Avventure di Robinson Crusoe/27
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Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
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Altri nuovi lavori per una seminagione più ampia e per fare il pane.
Rimasto affatto in casa ne’ giorni d’incessante pioggia, impiegai questi nelle cose ch’io son per descrivere. Noterò intanto che, mentre io stava intento al lavoro, mi divertiva parlando col mio pappagallo ed insegnandogli a parlare e a capire quand’io lo chiamava col suo nome Poll, che finalmente imparò a profferire schietto anch’esso: fu questa la prima parola ch’io avessi udita da altra voce fuor della mia dal primo istante del mio soggiorno in quest’isola. Non vi crediate per altro che fosse questo il mio principale lavoro; ne era bensì il conforto, perchè, come dissi, io m’era accinto a grandi faccende.
Una di quelle che mi stettero lungamente a cuore si fu il fabbricarmi qualche vaso di terra, cosa di cui tanto mancava, nè sapeva in qual modo provvedermene. Pure, pensando all’estremo caldo del clima, non giudicai difficile il poter trovare una tal sorta di creta onde si potesse fare alla meglio una pentola che, seccata al sole, fosse dura e forte abbastanza per essere maneggiata e contenere qualunque cosa non liquida ed atta ad esservi conservata entro. E poichè tal genere di vaso mi era necessario nelle mie faccende del grano, della farina, ec., allora argomento principale de’ miei pensieri, mi determinai a far questi vasi ampi quanta mai si poteva ed opportuni, come gli orci, a contenere tutte le cose che vi si volessero racchiudere.
Moverei a compassione o piuttosto a riso il leggitore se gli dicessi a quanti sgraziati modi io m’appigliai per dare alla mia pasta una forma; quali brutte, sgarbate cose ne uscirono! quante di queste si schiacciarono; quante andarono a male, perchè la creta non era abbastanza salda per sostenere il proprio peso; quante creparono in forza dell’eccessivo calore del sole cui le aveva esposte prima del tempo; quante andarono in pezzi col solo moverle o prima o dopo di essere seccate; se io gli dicessi in somma che dopo immense fatiche per trovare la creta, per cavarla, per mescolarla con sabbia, per portarmela a casa, per modellarla, non arrivai su le prime, e ci vollero poi anche due mesi per fabbricarmi due orride cosacce di terra, cui non ardisco dare il nome di orci.
Pure sconci com’erano questi due vasi, poichè il sole gli ebbe seccati e induriti, gli alzai pian piano da terra e li collocai entro due grandi canestri di vimini fatti da me a posta per contenerli e difenderli ad un tempo dal rompersi; poi siccome tra il vaso e il canestro rimaneva un vano, lo colmai con paglia d’orzo e di riso pensando che, se questi due vasi si mantenevano asciutti, avrebbero contenuto il mio grano e fors’anche la mia farina, quando il primo sarebbe macinato.
Benchè i miei disegni m’andassero grandemente fallati rispetto agli orci, pure feci con buon successo molt’altre più piccole cose, per esempio brocche, piattelli, pignatte, scodelle ed altri arnesi che la mia mano poteva più facilmente maneggiare, e che il calor del sole ridusse ad una perfetta durezza.
Ma tutto ciò non avrebbe potuto corrispondere ad un mio grande antico fine, quello di procurarmi una pentola di terra che contenesse i liquidi e sopportasse il fuoco, virtù che certo non poterano avere i miei vasi. Molto tempo dopo, avendo fatto un gran fuoco per arrostire la mia carne, mentre ne la ritraeva già cucinata, m’accadde osservare che un rottame de’ miei vasi di terra gettato ivi era divenuto duro al pari d’una pietra, e rosso quanto una tegola. Rimasi gratamente sorpreso a tal vista, perchè pensai che sicuramente si potea far cuocere tutto un vaso, se era atto a cuocersi un pezzo di esso.
