Ben Hur/Libro Quinto/Capitolo XVI
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Traduzione dall'inglese di Herbert Alexander St John Mildmay, Gastone Cavalieri (1900)
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CAPITOLO XVI.
Il giorno appresso, una buona mezz’ora prima del tempo fissato per l’appuntamento, Ben Hur, lasciato l’Omfalo, che era nel cuore della città, ed attraversati i Colonnati di Erode, arrivò al palazzo di Idernee.
Dalla strada penetrò dapprima in un vestibolo, dai lati del quale si partivano due scalinate conducenti a una galleria superiore. Leoni alati fiancheggiavano la scala; nel centro una gigantesca gru in mezzo a un bacino di marmo lasciava zampillar l’acqua dal becco. I leoni, la gru le scale ricordavano l’Egitto. Le pareti e pavimenti, la volta, la rampa della scala erano di pietra grigia. Sopra il vestibolo, sul pianerottolo della scala, sorgeva un porticato, così leggero, di tale grazia, e di così squisite proporzioni, quali solo uno scalpello Greco avrebbe potuto eseguire. Colonne ed archi di marmo bianchissimo, spiccavano come gigli sopra il grigio della pietra.
Ben Hur si fermò all’ombra del porticato, per ammirarne la finitezza del disegno e la purezza del marmo; quindi entrò nel palazzo. L’ampio portone era spalancato per riceverlo. Il corridoio in cui penetrò, era alto, ma stretto, pavimentato di mattoni rossi, con le pareti di egual colore; ma questa stessa semplicità avvertiva e preparava l’animo alle bellezze che dovevano venire di poi.
Egli camminava lentamente assaporando la quiete signorile del luogo e pensando al vicino colloquio con Iras. Essa lo aspettava, lo aspettava col suo canto e i suoi racconti, con la vivacità del suo spirito, con la sua voce voluttuosamente sommessa e suggestiva. Lo aveva mandato a chiamare la sera, sul lago, all’Orto delle Palme; ora lo aveva invitato di nuovo, — nel suo magnifico palazzo di Idernee. Egli procedeva come in un sogno felice.
Il corridoio lo condusse ad una porta chiusa davanti alla quale egli si fermò; in quella gli ampi battenti si spalancarono da soli, senza stridore, silenziosamente. Nessuna chiave era girata nella toppa; nessuna mano aveva sospinto l’uscio. La singolarità del caso gli passò inavvertita davanti allo spettacolo che gli si offrì.
Attraverso il vano della porta egli vide il vasto atrio di una casa Romana, e di una ricchezza e di una magnificenza favolosa.
Era impossibile dire l’ampiezza della sala, mirabilmente celata dall’armonia delle proporzioni. Abbassando gli occhi, s’avvide d’essere in piedi sul petto di una Leda che accarezzava il collo di un cigno, guardando più in là, vide che tutto il pavimento era un grande mosaico rappresentante soggetti mitologici. Intorno alle pareti, sparsi in artistico disordine per la sala, erano sedie e sgabelli di squisita fattura, ciascuno secondo un proprio disegno, e tavoli, meravigliosamente scolpiti, e giacigli coperti di soffici pelliccie che invitavano ad adagiarvisi sopra lunghi distesi. Tutti questi oggetti di mobiglio, insieme alle sculture e ai bassorilievi delle pareti, si riflettevano sul lucido pavimento, e sembravano quasi galleggiare sulla trasparente superficie di uno stagno.
Il soffitto era a volta e si incurvava verso il centro, donde attraverso una grande apertura pioveva la luce del giorno e traspariva l’azzurro del cielo; l’impluvium, sotto l’apertura, era circondato da grate di bronzo; i pilastri dorati che sopportavano la volta intorno all’orlo dell’apertura, corruscavano di viva fiamma là dove erano toccati dal sole, e i loro riflessi sul pavimento sembravano prolungarsi a profondità infinite.
Strani candelabri pendevano dall’alto, o si partivano in fantastiche curve dalle pareti, alternandosi con statue e vasellami; il tutto formando una sala degna della villa sul Palatino che Cicerone comperò da Crasso, o di quell’altra ancora più celebre per la sua stravagante magnificenza, la villa Tusculana di Scauro.
