Ben Hur/Libro Secondo/Capitolo III
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Traduzione dall'inglese di Herbert Alexander St John Mildmay, Gastone Cavalieri (1900)
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CAPITOLO III.
Dall’ingresso della città Sacra, corrispondente all’attuale porta di Santo Stefano, volgeva verso occidente una via parallela alla facciata settentrionale della Torre di Antonia e non molto distante da questo celebre castello. Continuando nella medesima direzione fino alla valle Tiropea, che seguiva per un breve tratto verso sud, essa piegava di nuovo ad occidente fino ad arrivare a quella che la tradizione chiama porta del Giudizio, per quindi volgersi decisamente verso Sud.
Il viaggiatore, o lo studioso famigliare con la sacra località, riconoscerà in questa strada una parte della via Dolorosa, di tanto e così melanconico interessamento per tutti i Cristiani. Siccome per lo scopo nostro non necessita la descrizione di tutta la via, sarà sufficiente di indicare una casa, la quale merita un esame più attento, sorgente all’ultimo angolo di essa.
L’edificio guardava verso occidente e verso settentrione, forse quattrocento piedi di lunghezza per ciascun lato, e, come la maggior parte delle case di una certa pretesa in Oriente, aveva due piani, ed era perfettamente quadrangolare. La via dal lato occidentale misurava circa dodici piedi di larghezza, quella a nord non più di dieci; e chi fosse passato rasente a quelle mura e avesse guardato in alto, sarebbe stato colpito dalla rude, incompleta, ma forte ed imponente apparenza che presentavano, perchè erano formate da larghi blocchi di pietra non tagliati, ma posti l’uno sull’altro come uscivano dalla cava. Un perito dell’epoca lo avrebbe chiamato stile fortilizio, se le finestre, adorne fuor dell’usato, e la finitezza e l’eleganza delle porte non avessero mitigata questa impressione.
Le finestre verso occidente erano in numero di quattro, quelle a settentrione soltanto due, tutte all’altezza del secondo piano. Le porte erano semplici interruzioni delle mura del piano inferiore, ed oltre ad essere tempestate di chiodi e difese da catenacci quasi a resistere ai colpi d’un ariete, erano protette da cornici di marmo artisticamente lavorate e di così ardita proiezione da rivelare apertamente al visitatore non ignaro degli usi del popolo, che il ricco proprietario del palazzo era un Sadduceo in politica ed in religione.
Dopo essersi separato dal Romano sulla Piazza del Mercato, il giovane Ebreo aveva risalita questa strada e s’era fermato davanti alla porta occidentale del palazzo da noi descritto. Gli fu aperta la porta ed egli entrò frettolosamente senza rispondere all’inchino rispettoso del guardiano. Per renderci conto della struttura interna della casa e per apprendere le ulteriori vicende del giovane, seguiamolo.
Il passaggio in cui era stato accolto rassomigliava ad una stretta galleria, con tavolati di legno alle pareti e volta adorna di trafori. Panche di pietra, lucide per lungo uso, la fiancheggiavano. Una quindicina di passi lo portava ad un cortile limitato ad ogni lato da edifici a due piani; il pian terreno era circondato da colonnati, mentre il superiore terminava in una terrazza difesa da una robusta balaustrata.
I servitori che andavano e venivano sui terrazzi, il rumore dei macinatoi in lavoro, la biancheria svolazzante su corde tese da parte a parte; le galline e i piccioni liberi e vaganti per il cortile; le capre, le mucche, gli asini e i cavalli posti sotto i colonnati; un grande serbatoio d’acqua evidentemente destinato all’uso comune, rivelavano gli scopi domestici del cortile.
Nel lato orientale il muro era interrotto da un altro passaggio simile al primo, e, attraverso a questo, il giovane pervenne in una seconda corte, spaziosa e quadrata, allietata da cespugli fioriti e da viti, cui, un bacino di marmo, aggiungeva bellezza e frescura.