Questa scoperta portò tutto il mio studio a prepararmi un fuoco entro cui cuocere alcuni de’ predetti miei vasi. Certo io non avea veruna nozione di fornaci da pignattaio, o del metodo d’inverniciar le pignatte col piombo, benchè alcun poco di questo metallo io possedessi. Ad ogni modo collocate tre grandi brocche e due o tre pentole una su l’altra, poi tutta questa colonna sopra un mucchio di cenere, accesi un gran fuoco tutt’all’intorno, e lo continuai con rinovato combustibile, conducendo la fiamma in guisa che ogni parte del mio edifizio ne fosse egualmente investita; e ciò fin che vidi i vasi affatto rossi senza essere menomamente scoppiati. Li lasciai in questo grado di caldo per circa cinque o sei ore, dopo le quali notai che un di questi, se bene non iscoppiasse, si scioglieva e fondeva. Ciò derivava dalla sabbia mescolata con la creta che, liquefatta dalla violenza del calore, si sarebbe convertita in cristallo se non avessi lasciato di fare gran fuoco; lo diminuii quindi gradatamente, finchè i vasi cominciarono a scemare il loro rosso, e dopo aver vegliato tutta la notte affinchè il fuoco non cessasse d’improvviso, la mattina ottenni tre buone... non ardisco dir belle pentole, e due altri vasi di terra cotta, come io desiderava; anzi un di questi perfettamente inverniciato grazie al liquefarsi della sabbia.
Dopo un tale esperimento non fa d’uopo io dica che non mi mancò più alcuna sorta di vasi di terra cotta pel mio domestico uso; ma nemmeno posso tacere come le forme di essi non fossero più belle di quelle che potessero aspettarsi da un fanciullo quando fa pallottoline col fango, o da una fantesca di villaggio la quale s’accignesse a fare un pasticcio.
Non mai gioia per una cosa di minor pregio in sè medesima fu uguale alla mia, quando m’accorsi di aver fatto una pentola che reggeva al fuoco. Ebbi appena la pazienza di lasciarla venir fredda per metterla al fuoco una seconda volta, ma piena d’acqua, per farvi bollire entro un pezzo di capretto, la qual cosa mi riuscì ammirabilmente, e ne trassi un ottimo brodo. Peccato che mi mancava l’orzo e parecchi altri ingredienti per farmi tale minestra quale l’avrei desiderata!
L’altro mio pensiere fu quello di procurarmi un mortaio di pietra per stritolare entro di esso il mio grano; perchè quanto ad un mulino, sarebbe stato ridicolo l’immaginarsi d’arrivare a tanta perfezione d’arte con un paio di mani. Per supplire a tale bisogno io non sapea da vero da qual parte volgermi, perchè, fra tutti i mestieri del mondo, io mi sentiva chiamato a quel dello scarpellino anche meno che a qualunque altro. Impiegai molti giorni a trovar fuori un masso grosso abbastanza per sopportare uno scavamento interno e divenir così il mio mortaio; ma non ne rinvenni eccetto che di quelli incastrati nel vivo di qualche rupe ch’io non aveva modo di cavar fuori. Oltrechè, non vi erano nell’isola rocce di sufficiente durezza, perchè erano tutte di pietra arenosa e fragile che o non avrebbero sostenuto il peso di un pesante pestello, o nel rompersi del grano lo avrebbero empiuto di sabbia. Dopo aver quindi consumato un gran tempo nella ricerca di un masso acconcio al mio bisogno, ne dimisi l’idea. Pensai di volgermi piuttosto ad un grosso ceppo di legno ben duro, impresa che del certo mi presentava minori difficoltà. Procuratomi pertanto un ceppo tanto grosso quanto le mie forze mi permettevano di moverlo, lo ritondai esternamente con la mia accetta; indi con l’aiuto del fuoco, nè senza un’immensa fatica, lavorai uno scavo dentr’esso nel modo con che gl’Indiani del Brasile si fabbricano i loro canotti. Dopo ciò mi feci un grande pesante pestello o battitore di legno di ferro; e tutto ciò io aveva apparecchiato in espettazione del mio prossimo ricolto, fatto il quale io mi prefiggea di macinare, o piuttosto pestare il grano avuto per fabbricarne il mio pane.