Assorto nell’ammirazione di quanto vedeva, Ben Hur girava per la sala, aspettando. Non era impaziente. Quando Iras sarebbe stata pronta, sarebbe venuta o l’avrebbe mandato a chiamare. In ogni casa Romana l’atrio era la sala di ricevimento degli ospiti.
Due, tre volte, fece il giro delle pareti; poi si fermò sotto all’apertura a contemplare con lo sguardo l’azzurra immensità del cielo sopra il suo capo; poi ancora, appoggiato contro una colonna, studiò gli effetti di luce e di ombra. E non veniva nessuno!
L’attesa cominciò a pesargli, e principiò pensare sulle possibili ragioni del ritardo di Iras. Esaminò di nuovo i disegni del pavimento, ma ne trasse minore diletto di prima e vi scoprì parecchi difetti. Di tanto in tanto si fermava ad ascoltare. L’impazienza cominciava a pungerlo, e il silenzio che lo circondava si fece opprimente. Una vaga inquietudine lo prese, e cercò invano di soffocarla:
— «Starà dandosi un’ultima pennellata alle sopracciglia, o, forse, starà facendo una ghirlanda per me; cercherà d’esser più bella onde farsi perdonare il ritardo!» — Con tali riflessioni tentò di cacciare la noia e la febbre dell’attesa.
Si sedette per ammirare un candelabro — un plinto di bronzo scorrente sopra rotelle; all’estremità si elevava lo stelo di una palma, dall’altra la figura di una donna inginocchiata dinanzi ad un’ara; le lampade pendevano in guisa di frutti fra le fronde dell’albero; — un capolavoro del suo genere. Ma l’ansia di quel silenzio non cedeva davanti alla contemplazione del bellissimo oggetto. Egli tendeva l’orecchio, ma non si udiva un suono; il palazzo era muto come una tomba.
Forse vi era stato un errore. No: il messaggiero veniva da parte dell’Egiziana, e questo era il palazzo di Idernee. Poi si rammentò che la porta si era aperta in modo misterioso, da sola, senza chiasso. Andrebbe ad accertarsi!
Mosse verso la porta. Quantunque si sforzasse di camminare in punta di piedi, i suoi passi risuonarono sgradevolmente, ed egli ne ebbe quasi paura. Diventò nervoso. Il pesante chiavistello romano resistette al primo tentativo fatto per smuoverlo; provò una seconda volta — il sangue gli si agghiacciò nelle vene — finalmente diede uno strappo alla serratura con tutte le sue forze: invano — la porta non si mosse neppure. Un senso di timore lo prese, e per un momento rimase irresoluto.
Chi, in Antiochia, aveva motivo di fargli del male?
Messala!
E questo palazzo di Idernee? Aveva veduto l’Egitto nel vestibolo, Atene nel candido porticato; ma, qui, nell’atrio, era Roma; tutto quanto, all’ingiro, tradiva l’appartenenza Romana. E’ vero, il palazzo era in una delle strade più popolose della città; ma, per questa cagione appunto, poteva esser stato scelto dal genio audace del suo nemico.
L’atrio subì una metamorfosi; con tutta la sua eleganza e bellezza, non era che una trappola. Il timore dipinge tutto in nero.
L’idea d’essere stato colto come un uccello nella pania irritava Ben Hur.
Molte porte apparivano a destra e a sinistra dell’atrio, conducenti probabilmente alle camere da letto; cercò di aprirle ma senza riuscirvi. Forse bussando avrebbe chiamato gente; ma vergognoso di far rumore, si gettò sopra un giaciglio e raccolse i suoi pensieri.
Evidentemente egli era prigioniero; ma a che scopo? e di chi?
Era opera di Messala? Egli si alzò, girò gli occhi attorno, atteggiò le labbra a un sorriso di scherno. Armi pendevano dalle pareti, e giacevano sui tavoli; avrebbe saputo difendersi. La fame? Uccelli erano morti di inedia in gabbie d’oro! ma egli non sarebbe morto là. Le statue di bronzo ed i mobili gli avrebbero servito da arieti, e la sua forza, triplicata dall’ira e dalla disperazione, avrebbe sfondata qualunque porta.
