Ben Hur/Libro Secondo/Capitolo II
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Traduzione dall'inglese di Herbert Alexander St John Mildmay, Gastone Cavalieri (1900)
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CAPITOLO II.
Tenendo presenti queste spiegazioni, il lettore è invitato a recarsi in uno dei giardini del palazzo sul monte Sion. L’ora è la meridiana di un giorno di luglio, quando il calore dell’estate è più intenso.
Il giardino è limitato da ogni banda da fabbricati, alcuni dei quali a due piani, il primo con le porte e le finestre ombreggiate da verande, il superiore terminante con terrazzi adornati insieme e protetti da forti balaustre. Qua e là la continuità degli edifici è interrotta da bassi colonnati che permettono la circolazione dei venti, e lasciano intravvedere altri lati del palazzo, ponendone in rilievo tutta la maestà e la ricchezza.
Il giardino non è meno bello. Viottoli ombrosi serpeggiano attraverso prati e cespugli, sopra i quali si elevano alcuni alberi altissimi, rari esemplari di palme e gruppi di carrubi, noci e albicocchi. Il terreno va lentamente degradando dal centro, dove è scavato un profondo bacino di marmo, interrotto tratto tratto da piccole bocche, che, aperte, versano l’acqua nei rigagnoli scorrenti paralleli al sentiero, sapiente artificio per sottrarre il luogo all’aridità troppo prevalente in tutta quella regione.
Non lontano dalla fontana scintilla la superficie di un piccolo stagno che alimenta un gruppo di canne e di leandri, sul genere di quelli che crescono sulle rive del Giordano e del mar Morto. Fra le piante e lo stagno, indifferenti ai raggi che il sole piove loro addosso attraverso l’aria afosa, due giovani, uno di diciannove, l’altro di diciasette anni, ragionano fra loro in serio colloquio.
A prima vista si direbbero fratelli: belli l’uno e l’altro, entrambi neri di chiome e di occhi, dai volti abbronzati, di statura proporzionata alla differenza della loro età. Il maggiore ha la testa scoperta. Una tunica sciolta, cadente fino ai ginocchi, e un mantello azzurro, gettato negligentemente per terra, formavano il suo abbigliamento. Il costume lascia esposte le braccia e le gambe, brune come il volto: ciò nonostante una certa grazia di modi, il taglio aristocratico del viso, l’inflessione della voce, dimostrano chiaramente la sua condizione. La tunica, di soffice lana, grigia al bavaro e alle maniche, con gli orli listati di rosso, stretta intorno alla vita da una corda di seta, lo dice Romano. E se nel discorrere, lancia tratto tratto uno sguardo pieno di alterigia sopra il compagno, e gli parla come ad un inferiore, lo si può quasi scusare, perchè appartiene ad una stirpe nobile persino in Roma, una circostanza che in quei tempi giustificava ogni arroganza.
Nelle terribili guerre fra il primo Cesare e i suoi grandi nemici, un Messala era stato amico di Bruto. Dopo Filippi, senza disdoro al suo nome, egli si riconciliò col vincitore, e più tardi, quando Ottavio lottò per l’impero, Messala gli diede il suo appoggio. Ottavio, diventato imperatore Augusto, si ricordò dei servigi resi da lui, e colmò la sua famiglia di onori. Fra le altre cose, essendo stata la Giudea ridotta in provincia, mandò il figlio del suo vecchio cliente a Gerusalemme, coll’incarico di riscuotere le imposte della regione e in questo ufficio egli era rimasto, dividendo il palazzo col Primo Sacerdote. Il giovane di cui parliamo era figlio all’uomo testè descritto, e nel volto e negli atti, mostrava troppo spesso di ricordarsi dei rapporti corsi fra l’avo e i più illustri romani del suo tempo.
Il compagno di Messala era di corporatura più esile, e le sue vesti, di finissima e candida tela di lino, erano tagliate secondo la foggia allora prevalente in Gerusalemme. Un panno gli copriva la testa, stretto con un nastro giallo, e disposto in modo da partirsi sulla fronte, e cadere indietro sulla nuca.