I colonnati, qui, erano più alti, ombreggiati da cortine a strisce gialle e rosse, e le colonne avevano sembianza di steli intrecciati. Una gradinata verso sud immetteva ai terrazzi del piano superiore, sopra i quali erano tese grandi tende a proteggerli contro i raggi del sole. Un’altra gradinata conduceva dai terrazzi sul tetto, l’orlo del quale, per tutta la periferia, era adorno di una cornice scolpita e di un parapetto di terracotta rosso vivo. Dappertutto si scorgeva una scrupolosa pulizia che non permetteva alla polvere di adunarsi negli angoli, e non lasciava una foglia secca sopra i cespugli, contribuendo così ad accentuare l’impressione complessivamente deliziosa; tantochè, un visitatore, respirando quell’aria tranquilla e dolce, riceveva un’idea della raffinatezza e della coltura della famiglia che andava a trovare.
Fatti alcuni passi nel secondo cortile, il giovine piegò a destra, e scegliendo un sentiero attraverso i cespugli, giunse alla scala ed ascese al terrazzo, il pavimento del quale era coperto di piastrelle bianche e nere, rese lucide dallo stropiccìo continuo dei piedi. Alzando le tende di una portiera situata a settentrione, entrò in un appartamento che il cadere della tenda ripiombò nell’oscurità. Ciò non di meno procedette con passo sicuro verso un divano sopra il quale si gettò bocconi, riposando con la fronte appoggiata alle braccia incrociate.
Verso il crepuscolo una donna venne alla porta e chiamò; non avendo ottenuta risposta, sospinse la portiera ed entrò.
— «La cena è pronta e cade la notte. Non hai fame?» — gli chiese.
— «No» — rispose egli.
— «Sei ammalato?» —
— «Ho sonno.» —
— «Tua madre ha chiesto di te.» —
— «Dov’è?» —
— «Nel padiglione sopra il tetto.» —
Egli si scosse e si alzò.
— «Bene, portami qualche cosa da mangiare.» —
— «Che cosa desideri?» —
— «Quel che ti piace, Amrah. Non sono ammalato, ma sono indifferente alla vita. Essa non mi sembra così piacevole come mi apparve stamane. Un nuovo male, o mia Amrah; e tu che mi conosci così bene, tu che non mi sei mai venuta meno, pensa a ciò che può sostituire i cibi e le medicine. Portami ciò che vuoi!» —
Le domande di Amrah, e la voce con cui erano state fatte, bassa, dolce e premurosa, rivelavano rapporti di famigliarità fra quei due. Essa pose la mano sulla fronte di lui, e poi, quasi fosse soddisfatta dell’esame, uscì dicendo: — «Vedrò.» — In breve ritornò recando su di un vassoio di legno una scodella di latte, alcune focaccie di pane bianco, un delicato pasticcio di grano macinato, un uccello lessato, miele e sale. Ad una estremità del vassoio stava una coppa d’argento piena di vino, all’altra una lucerna di bronzo accesa.
Così illuminata, la stanza era visibile: le pareti di stucco levigato, la volta interrotta da grandi travi di quercia, annerite e macchiate dalla pioggia e dal tempo; il pavimento coperto di piccole piastrelle azzurre e bianche, resistenti e ben conservate. Alcune sedie con le gambe intagliate a somiglianza di gambe di leoni; un divano di poco rialzato sopra il suolo, guarnito di stoffa azzurra e in parte coperto da un immenso scialle di lana — in una parola, una camera da letto ebrea.
La luce lasciò vedere anche la donna. Avvicinando una sedia al divano, essa vi pose il vassoio e poi si inginocchiò vicino al suo signore, pronta a servirlo. Il suo volto era quello di una persona di cinquant’anni, scura di carnagione, nera d’occhi, i quali, in quel momento, erano raddolciti da un’espressione di tenerezza quasi materna. Un turbante bianco copriva la sua testa, lasciando esposta parte delle orecchie e in quelle i segni che rivelavano la sua condizione, — dei fori praticati con una grossa lesina. Era una schiava, di origine Egiziana, alla quale neppure il sacro cinquantesimo anno avrebbe potuto portare la libertà; nè essa l’avrebbe accettata, perchè il ragazzo, cui stava attendendo, formava la gioia della sua vita. Essa lo aveva allattato infante, lo aveva curato bambino, e non poteva tralasciare di servirlo. Per il suo affetto egli non sarebbe mai stato un uomo.