Messala non sarebbe venuto. Egli non poteva muoversi dal letto. Era paralizzato come Simonide; pure avrebbe potuto mandare altri sicari, comperati e pronti a qualunque delitto. Ben Hur si alzò ed esaminò nuovamente le porte. Chiamò una volta; ma il suono della sua voce lo spaventò. Decise di aspettare con calma qualche tempo, prima di fare un tentativo estremo.
In simili situazioni la mente ha i suoi flussi e riflussi, con intervalli di tranquillità fra l’uno e l’altro. Finalmente, dopo matura riflessione, concluse che dovesse esser successo un errore o un accidente. Il palazzo doveva appartenere a qualcheduno. Doveva avere almeno un custode, e questi sarebbe venuto ad aprirgli — fra un ora — fra due ore. Pazienza.
Così, pensando, attese.
Passò mezz’ora — a Ben Hur essa sembrò assai lunga — quando la porta per cui era entrato, si aprì e si rinchiuse silenziosamente, senza che egli se ne avvedesse, seduto com’era dalla parte opposta della sala.
Il rumore dei passi lo fece trasalire.
— «Ecco Iras!» — egli pensò con un fremito di sollievo e di gioia.
I passi erano pesanti e accompagnati dallo stropiccio di rozzi sandali.
Egli si alzò, e, silenziosamente, si appostò dietro le colonne dorate nel centro della sala. Di lì a poco intese voci — voci di uomini, ma non potè comprendere ciò che dicevano, perchè parlavano un linguaggio sconosciuto all’oriente.
Dopo un esame superficiale della stanza gli stranieri si avanzarono a sinistra, e Ben Hur li vide: erano due uomini, uno grasso, entrambi alti di statura, abbigliati con tuniche succinte. Non avevano l’aria nè di padroni nè di domestici della casa. Tutto ciò che vedevano destava la loro meraviglia, e si fermavano spesso a toccare gli oggetti con una curiosità animalesca. Erano due tipi volgari, che sembravano profanare l’atrio con la loro presenza. D’altra parte la loro aria sicura e disinvolta rivelava un intento preciso. Quale?
Chiacchierando vivacemente, e arrestandosi ora qui ora lì, si avvicinarono alla colonna dietro alla quale stava Ben Hur. Un fascio di luce pioveva sul pavimento, a poca distanza, illuminando un mosaico, ad osservare il quale essi si fermarono di nuovo, permettendo a Ben Hur di esaminarli dettagliatamente.
Il lungo silenzio e l’aria di mistero che dominavano sul palazzo avevano reso Ben Hur alquanto nervoso, e un fremito di paura gli attraversò ogni fibra, quando riconobbe, nel primo e più grasso degli stranieri, quel Germano ch’egli aveva conosciuto in Roma, e che aveva veduto il giorno prima al Circo, vincitore del premio al pugilato; il volto abbronzato dell’uomo, deturpato dalle cicatrici di molte battaglie e dalle impronte di vizi brutali; le membra colossali, vere meraviglie di quanto l’esercizio e la disciplina della palestra possono produrre, spiravano una minaccia, che era impossibile disconoscere. L’istinto gli disse che il momento per un assassinio era troppo ben scelto per essere il frutto di un caso.
Posò lo sguardo ansioso sul compagno del gigante: un giovine, dagli occhi neri, e dai capelli scuri, Ebreo all’apparenza; osservò che entrambi indossavano i costumi dell’Arena. Sommando queste diverse circostanze. Ben Hur non potè che dedurne una conclusione: Egli era caduto in un trabocchetto. Lontano da ogni aiuto, in questo splendido carcere, doveva morire!
Dubbioso ed incerto, guardava ora l’uno ora l’altro dei due uomini, mentre, nella sua mente, si svolgeva quell’ultimo miracolo della memoria in procinto di oscurarsi per sempre, la quale richiama alla coscienza del moribondo tutta quanta la vita passata e gli fa sfilare dinanzi agli occhi ogni minimo dettaglio della sua vita trascorsa, con tutta l’evidenza della realtà. Sino a pochi giorni fa egli era il perseguitato, l’agnello. Da poco era avvenuto il grande mutamento della sua vita che lo avrebbe dovuto rendere aggressore, e che lo avrebbe avviato a quel grande sogno di vendetta e di gloria, di cui la giornata di ieri era stato il primo, importantissimo passo. Ieri aveva trovata la prima sua vittima! Ad uno spirito puramente Cristiano, questa immagine avrebbe portata la debolezza del rimorso. Non così con Ben Hur; l’anima sua era stata modellata sulle dottrine del grande legislatore del suo popolo. Il castigo di Messala era meritato, era giusto! Iddio stesso gli aveva concessa la vittoria, e questo pensiero gli accrebbe fiducia.
