Avventure di Robinson Crusoe/28
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Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
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La piroga.
Ma qui io tenea conto delle speranze, non dei pericoli, non della possibilità di cadere in mano di selvaggi peggiori forse, come io aveva ragione di temere, dei leoni e delle tigri dell’Africa. Io non pensava che, una volta in loro potere, avrei corso il rischio di mille contr’uno d’essere ucciso e probabilmente divorato; perchè aveva udito narrare che gli abitanti della costa de’ Caribei erano mangiatori d’uomini, e la latitudine ove io stava mi dava di non essere lontano da quella spiaggia. Ma supponendo ancora che non fossero cannibali, avrebbero potuto uccidermi, come avevano ucciso parecchi Europei caduti, ancorchè fossero in dieci o venti, nelle loro mani; molto più dovea temer questo io che mi vedeva solo, e non poteva opporre se non poca o niuna resistenza; tutte queste cose che avrei dovuto ponderar bene alla prima, e che mi vennero in mente sol dopo, non mi sgomentarono allora; troppo la mia mente era ingombra dal desiderio di raggiugnere quella spiaggia.
Io m’augurava in quel punto il mio fanciullo Xury e la lunga scialuppa dalla vela di pelle di montone entro cui navigai per oltre a mille miglia lungo la costa dell’Africa; ma ciò era inutile. Mi nacque indi l’idea di tornare a visitare quella scialuppa che, come dissi già, fu lanciata a terra per sì lungo tratto di spiaggia al tempo del nostro naufragio. Essa stava quasi ove si trovava sul principio, ma non del tutto, perchè voltata pressochè sossopra dalla violenza della marea e de’ venti, fu spinta contro ad un alto cumulo di sabbia del lido, nè, come per lo innanzi, aveva acqua d’intorno a sè. Se avessi avuto chi mi desse una mano a racconciarla e lanciarla nuovamente nell’acqua, essa sarebbe stata ottima, e avrei potuto con essa tornarmene facilmente addietro fino alle coste del Brasile. Pure avrei dovuto prevedere che tanto mi era possibile il rimetterla così capovolta nel suo primo stato, quanto il movere di là l’intera isola; nondimeno andato ai boschi e tagliatine legni per leve e arganelli, condussi meco queste cose alla scialuppa, risoluto di provare che cosa sarei stato buono a fare. Non mi abbandonava la persuasione che se mi fosse riuscito raddirizzarla e riparare i danni cui era soggiaciuta, sarebbe stata tuttavia una buona scialuppa e tale da potermi avventurare nel mare sovr’essa.
Certamente non risparmiai fatiche in questo inutile lavoro che mi mandò a male tre o quattro settimane all’incirca di tempo; finalmente, veduta l’impossibilità di levarla di lì con la poca forza che aveva, mi diedi a scavare la sabbia su cui posava, per farla cadere all’ingiù; anzi per proteggerne la disegnata caduta disposi cilindri di legno atti a reggerla e condurla lungo la strada ch’io volea farle percorrere.
Ma raggiunta questa meta, mi trovai nuovamente inabile a moverla, a mettermici sotto, tanto più poi a spingerla in acqua, onde finalmente fui costretto ad abbandonar la mia impresa. Pure, anche perdute tutte le speranze ch’io avea riposte nella scialuppa, cresceva in me, anzichè diminuire, il desiderio d’avventurarmi verso la terra comparsami innanzi, e crescea con tanta maggior forza quanto più impossibile ne apparivano i mezzi.
Finalmente cominciai a fantasticare se vi fosse modo di fabbricarmi da me un canotto o piroga, quali sanno cavarli da un grosso tronco d’albero i nativi di questi climi ancorchè senza stromenti, o, potrebbe quasi dirsi, senza l’aiuto delle mani. Non solamente io pensava possibile una tal cosa, ma la ravvisava facile, e mi compiaceva che me ne fosse nata l’idea, tanto più ch’io avea per mandarla ad effetto maggiori comodi di quanti ne avessero i Negri o gl’Indiani. Ma non considerava poi i particolari svantaggi cui era esposto io assai più degli Indiani: siccome quello di non aver aiuti per varare, allorchè fosse costrutto, il mio naviglio, difficoltà ben più aspra a superarsi per me che non fosse per essi la mancanza di stromenti; perchè, che cosa mi sarebbe giovato se dopo avere trovato fuori il mio albero, dopo averlo con grande fatica atterrato, dopo aver saputo co’ miei stromenti piallare e ridurre l’esterno di esso alla forma acconcia di una scialuppa, dopo averlo reso concavo o col fuoco o col mezzo di ferri da taglio, tanto che fosse una vera scialuppa, se dopo tutto ciò fossi stato costretto a lasciarla dov’era per non essere buono a lanciarla nell’acqua?