Un osservatore, esperto nelle distinzioni delle razze, e studioso più dei tratti che degli abbigliamenti, avrebbe tosto notata la sua origine Ebrea. La fronte del Romano era alta e stretta, il naso acuto ed aquilino, le labbra erano fine e diritte, gli occhi freddi e prossimi alle sopracciglia. La fronte dell’Israelita invece era bassa ed ampia, il naso era lungo e con le narici tumide; il labbro superiore sporgente leggermente sopra l’inferiore, curvandosi agli angoli come l’arco di Cupido: fattezze che aggiunte, alla rotondità del mento, agli occhi grandi, al puro ovale delle guancie soffuse di rosso, davano al suo volto tutta la dolcezza, la forza e la venustà proprie alla sua razza.
La bellezza del Romano era castigata e severa, quella dell’Ebreo ricca e voluttuosa.
— «Non dicevi che il nuovo Procuratore doveva arrivare domani?» —
La domanda proveniva dal minore degli amici ed era formulata in greco, a quel tempo linguaggio dominante nella buona società della Giudea. Era passato dal palazzo all’accampamento e nella scuola, e di là, nessuno seppe bene, come e quando, nel Tempio medesimo, nei sacri corridoi e nei chiostri del Tempio.
— «Sì, domani» — rispose Messala.
— «Chi te lo ha detto?» —
— «Ho inteso Ismaele, il nuovo governatore del Palazzo — voi lo chiamate Primo Sacerdote — che ne parlava a mio padre jeri sera. Certo la notizia sarebbe stata più attendibile se fosse venuta da un Egiziano, la cui razza ha dimenticato ciò che sia la verità, o anche da un Idumeo, il cui popolo non ha mai saputo ciò che la verità fosse; ma per essere proprio certo, ho veduto un centurione della Torre stamane, e mi disse che stavano facendo preparativi per il suo ricevimento; che gli armajuoli stavano forbendo gli elmi, gli scudi, e indorando le aquile e le sfere; che gli appartamenti, da lungo tempo disabitati, venivano spolverati ed arieggiati come per un aumento della guarnigione — la guardia del corpo, probabilmente, del grande uomo.» —
È impossibile di rendere perfettamente il modo con cui questa risposta fu data, perchè i punti più notevoli e più caratteristici sfuggono costantemente al potere della penna. La fantasia del lettore dovrà venire in suo aiuto; e a questo fine dobbiamo ricordare che la riverenza era una qualità che tramontava rapidamente nel mondo romano, o meglio che andava giù di moda. La vecchia religione aveva quasi cessato di essere una fede; tutt’al più era una semplice veste, o un’espressione del pensiero, protetta principalmente dai sacerdoti che trovavano il loro tornaconto nei servizi del Tempio, e dai poeti, che, nei loro versi, non potevano far senza le loro divinità famigliari: vi sono cantori in questa età che loro assomigliano. Come la filosofia prendeva il posto della religione, la ironia sostituiva rapidamente la riverenza, tantochè, nell’opinione dei Latini, essa era, in ogni discorso, anche nelle piccole diatribe famigliari, ciò che è il sale per le vivande, l’aroma pel vino.
Il giovane Messala, educato in Roma, e tornato da poco, aveva acquistato queste abitudini e questi modi: il movimento quasi impercettibile della palpebra inferiore, lo sdegnoso arricciar delle labbra, la languida pronuncia affettata come il miglior modo per esprimere l’idea di una generale indifferenza, ma più ancora per le occasioni che porgeva per certe pause rettoriche, si stimavano di prima importanza, affinchè l’ascoltatore afferrasse bene il concetto e gustasse appieno il frizzo di un epigramma. Una tale pausa avvenne nella risposta testè riferita alla fine dell’allusione all’Egiziano e all’Idumeo.
Il rosso sulle guancie del giovanetto Ebreo si fece più scuro, ed egli non rispose, guardando distrattamente nella profondità dello stagno.