Non solo. Gli era stato detto, e le circostanze lo avevano concordemente confermato, che il Cielo lo aveva scelto per una missione santa, come era santo il Re che doveva venire, — una missione che rendeva legittima e sacra anche la vendetta, perchè necessaria. Doveva egli, sulla soglia appena del suo grande compito, temere e disperarsi?
Disfece il nodo della fascia che gli stringeva la vita, e lasciò scivolare a terra l’ampia vestaglia bianca, che portava, alla foggia degli Ebrei, rimanendo in una tunica succinta non dissimile da quelle degli avversari. Incrociando le braccia sul petto, ed appoggiando le spalle alla colonna, aspettò tranquillamente.
L’esame del mosaico fu breve.
Tosto il Germano si voltò, e disse qualche cosa al compagno; entrambi guardarono Ben Hur. Scambiate poche altre parole nella loro lingua, avanzarono verso di lui.
— «Chi siete!» — chiese Ben Hur.
Il Germano sorrise, senza che quest’atto giovasse ad attenuare la feroce bruttezza del suo volto, e rispose:
— «Barbari.» —
— «Questo è il palazzo di Idernee. Che cosa cercate? Fermatevi e rispondete.» — La voce era calma ma imperiosa. I due si fermarono, e, a sua volta, il Germano domandò:
— «Chi sei tu?» —
— «Un Romano.» —
Il gigante rovesciò il capo all’indietro e spalancando la bocca rise:
— «Ah, ah! Ho udito dire che un Dio nacque da una vacca per aver leccato una pietra salata; ma neanche un Dio può fare Romano un Giudeo.» —
Poi parlò di nuovo al compagno e i due si avvicinarono.
— «Fermi!» — disse Ben Hur, abbandonando la colonna. — «Una parola.» —
Si fermarono nuovamente.
— «Una parola?» — ripetè il Sassone, incrociandole braccia poderose sopra il petto. — «Una parola? Parla.» —
— «Tu sei Thord, il Germano.» —
Gli occhi azzurri del gigante si spalancarono per la sorpresa.
— «Fosti lanista in Roma.» —
Thord accennò di sì.
— «Io fui tuo scolaro.» —
— «No» — disse Thord, crollando il capo. — «Per la barba d’Irmino, non ho mai avuto nelle mie mani un Ebreo.» —
— «Io posso provare il mio asserto.» —
— «Come?» —
— «Voi veniste qui per uccidermi.» —
— «Questo è vero.» —
— «Allora lascia che quest’uomo lotti con me, da solo, ed io ti fornirò la prova sopra il suo corpo.» —
Un lampo d’allegria scintillò negli occhi del Germano. Disse due parole al compagno, il quale gli rispose; poi, volgendosi a Ben Hur, disse con la compiacenza di un fanciullo che si diverte:
— «Aspettate il mio segnale. Poi cominciate.» —
Con ripetuti calci avvicinò uno dei giacigli, e, con tutta tranquillità, vi si distese sopra comodamente; poi disse semplicemente:
— «Ora cominciate.» —
Senza preamboli, Ben Hur avanzò sopra il suo avversario.
— «Difenditi» — gli disse.
L’avversario alzò le mani e si mise in posizione.
Stando così, l’uno di fronte all’altro, non presentavano nessuna apparente disparità; al contrario, si rassomigliavano come due fratelli.
Lo straniero aveva sulle labbra un sorriso fiducioso, mentre il volto di Ben Hur esprimeva una serietà ed una risoluzione, che avrebbero suonato avvertimento e minaccia a chi avesse meglio conosciuto la sua abilità.
Entrambi sapevano che il combattimento era mortale.