Ognuno s’immaginerà che se una tale considerazione mi si fosse affacciata sol menomamente nell’atto di accignermi alla costruzione di questa scialuppa, avrei subito e prima d’ogn’altra cosa pensato al modo di vararla; ma io era sì preoccupato dall’idea del mio viaggio che non pensai una sola volta a questa bagattella: al modo di staccare tal mia scialuppa da terra. E sì, per la natura stessa della cosa, doveva vedere essermi più facile il farle fare quarantacinque miglia di mare quando ci si trovasse, che quarantacinque braccia di terra per ismoverla di lì tanto che andasse a galleggiare su l’acqua.
Misi dunque mano a questo lavoro il più pazzo cui siasi mai accinto un uomo che non sognasse. Io m’applaudiva sul mio disegno senza nemmeno esaminare debitamente se fossi abile ad imprenderlo. Non è già che spesse volte, durante il lavoro stesso, non mi si presentasse al pensiere la difficoltà di lanciare in acqua il mio bastimento; ma imponeva tosto silenzio a tali perplessità con la matta risposta: «Facciamolo prima; mi riprometto io che quando sarà fatto, una via o l’altra per gettarlo in acqua la troverò.»
Non poteva immaginarsi un sistema di operare più bislacco, ma il riscaldamento della mia fantasia la vinse e mi posi al lavoro. Atterrai un cedro, che dubito se Salomone abbia mai avuto il simile per fabbricare il suo tempio di Gerusalemme: un albero che alla sua parte inferiore presso del tronco aveva un diametro di cinque piedi ed undici pollici, e all’altezza di ventidue piedi, laddove si assottigliava diramandosi, un diametro di quattro piedi ed undici pollici. Infinita fu la fatica che mi bisognò per abbatterlo: basti il dire che venti giorni impiegai a tagliarlo al piede, e quattordici di più nel rimondare delle sue braccia e rami il fusto e la frondosa cima di esso; dopo di che mi bisognò un intero mese per foggiarlo alle debite proporzioni di una scialuppa e ridurlo ad avere una specie di carena che ne sostenesse a dovere il corpo galleggiando su l’acqua. Poi mi bisognarono circa tre mesi a traforarne i’interno in guisa che avesse le forme esatte di una scialuppa; in somma scavai il mio legno senza l’aiuto del fuoco ed a furia soltanto di martello e scarpello ed indicibile fatica, sin che finalmente lo ebbi ridotto ad essere un’assai elegante piroga e sì spaziosa, che avrebbe portati ventisei uomini, e per conseguenza me col mio carico.
Terminato questo lavoro, ne fui veramente soddisfatto oltremodo, perchè la mia scialuppa era di fatto la più grandiosa di quanti canotti o piroghe, fatti d’un solo albero, avessi mai veduti in mia vita; certo mi costò immensi sforzi, ben potete immaginarvelo. Or non mi rimaneva più che a vararlo, in che se fossi riuscito, non dubito che avrei impreso il più strambo ed inverisimile viaggio fra quanti ne furono tentati giammai.
Ah! tutti i miei disegni per varare la mia scialuppa andarono a vuoto, ancorchè i tentativi fatti a tal fine mi costassero immensa fatica, e ancorchè non fosse lontana dall’acqua più di cento braccia; ma il maggiore inconveniente si era che essa stava sopra un’eminenza perpendicolare alla baia. Pure per vincere questa difficoltà io risolsi di scavare la superficie della terra tanto da prepararle un declivo. Mi posi all’opera che non vi so dire quanto travaglio mi desse; ma qual havvi aspro travaglio per chi si prefigge a meta la propria liberazione? Oimè! quando questo lavoro fu terminato, quando parea mitigata la difficoltà, io mi vidi alle stesse strette di prima, perchè non poteva mover da posto il mio canotto più di quanto vi fossi riuscito con l’altra scialuppa.
Misurata allora la distanza del terreno, risolvei di scavare un canale per condur l’acqua sul mio naviglio, poichè il mio naviglio era renitente ad andare su l’acqua. Or bene; anche questo lavoro lo impresi; ma appena ci fui dentro e feci un computo su la profondità da scavarsi, su la larghezza, su le braccia che avrei avuto in mio aiuto, e che non erano più di due, non essendo lì altri che io, su l’ampiezza dell’impresa, vidi che dieci o dodici anni bastavano a stento per venirne a capo. La spiaggia era sì alta che la sua sommità superiore avrebbe dovuto essere scavata per una profondità di venti piedi. Anche questa prova pertanto, benchè a malincuore oltre ogni dire, fui costretto ad abbandonarla.
Oh quanto rammarico io ne sentii! Compresi allora, benchè troppo tardi, quanta sia la stoltezza di cominciare un lavoro prima di averne computata l’importanza e misurata rettamente la proporzione tra le nostre forze e il suo compimento.