Veniva ora l’altra difficoltà di farmi un vaglio per separare la crusca dalla mia farina, senza di che non avrei mai più avuto pane. Questa era la cosa più difficile anche al solo pensarci, perchè io non aveva nulla che somigliasse a quanto ci sarebbe voluto a tal uopo: intendo una tela opportuna per farci passare la farina. Fu questo un grande intoppo per molti mesi, nè sapeva proprio dove dar di cozzo. Biancheria io non ne avea che non fosse ridotta a veri cenci: aveva del pelo di capra; nè certo sapeva come si facesse nè a filarlo nè a tesserlo. Finalmente mi sovvenne che fra i panni marinareschi salvati dal naufragio del vascello si trovavano non so quanti fazzoletti da collo di mussolina, onde con alcuni di essi arrivai a farmi tre piccoli vagli sufficienti al proposito: così ebbi di questi arnesi per più anni. Come facessi in appresso, lo dirò a suo tempo.
L’altra necessità che ora presentavasi era quella di cuocere il pane allorchè avessi avuta la farina, perchè, quanto al farne pasta con lievito, non avendo io di questo, era cosa su cui non mi diedi più alcun pensiere: tutto l’imbarazzo consisteva nell’avere un forno. Finalmente per supplire anche a questa mancanza, ecco qual rimedio inventai. Fabbricali alcuni piatti di terra larghi, ma non profondi, cioè che avessero circa due piedi di diametro ed una profondila non maggiore di nove pollici, li feci cuocere al fuoco non meno degli altri vasi, indi li posi in disparte. Quando sopravveniva il bisogno di cuocere il pane, accendeva il fuoco sul mio focolare che aveva lastricato con alcuni mattoni riquadri della mia fabbrica, benchè io non possa dire che fossero perfettamente riquadri.
Appena la legna posta al fuoco era tutta andata in cenere e brage, io spargea queste sul focolare, sì che lo coprissero tutto, e ve le lasciava tanto che fosse ben riscaldato ed egualmente in ogni parte. Spazzate indi le ceneri, poneva sopr’essa la mia pagnotta o le mie pagnotte ch’io copriva col piatto di terra cotta, su la cui superficie convessa io spargeva ceneri calde, perchè mantenessero ed aggiungessero calore al mio pane. Così, come se fossi stato padrone del miglior forno del mondo, io cuoceva le mie pagnotte di farina d’orzo, ed in breve tempo divenni sopra mercato un eccellente pasticciere, perchè mi faceva da me stesso le mie focacce e le mie torte di riso; non dirò pasticci, perchè aveva bensì da metterci dentro carne di capra ed uccelli, ma non gli altri ingredienti che ci vogliono in un pasticcio.
Non è meraviglia se tutti questi lavori mi portarono via la maggior parte del terzo anno del mio soggiorno in quest’isola; perchè e da osservarsi che nell’intervallo di tali lavori ebbi anche l’altro della mietitura e di tirarmi a casa il mio ricolto: operazioni che eseguii quando ne fu la stagione alla meglio che potei, collocando cioè le spighe ne’ miei ampi canestri, per isgranarle indi a suo tempo, perchè non aveva nè aia su cui trebbiarle, nè una trebbia per eseguire con essa la separazione del grano dalla paglia.
Ora cresciutami da vero la mia provvigione di grano, sentiva il bisogno d’ingrandire i miei granai; perchè i miei campicelli m’aveano sì ben fruttato ch’io contava su venti moggia all’incirca d’orzo ed altrettante o più di riso. Risolvei ora di valermi con maggior libertà del mio grano, tanto più che la provvista del biscotto m’aveva abbandonato da molto tempo; onde mi feci ad esaminare quanto grano mi sarebbe abbisognato per un intero anno, e se non bastasse per me una sola seminagione annuale.
Fatto questo computo, vidi che quaranta moggia d’orzo e di riso erano molto più di quanto io consumava in un anno, onde stabilii di seminare ogni anno la stessa quantità che io area seminata l’anno scorso, sperando che ciò mi avrebbe provveduto abbastanza di sussistenza per l’avvenire.