— «Noi ci dicemmo addio in questo giardino». — «La pace del Signore sia con te!» — furono le ultime tue parole. — «Gli Dei ti salvino! dissi io. Ti ricordi? quanti anni sono trascorsi da quel tempo?» —
— «Cinque» — rispose l’altro, fissando l’acqua.
— «Ebbene, tu hai ragione di essere riconoscente verso — chi dovrei dire? — gli Dei? Non importa chi. — Tu sei cresciuto assai bene; i Greci ti chiamerebbero bellissimo — felice creazione degli anni! Se Giove si accontentasse di un solo Ganimede, quale coppiere saresti per l’imperatore! —
— «Dimmi o mio Giuda, perchè ti interessa tanto la venuta del Procuratore?» —
Giuda fissò gli occhi sopra il suo interlocutore collo sguardo grave, pensieroso, penetrante in quello del Romano, mentre rispose: — «Sì, cinque anni. Io ricordo la tua partenza; tu andavi a Roma; io ti vidi partire e piansi, perchè ti amavo. Gli anni sono passati, e tu ritorni a me come un principe — non lo dico per celia; e pure — pure — io desidererei che tu fossi il Messala di quando partisti!» —
Le narici del Romano si contrassero in un movimento ironico, e più affettata del solito suonò la sua voce, quando rispose:
— «Non un Ganimede, ma un oracolo o mio Giuda. Qualche lezione dal mio maestro di rettorica presso il Foro — io ti darò una lettera per lui, quando nella tua saggezza ti piegherai a seguire i miei consigli — un po’ di pratica nell’arte del mistero, e Delfo ti accoglierà come Apollo medesimo. Al suono della tua voce solenne, la Pizia scenderà dal suo tripode. Seriamente, o mio amico, in che cosa differisco dal Messala che partì? Io intesi discutere una volta il più grande logico della terra. Il tema della sua dissertazione era la disputa. Ricordo un suo detto: «Comprendi bene il tuo avversario prima di rispondergli.» — E, francamente, non ti comprendo.» —
Il giovane arrossì sotto lo sguardo cinico dell’altro; ma rispose con fermezza: «Tu hai approfittato delle occasioni che ti furono offerte, vedo; dalle tue scuole hai riportato molta sapienza e molte grazie. Tu parli con la scioltezza di un maestro, ma il tuo dire punge. Il mio Messala, quando mi abbandonò, non aveva veleno nella sua natura; per tutto l’oro del mondo non avrebbe voluto offendere la sensibilità di un amico.» —
Il Romano sorrise, come se avesse inteso un complimento, e rialzò ancora più fieramente la bella testa patrizia.
— «O mio austero Giuda, non siamo a Dodona o a Pito. Abbandona quel tuo fare da oracolo e discendi a spiegazioni terrene. In che ti ho offeso?» —
L’altro respirò a lungo, e giuocherellando con la corda che gli stringeva la vita: — «In questi anni anch’io appresi qualche cosa. Hillele non sarà pari al filosofo che tu ascoltasti, e Simeone e Sciamma sono, senza dubbio, inferiori al tuo maestro presso il Foro. La loro sapienza non batte strade vietate; quelli che seggono ai loro piedi si alzano ricchi soltanto della scienza di Dio, della Legge e di Israele, imbevuti di amore e di rispetto per tutto ciò che a quelli si riferisce.
Frequentando il Grande Collegio e meditando su quanto vi ascoltai, ho appreso che la Giudea d’oggi non è più quella d’una volta. Io apprezzo la differenza che corre fra un regno indipendente e una piccola provincia soggetta. Sarei più vile, più abbietto di un Samaritano, se non risentissi umiliazione pel mio paese. Ismaele non è il legittimo Sacerdote, e non lo potrà mai essere, vivo l’illustre Hannas. Eppure egli è un Levita, uno di quei devoti che per migliaia d’anni hanno servito il Signore Iddio e la nostra religione. La sua....»
Messala lo interruppe con un riso mordace.