Ben Hur fece una finta con la mano destra. Lo straniero parò, avanzando leggermente il braccio sinistro. Prima ch’egli potesse ritornare alla posizione di guardia, Ben Hur gli afferrò il polso con una stretta che gli anni passati al remo avevano reso terribile come una morsa. La sorpresa fu completa.
Scagliarsi innanzi, spingere il braccio imprigionato sotto il mento dell’avversario, e sopra la spalla destra, quindi far girare l’uomo in modo che presentasse il fianco sinistro senza difesa, assestargli un pugno — un pugno solo — sul collo nudo, sotto l’orecchio, — fu l’affare di pochi secondi. Il sicario precipitò a terra, pesantemente, senza un grido, e giacque immobile.
Ben Hur si volse a Thord.
— «Ah! Che? Per la barba d’Irmino!» — gridò questi, attonito, alzandosi. Poi rise.
— «Ah, ah, ah! Non avrei potuto farlo meglio io stesso.» —
Egli osservò Ben Hur tranquillamente dalla testa ai piedi, e lo fronteggiò con aperta ammirazione.
— «E’ il mio colpo — il colpo che per dieci anni praticai nelle scuole di Roma. — Tu non sei Ebreo. Chi sei?» —
— «Conoscesti Arrio, il duumviro?» —
— «Quinto Arrio? Sì, egli era mio patrono.» —
— «Egli aveva un figlio.» —
— «Sì,» — disse Thord, mentre il suo volto abbrutito fu illuminato da un lampo di gioia. — «Io conobbi il ragazzo; egli sarebbe diventato il Re dei gladiatori. Cesare gli offerse il suo favore. Io gl’insegnai quello stesso colpo che tu hai eseguito su costui, — un colpo impossibile tranne ad un pugno e ad un braccio come i miei. Mi ha valso più d’una corona.» —
— «Io sono il figlio di Arrio.» —
Thord si avvicinò, e lo esaminò con attenzione; poi i suoi occhi azzurri sfavillarono di schietta compiacenza, e, ridendo, gli tese la mano.
— «Ah, ah, ah! Egli mi disse che troverei un Giudeo — un cane di un Giudeo — ammazzando il quale avrei servito gli Dei!» —
— «Chi te lo disse?» — chiese Ben Hur, stringendogli la mano.
— «Egli — Messala — ah, ah!» —
— «Quando, Thord?»
— «Ieri notte.» —
— «Credevo che fosse malconcio.» —
— «Egli non camminerà mai più. Mi parlò dal suo letto, tra spasimi ed urli.» —
Era un quadro vivo, disegnato in pochi tratti; e Ben Hur capì che il Romano, se fosse sopravvissuto, avrebbe covato un odio inestinguibile, e gli sarebbe stato sempre pericoloso. Solo la vendetta gli rimaneva per addolcire la sua vita rovinata; donde quel suo convulso aggrapparsi alla fortuna, perduta nella scommessa con Samballat.
Ben Hur fissò gli sguardi nel futuro, e vide in quante guise il suo nemico avrebbe potuto nuocere ai suoi disegni, intralciare la grande opera intrapresa pel servizio del Re.
Perchè non ricorrere ai metodi del Romano? Questo uomo, prezzolato per assassinarlo, si poteva comperare per uccidere Messala.
Egli poteva offrirgli un prezzo maggiore.
La tentazione era forte; e, quasi in procinto di cedere, i suoi occhi incontrarono per caso il cadavere del suo avversario, col pallido volto scoperto, così simile al suo.
Gli balenò un’idea e chiese:
— «Thord, quanto ti ha dato Messala per uccidermi?» —
— «Mille sesterzii.» —
— «Tu li avrai; e purchè tu eseguisca a puntino i miei ordini, ne aggiungerò altri tremila dei miei.» —
Il gigante espresse il suo pensiero ad alta voce:
— «Ieri ho vinto cinquemila sesterzii; dal Romano mille — fanno seimila. Dammene quattro, buon Arrio — quattro altri — e io t’aiuterò, quand’anche Thord, il mio divino omonimo, mi dovesse fulminare col suo martello. Dammene quattro, e, ad una tua parola, ti freddo quel bugiardo patrizio; ho solo da coprire la sua bocca con la mia mano — così.» —
Il gesto che accompagnò queste parole era suggestivo.
