l’uomo per la vita e lo alzò di peso.

— «Che cosa c’è?» —

— «Ora vedo,» — disse l’uomo. — «Vi sono alcuni armati di bastoni, che stanno battendo la gente. Sono vestiti come gli Ebrei.» —

— «Chi sono?» —

— «Romani, com’è vero che esiste Dio! Romani truccati da Ebrei. I loro bastoni volano, e non rispettano nulla. Ecco un Rabbino che cade! — Vili!» —

Ben Hur pose l’uomo a terra.

— «Uomini della Galilea,» — egli disse, — «è un tiro di Pilato. Ora, farete ciò che vi dico: andremo contro gli uomini dai bastoni.» —

I Galilei si animarono.

— «Sì, sì,» — essi risposero.

— «Torniamo indietro vicino agli alberi presso alla porta, [p. 399 modifica]e troveremo che l’idea di Erode, quantunque contraria alla legge, non è senza la sua utilità. Venite.» —

Ritornarono sui loro passi più presto che fu loro possibile, e afferrando i rami con tutta forza, li staccarono dai tronchi. In breve furon armati di nodosi bastoni. Al ritorno incontrarono la folla che si slanciava verso la Porta, mentre dietro ad essa il clamore continuava, in un coro di strilli, di lamenti, di maledizioni.

— «Al muro!» — gridò Ben Hur — «e lasciate passare la turba!» —

Così, stando fermi, rasenti alla muraglia alla propria destra, potevano lasciar passare la folla, che, altrimenti, li avrebbe travolti nella sua pazza corsa verso la piazza.

— Uniti, ora, e seguitemi!» —

Gli ordini di Ben Hur ormai erano osservati alla lettera, e mentre egli si spingeva tra la folla, i suoi compagni lo seguivano compatti. Quando i Romani, bastonando la gente e canzonandola, si trovarono di faccia ai Galilei, smaniosi di combattere, ed armati delle stesse armi, rimasero assai sorpresi. Lo schiamazzo si accrebbe. I bastoni s’incontrarono con colpi secchi e micidiali: l’odio lungamente represso dei Galilei si scatenò con tutto l’impeto della loro natura focosa. Niuno eseguì la sua parte meglio di Ben Hur la cui maestria e disciplina servirono mirabilmente in quest’occasione, perchè non solo egli sapeva colpire e parare, ma la lunghezza del suo braccio, l’azione perfetta e la forza meravigliosa, gli assicuravano la vittoria in ogni conflitto. Egli era, nel medesimo tempo, soldato e capitano, capitano. Il bastone che maneggiava era poderoso, e bastava un colpo per il medesimo avversario. Il suo sguardo vigilava tutti i particolari della lotta, e colla voce e l’esempio animava i compagni alla mischia.

Se il suo grido incoraggiava quelli del suo partito sgomentava i nemici. Sorpresi in tal guisa, i Romani dapprima si ritirarono in buon ordine, poi voltarono le spalle e fuggirono verso il porticato. Gl’impetuosi Galilei avrebbero voluto inseguirli fin sui gradini, ma Ben Hur ragionevolmente li trattenne.

— «Fermi!» — egli disse, — «Il centurione laggiù sta per sopraggiungere con la guardia. Essi hanno spade e scudi; noi non possiamo misurarci con loro. Abbiamo fatto tutto il possibile. Ritorniamo verso la porta.» —

Essi ubbidirono, benchè a malincuore, poichè la vista dei loro compaesani, giacenti per terra là dov’erano stati [p. 400 modifica]abbattuti, alcuni contorcendosi e gemendo, altri chiedendo aiuto, altri muti come morti, destava continuamente la loro ira. Ma non tutti i caduti erano Ebrei, Questa era una consolazione.

— «Cani d’Israele, fermatevi!» — gridò dietro loro il centurione mentre si ritiravano.

Ben Hur gli rise in faccia e rispose nella sua lingua: — «Se noi siamo cani d’Israele, voi siete sciacalli di Roma. Resta qui: torneremo un’altra volta.

I Galilei, schiamazzando e ridendo, proseguirono la loro via.

Fuori della porta si agitava una moltitudine di cui Ben Hur non aveva mai veduta l’uguale, neppure nel circo di Antiochia. Le cime delle case, le strade, tutto il versante della collina, erano gremiti di gente che si lamentava e piangeva. L’aria risuonava delle loro grida ed imprecazioni. La compagnia venne lasciata passare senza ostacolo dalla guardia. Ma non appena fu uscita, il centurione, prima di guardia sotto il porticato, si presentò alla porta, e voltosi a Ben Hur:

— «Olà, insolente! Sei un Romano od un Ebreo?» —

Ben Hur rispose: — «Sono un figlio di Giuda, nativo di qui. Che vuoi da me?» —

— «Rimani e combatti!» —

— «Uno per volta?» —

— «Come vuoi!» —

Ben Hur rise.