— «Ora ti comprendo! Ismaele, tu dici, è un usurpatore. Ciò non di meno ti fa male che si possa prestar fede ad un Idumeo piuttosto che a lui. E’ questo che ti ha punto! Per l’ebbro figlio di Semele, che cosa significa esser Ebreo! Cambiano gli uomini e le cose, il cielo stesso e la terra; ma un Ebreo mai. Per lui non vi ha passato o futuro; egli è oggi ciò che i suoi avi furono prima di lui. Guarda! su questa sabbia io descrivo un cerchio. Ora dimmi che altro è la vita di un Ebreo? Gira e rigira, qui Abramo, là Isacco, Giacobbe; Dio nel mezzo. Per il Tonante, il cerchio è troppo grande. Lo rifaccio....»
Si arrestò, puntò il pollice per terra e descrisse con le dita un cerchio intorno ad esso.
— «Vedi, questa impronta del pollice è il Tempio, la linea formata dalle dita la Giudea. All’infuori di questo spazio non esiste nulla di buono! Le arti? Erode fu costruttore di palazzi, quindi è maledetto. La pittura, la scoltura? Guardarle è un peccato. La poesia l’avete inchiodata sugli altari. In guerra tutto ciò che conquistate in sei giorni lo perdete nel settimo. Questa è la vostra vita e la vostra mèta. E, non vuoi che rida? contento dell’adorazione di un tal popolo, che cosa è mai il vostro Dio a petto del nostro Giove romano, che ci presta le sue aquile perchè le nostre armi conquistino l’universo? Hillele, Simeone, Sciammai, Abtalione, che valgono essi di fronte a quei maestri che insegnano che tutto ciò che si può apprendere è degno di essere appreso?» —
L’Ebreo balzò in piedi, con le guancie rosse al pari del fuoco.
— «No, no; siediti, mio Giuda, siediti.» — esclamò Messala, stendendogli la mano.
— «Tu mi schernisci.» —
— «Ascoltami ancora un poco. Presto, — il Romano sorrise con disprezzo — mi verranno in mente Giove e tutta la sua famiglia greca e romana, come al solito, e allora addio serietà! Io ti sono riconoscente d’esser venuto dalla vecchia casa de’ tuoi padri per darmi il benvenuto e rinnovare l’affetto della nostra infanzia, se possiamo.» — Andate, disse il mio maestro, nell’ultima sua lezione. — «Andate, e se volete raggiunger la mèta, ricordatevi che Marte regna ed Eros ha ricuperata la vista». — Egli voleva dire che l’amore è nulla, la guerra tutto. Così è in Roma. Il matrimonio è il primo passo verso il divorzio. La virtù è una qualità da bottegaio. Cleopatra, morendo, ci legò le sue arti, ed è vendicata. Essa ha un successore sotto il tetto di ogni Romano. Il mondo corre per la stessa strada. Abbasso Eros, evviva Marte! Io sarò soldato, ma tu, o mio Giuda, — io ti compiango, — che cosa sarai tu?» —
L’Ebreo si avvicinò allo stagno. Messala continuò.