— «Capisco» — disse Ben Hur: — «diecimila sesterzii sono una fortuna. Ti permetteranno di andare a Roma e di aprire un nuovo negozio di vino in prossimità al Circo Massimo, e vivere come si addice al primo dei lanisti.» —
Persino le vecchie cicatrici sul viso del gigante raggiarono di gioia.
— «Io ti darò quattromila sesterzii» — continuò Ben Hur — «e non ti chiederò di versar sangue. Ascolta. Quel tuo compagno non aveva una accentuata rassomiglianza con me?» —
— «Vi avrei detto due mele dello stesso albero.» —
— «Ebbene, se io indosso la stessa tunica, e vesto lui coi miei panni, noi due possiamo andarcene tranquillamente, e tu ricevere ugualmente i tuoi sesterzii da Messala. Non hai che da dargli ad intendere che il morto sono io.» —
Thord rise fino alle lacrime.
— «Ah, ah, ah! Diecimila sesterzii in due giorni, guadagnati così facilmente! E un negozio di vino presso il Circo! tutto per una bugia, senza una goccia di sangue. Ah, ah, ah! Dammi la tua mano, o figlio di Arrio. Se mai vieni a Roma, non dimenticarti di visitare la bettola di Thord, il Germano. Per la barba di Irmino, ti darò il miglior Cecubo di Roma, dovessi andarlo a rubare nelle cantine di Cesare!» —
Si scambiarono un’altra stretta di mano, dopo la quale compirono il travestimento del morto, di cui Ben Hur indossò la tunica ed i sandali. Quando tutto fu finito, il gigante bussò alla porta, che si aperse. Quindi scesero in istrada e, giunti all’Omfalo, si divisero.
— «Non dimenticarti la bettola presso il Circo, o figlio di Arrio! Ah, ah, ah! Per la barba di Irmino, non vi fu mai fortuna guadagnata a miglior mercato. Gli Dei vegliano su di te!» — Questo fu l’addio del gladiatore.
Nel lasciare l’atrio, Ben Hur diede un ultimo sguardo al sicario, giacente per terra nel suo costume d’Ebreo, e fu soddisfatto. La somiglianza era perfetta. Se Thord stava zitto, l’inganno non correva rischio d’essere scoperto.
Quella notte, nella casa di Simonide, Ben Hur raccontò al negoziante tutto quanto era avvenuto nel palazzo di Idernee; e fu stabilito, che, dopo qualche giorno, si sarebbe aperta un’inchiesta per scoprire le traccie dello scomparso figliuolo d’Arrio. Anzi l’affare doveva essere portato francamente ai piedi di Massenzio: e allora, se il mistero non fosse penetrato, Messala e Grato sarebbero rimasti felici e contenti nella credenza della morte di Ben Hur, mentre questi sarebbe stato libero di recarsi in Gerusalemme, e iniziare le ricerche intorno alla sua famiglia.
Alla partenza, Simonide, seduto nella sua poltrona sopra il terrazzo, impartì al giovine la benedizione del Signore con l’affetto di un padre; mentre Ester lo accompagnò sino sul pianerottolo della scala.
— «Se io trovo mia madre, Ester, tu verrai da lei a Gerusalemme, e sarai una sorella per la mia Tirzah.» —
Così dicendo egli la baciò.
Fu solo un bacio fraterno?
Il giovane dopo ripassò il fiume e si recò all’ormai deserto Orto delle Palme. Qui l’attendeva la guida con due cavalli.
— «Questo è tuo» — disse l’Arabo indicando Uno di essi.
Ben Hur guardò: Era Aldebran, il più rapido e il più bello dei figli di Mira, e, dopo Sirio, il preferito del suo padrone; Ben Hur sapeva che il cuore del vecchio sceicco accompagnava questo dono.
Il cadavere nell’atrio fu trovato e seppellito; un corriere di Messala partì lo stesso giorno per Cesarea, annunziando a Valerio Grato la morte di Ben Hur, questa volta certa e indubitata.
Non molto tempo dopo questi eventi, nelle adiacenze del Circo Massimo, fu aperta una bettola con questa iscrizione:
THORD IL GERMANO.