— «O valoroso Quirite! Degno figlio del bastardo Giove Romano! Io non ho armi.» —

— «Avrai le mie,» — rispose il centurione. — «Io me le farò prestare qui dalla guardia.» —

La gente, intorno udendo il colloquio, divenne silenziosa; e da essa il silenzio si propagò alle file più lontane.

Ultimamente Ben Hur aveva battuto un Romano sotto gli sguardi di Antiochia e del lontano Oriente. Se ora egli avesse potuto umiliarne un altro sotto gli occhi di Gerusalemme, l’onore che gliene sarebbe venuto poteva essere di grande utilità alla causa del Nuovo Re. Egli non esitò. Andando direttamente dal centurione, disse: — «Sono pronto. Prestami la tua spada e lo scudo.» —

— «E l’elmo e la corazza?» — domandò il Romano.

— «Tienili. Non potrebbero calzarmi bene.» —

Le armi furono consegnate, ed il centurione si mise in posizione.

[p. 401 modifica]I soldati, schierati sotto alla porta, rimasero immobili, come semplici spettatori. Dall’altra parte stava la folla, inquieta, e con mille bocche si ripeteva la domanda:

— «Chi è? Come si chiama?» —

Nessuno lo sapeva.

La supremazia delle armi romane consisteva in tre cose — sottomissione alla disciplina, l’ordinamento delle legioni in battaglia, e una singolare abilità nel maneggio della spada. Nella lotta essi non colpivano mai col filo della spada ma giuocavano di punta, sia avanzando che ritirandosi, e generalmente miravano al volto del nemico. Tutto ciò era noto a Ben Hur. Mentre stavano per attaccare egli disse:

— «Sono un figlio di Giuda ma non ti ho detto che son stato a scuola da un lanista di Roma. Difenditi!» — All’ultima parola Ben Hur fece un passo verso l’avversario.

Per un istante si fissarono reciprocamente, ognuno guardando l’altro di sopra all’orlo del proprio scudo. Poi il Romano avanzò la spada e fece una finta al petto. L’Ebreo gli rise in faccia. L’altro gli tirò una stoccata al viso. Ben Hur fece un passo a sinistra, rapido come il lampo, e si spinse addosso all’avversario sollevando col proprio scudo il braccio del nemico. Fece un passo di fronte e un altro a sinistra lasciando il lato destro del Romano completamente scoperto. Il centurione, colpito dall’arma di Ben Hur, cadde pesantemente in avanti, facendo risuonare di un suono cupo il lastricato. L’Ebreo aveva vinto. Col piede sulle spalle del nemico egli alzò lo scudo sopra il proprio capo, secondo l’uso dei gladiatori, e salutò i soldati fermi presso la porta.

Quando il popolo comprese che la vittoria era di Ben Hur divenne quasi pazzo dalla gioia. Di bocca in bocca fino al lontano Xysto, rapido come la folgore si sparse la novella, e dappertutto era un agitare di scialli, e di fazzoletti, un ridere e un vociare; se Ben Hur avesse consentito, i Galilei lo avrebbero portato in trionfo sulle loro spalle.

Ad un ufficiale subalterno che s’avanzava dalla Porta, egli disse:

— «Il tuo camerata morì da soldato. Mi tengo solo la sua spada ed il suo scudo» —

Poi si confuse fra la folla. E allorchè fu un po’ più lontano parlò ai Galilei:

— «Fratelli, vi siete portati assai bene. Ora separiamoci per non essere inseguiti. Venite da me questa sera [p. 402 modifica]al Khan di Bethania. Ho qualche cosa di grande importanza per Israele da proporvi.» —

— «Chi sei?» — gli domandarono.

— «Un figlio di Giuda,» — egli rispose, semplicemente. La folla, smaniosa di vederlo, attorniò la compagnia.

— «Verrete a Bethania?» — egli domandò.

— «Sì, verremo.» —

— «Allora portate con voi questa spada e questo scudo, che io possa riconoscervi.» —

E spingendosi fra la folla che aumentava d’ogni lato, sparve.

Col permesso di Pilato, la gente entrò nel cortile a portar via i morti ed i feriti, ma il loro dolore per quella vista fu rallegrato assai dalla vittoria del campione sconosciuto, che fu cercato dappertutto, e da tutti esaltato. Lo spirito avvilito della nazione si sentì sollevare dal fatto valoroso, tanto che nelle strade e perfino nel Tempio, in mezzo alle solennità della cerimonia, si ripeterono le vecchie istorie dei Maccabei, e le persone più saggie scuotevano il capo, bisbigliando sommessamente:

— «Un poco di pazienza, ancora un poco di pazienza, o fratelli, e la gloria d’Israele rifiorirà. Abbiamo fiducia in Dio.» —

In tale modo, Ben Hur, stabilì la sua supremazia fra i Galilei, e si preparò la via fra di essi a più grandi servigi nella causa del Re.

Con quale risultato, noi vedremo in seguito.



Fine del libro sesto.