— «Sì, ti compiango, mio bellissimo Giuda. Dal collegio alla Sinagoga; poi al Tempio, quindi — oh, gloria suprema! — ad un seggio nel Sinedrio. Una bella vita, davvero! Gli dei ti aiutino! Mentre io....» —
Giuda lo guardò e vide l’orgoglio imporporargli le gote e sfavillare negli occhi, mentre ei proseguiva;
— «Ah, la terra non è tutta quanta conquistata! Il mare chiude isole ignote. Nel settentrione vi sono popoli ancora sconosciuti. La gloria di continuare la marcia d’Alessandro nell’ultimo Oriente offre nuovi allori. Vedi quante vie si aprono ad un Romano?» —
Tacque un istante, e poi riprese col solito tono di persona annoiata:
— «Una campagna nell’Africa, un’altra contro gli Sciti, poi il comando di una legione! Qui terminano i sogni di molti. Non il mio. Per Giove, che idea! Rinuncierò alla legione per una prefettura. Pensa alla vita di un Romano danaroso — oro, vino, donne, giuochi, poeti a banchetto, intrighi di corte, dadi tutto l’anno. — Questa sarebbe una degna mèta alla mia esistenza. Una grassa prefettura? O mio Giuda, ecco la Siria! La Giudea è ricca e Antiochia è una capitale degna degli Dei. Io sarò il successore di Cirenio, e tu, — tu dividerai la mia fortuna.» —
I sofisti e i retori che affollavano i pubblici ritrovi di Roma, e che avevano quasi il monopolio dell’istruzione della gioventù patrizia, avrebbero approvato questi detti di Messala nei quali avrebbero riconosciuto gran parte dei loro insegnamenti; ma nel giovane Ebreo facevano l’impressione di una sgradevole novità, ben diversa dalla solennità dei discorsi e delle conversazioni a cui era abituato. Di più, egli apparteneva ad una razza le cui leggi, costumanze ed abitudini di pensiero, vietavano la ironia e lo scherno. Molto naturalmente quindi egli ascoltò l’amico con vari sentimenti; sdegno dapprima, poi incertezza nel come dovesse prenderlo. Quelle arie di superiorità assunte da Messala lo avevano offeso sin da principio. Presto divennero insopportabili. Anche quella pioggia frizzante di detti satirici destò la sua ira. Per l’Ebreo dell’età di Erode il patriotismo era una passione selvaggia appena celata sotto il manto di una velata pacatezza di modi, e così connessa con la sua storia, con la religione e con Dio, da balzare fuori immediatamente al menomo dileggio di essi. Non è quindi esagerazione l’affermare che il discorso di Messala, progredendo lentamente fino all’ultima sua pausa, cagionò la più acuta tortura al suo uditore, il quale a questo punto, lo interruppe con un sorriso studiato.
— «Sono pochi coloro che permettono che il proprio avvenire sia fatto oggetto di scherno. Io non sono di quelli o Messala.» —
Il Romano lo osservò un istante, poi rispose: — «Perchè non si dovrebbe dire il vero scherzando, anche sotto forma di parabola? La grande Fulvia andò a pescare l’altro giorno, pigliò più pesci di tutte le sue compagne. Si disse che essa avesse fatta indorare la punta del suo amo.» —
— «Allora tu non scherzavi soltanto?» —
— «Mio Giuda, m’accorgo che non ti ho offerto abbastanza,» — rispose il Romano rapidamente, con gli occhi scintillanti. — «Quando sarò Prefetto e dominerò sulla Giudea, ti farò primo Sacerdote.» —
L’Ebreo si voltò adirato.
— «Non andare in collera» — disse Messala.
L’altro si fermò irresoluto.
— «Per gli Dei, mio Giuda, come scotta il sole!» — esclamò il patrizio, osservando la perplessità dell’altro.
— «Andiamo all’ombra». —
Giuda rispose freddamente:
— «E’ meglio che ci lasciamo, sarebbe stato anche meglio che io non fossi venuto. Cercavo un amico, e trovo....
— «Un Romano» — disse Messala.
L’Ebreo strinse i pugni, ma, padroneggiandosi con uno sforzo, si allontanò.
Messala si alzò, prese il mantello dal sedile, e gettatoselo sopra le spalle, seguì Giuda. Raggiuntolo, gli pose una mano sulla spalla e continuò il cammino.
— «Con la mia mano sulla tua spalla, eravamo avvezzi a camminare da fanciulli. Procediamo così fino al cancello.» —
Messala cercava d’esser serio e gentile, ma non poteva cancellare dal suo volto la solita espressione satirica.
Giuda lo lasciò fare.
— «Tu sei un ragazzo, io sono un uomo; lasciami parlare come tale.» —
La compiacenza del Romano rasentava la superbia. Mentore consigliando il giovane Telemaco non avrebbe potuto parlare con più disinvoltura.