Egli parlò una sola volta durante il pasto.
— «Ti ricordi, o mia Amrah» — disse — «di quel Messala che soleva venire a trovarmi per giorni intieri?» —
— «Lo rammento.» —
— «Egli andò a Roma alcuni anni fa, ed è ritornato oggi. Sono stato a fargli visita.» —
Un brivido scosse il giovane.
— «Io avevo indovinato che ti era accaduto qualche cosa di grave.» — disse Amrah, con profonda sollecitudine. — «Io non ho mai amato Messala. Dimmi tutto.» —
Ma egli era tornato sopra pensieri, e alle sue ripetute domande rispose soltanto:
— «Egli è molto mutato, ed io non voglio aver nulla più a che fare con lui.» —
Quando Amrah portò via il vassoio, egli uscì insieme a lei, e salì dal terrazzo sopra il tetto.
Il lettore saprà qualche cosa degli usi a cui si adibiscono i tetti delle case, in Oriente. In quanto ai costumi, il clima è dappertutto il miglior legislatore. L’estate Siriaca, di giorno, costringe le persone a cercare riparo sotto i colonnati ombrosi; ma di notte ne li chiama fuori non appena l’ombre cominciano ad avvolgere lentamente i fianchi delle montagne, come i veli che coprono i cantori Circei. Ma quelle sono lontane, mentre il tetto è vicino, abbastanza rialzato sopra il livello della pianura scintillante, per essere visitato dai freschi venticelli notturni, e per lasciar mirare in tutto il suo splendore la volta stellata del cielo. Così tutta la famiglia si raduna sul tetto, che diviene luogo di giuochi, camera da letto, alcova, sala da musica, da danza, da conversazione, da meditazione e da preghiera.
Le ragioni che, in climi più freddi, suggeriscono la decorazione dell’interno delle case, in Oriente consigliano l’abbellimento del tetto. Il parapetto ordinato da Mosè divenne un trionfo dell’arte vasellaria e statuaria. Più tardi, sopra di esso, si elevarono torri, semplici e fantastiche; più tardi ancora principi e imperatori adornarono le sommità delle loro case di padiglioni di marmo e di oro. L’ultimo portato di questo lusso stravagante furono i giardini pensili di Babilonia.
Il giovane attraversò lentamente in tutta la sua lunghezza il tetto e si avvicinò ad una torre costruita sull’angolo nord-est del palazzo. Se fosse stato un forestiero avrebbe gettato uno sguardo sull’edificio e avrebbe veduto, per quanto l’ombra crepuscolare lo permetteva, un ammasso oscuro di pietre, con finestre a pilastri e graticci, terminato da una cupola. Egli, rapido, entrò passando invece sotto una cortina mezzo rialzata. Nell’interno regnava l’oscurità, tranne che ai quattro lati ove erano delle aperture arcuate attraverso le quali appariva il cielo illuminato di stelle. In uno dei vani, appoggiata ad un cuscino del divano, appariva la figura di una donna, confusamente, attraverso bianchi drappeggiamenti. Al suono dei suoi passi, il ventaglio che ella teneva in mano cessò di agitarsi, luccicando là dove i raggi delle stelle si rifrangevano nelle gemme di cui era tempestato. La donna si alzò a sedere e chiese:
— «Giuda, mio figlio, sei tu?» —
— «Sono io, madre,» — egli rispose, accelerando il passo. Si avvicinò, e si inginocchiò dinanzi a lei, mentr’essa lo cinse con le sue braccia e lo strinse al petto colmandolo di baci.