— «Credi tu nelle Parche? Ah, dimenticavo! tu sei un Sadduceo: gli Esseni sono i soli che abbiano giudizio fra voi: essi credono nelle tre sorelle. Così faccio io. Costantemente esse ci attraversano il sentiero. Se covo un grande disegno, se lavoro per attuarlo, proprio quando sto per stringere il mondo nel pugno, intendo dietro di me lo stridere delle forbici. Mi volto, e la scorgo. Atropo maledetta! Ma, mio Giuda, perchè andasti in collera quando parlai di succedere al vecchio Cirenio? Tu pensavi che io volessi arricchirmi depredando questa tua Giudea? Supponiamolo; ciò è quanto farà forse un’altro Romano. Perchè non lo dovrei fare io?» —
Giuda rallentò il passo.
— «Altri stranieri, prima dei Romani, dominarono sulla Giudea,» — disse alzando la mano. — «Dove sono ora, o Messala? Essa ha sopravvissuto a tutti. Ciò che è stato avverrà ancora.» —
Messala disse ancora con pacatezza:
— «Le Parche hanno seguaci anche all’infuori degli Esseni. Ben tornato, o Giuda, nel grembo della fede!» —
— «No, Messala, non contarmi fra quelli. La mia fede poggia sulla rocca che fu il fondamento della fede de’ miei padri prima di Abramo; sopra la parola del Signore Iddio di Israele.» —
— «Troppa foga, mio Giuda. Come un simile scoppio di passione da parte mia, avrebbe incollerito il mio maestro! Io vorrei giovarti, o bello al pari di Ganimede; seriamente vorrei giovarti. Io ti voglio bene, tutto il bene di cui sono capace. Ti dissi che ho intenzione di diventar soldato. Perchè non vuoi fare altrettanto? Perchè non uscire dal cerchio angusto, che, come ti ho dimostrato, è tutta quanta la vita che permettono le tue leggi e i tuoi costumi?» —
L’Ebreo non gli diede alcuna risposta.
— «Chi sono i saggi ai giorni nostri?» — continuò Messala. — «Non quelli che esauriscono le loro forze in vane dispute intorno a cose morte; intorno a Baal, Giove e Jeova, o intorno a filosofie e religioni. Citami un grande nome, o Giuda; non mi importa dove tu possa cercarlo; in Roma, nell’Egitto, in Oriente, o qui in Gerusalemme, — e Plutone mi prenda, se non appartenne ad un uomo che foggiò la sua fama con gli strumenti che gli fornì il presente; che nulla tenne per sacro che non contribuisca a questo fine; che nulla sprezzò di quanto a questo fine condusse.
Non fu così di Erode, non fu così dei Maccabei? E il primo, e il secondo Cesare? Segui il loro esempio. Comincia subito. Ecco Roma, pronta ad aiutarti, come aiutò l’Idumeo Antipatro.» —
Il giovanetto Ebreo tremò di collera, e, trovandosi già vicino al cancello del giardino, affrettò i suoi passi, desideroso di fuggire.
— «O Roma, Roma!» — mormorò.
— «Sii saggio» — continuò Messala. — «Abbandona le fole di Mosè e le tradizioni; guarda in faccia alle cose. Guarda in faccia alle Parche, e ti diranno che Roma è il mondo. Chiedi loro che cosa è la Giudea, e ti risponderanno che è ciò che Roma vuole.» —
Erano giunti all’uscita. Giuda si fermò e tolse dolcemente la mano dell’amico dalla sua spalla, poi si voltò verso Messala, con le lacrime agli occhi.
— «Io ti comprendo, perchè sei Romano; tu non puoi comprender me. Io sono un Israelita. Tu mi hai cagionato un grande dolore, oggi, convincendomi che non potremo mai essere gli amici di una volta, mai! Dividiamoci. La pace del Dio dei miei padri sia con te!» —
Messala gli tese la mano: l’Ebreo passò sotto il portone. Quando egli si fu allontanato il Romano, rimase muto un istante; poi varcò anch’egli la porta, crollando la testa.
— «Sia,» — mormorò. — «Eros è morto, Marte regni!» —