Avventure di Robinson Crusoe/26
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Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
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Pericoli minacciati alla messe e superati.
Non vidi altro rimedio a ciò fuor quello di circondare il mio campo con una palizzata, opera che mi costò grande pena, e tanto maggiore in quanto bisognava terminarla speditamente. Pure, siccome la mia terra da arare, proporzionata alla mia semenza, non era sì vasta, giunsi a vederla sufficientemente riparata entro il termine di circa tre settimane, perchè parte con questa difesa, parte ammazzando col moschetto alcune di queste bestie durante il giorno, parte legando ad un palo dello steccato il mio cane che co’ suoi abbaiamenti le spaventava tutta la notte, non andò guari ch’esse batterono la ritirata; onde il mio grano cresciuto gagliardamente e bene venne a presta maturità.
Non minor rovina di quella che m’aveano minacciata i quadrupedi, finchè il mio grano fu in erba, mi giurarono i volatili appena questo mise le spighe; perchè un giorno mentre io passeggiava pel mio campicello per vedere come prosperasse, lo vidi attorniato di uccelli non so dire di quante specie, i quali pareva stessero guatando l’istante che io ne fossi uscito. Non tardai, perchè aveva sempre meco il mio moschetto, a sparpagliarli; ma al mio sparo fu contemporaneo il sollevarsi d’un nuvolo degli stessi uccelli da me non veduti dianzi, e che stavano trastullandosi in mezzo alle spighe.
Questo affare mi toccò al vivo, perchè io prevedea che costoro mi avrebbero divorate in pochi giorni tutte le mie speranze; ch’io sarei stato preso dalla fame senza vedermi più mai in caso di rinnovare nè poco nè assai il mio ricolto; non sapeva a che partito appigliarmi: pure risolvei di non perdonare a fatica, di vegliare giorno e notte, ove fosse occorso, per non perdere se si poteva il mio grano. Primieramente andai ad esaminare i danni che gli erano stati fatti allora, e già trovai che ne avevano guastata una buona parte; nondimeno siccome le spighe erano tuttavia troppo verdi per essi, la perdita non era per anche sì grande, che quanto m’aveano lasciato non formasse tuttavia un buon ricolto se avessi potuto salvarlo.
Rimasto lì il tempo di tornare a caricare il mio moschetto, indi venutomene via, potei facilmente accorgermi che i ladri stavano tutti su gli alberi d’intorno a me, quasi attendendo l’istante ch’io fossi lontano; e tal loro intenzione fu provata dalla riuscita, perchè appena ebbi fatti alcuni passi come per allontanarmi, non sì tosto credettero di non vedermi più, che tornarono ad uno ad uno a piombare su la mia messe. Mi sentii provocato a tanta ira che non ebbi la pazienza di aspettare che ci fossero tutti, perchè in ogni grano che mi mangiavano io vedea, come suol dirsi, perduta la mia pagnotta; venuto dunque allo steccato sparai di nuovo, e stesi morti tre di questi nemici. Ciò bastava a quanto io mi prefiggea; presi su i tre cadaveri, feci con essi come si fa co’ più famosi ladri dell’Inghilterra: li sospesi dall’alto de’ pali dello steccato per terrore degli altri.
Feci con essi come si fa co’ più famosi ladri dell’Inghilterra: li sospesi dall’alto de’ pali dello steccato per terrore degli altri.
Egli è impossibile l’immaginarsi che la cosa avesse così buon effetto come l’ebbe: non solamente gli uccelli non tornarono più nel mio campo, ma in poco tempo abbandonarono tutta quella parte dell’isola; onde finchè stette alzato quello spauracchio non ne ho mai più veduti in quelle vicinanze. Vi lascio pensare se fui contento di ciò. Verso la fine di dicembre, tempo del secondo ricolto in quell’anno, condussi a termine la mietitura del mio grano.
Mi trovai intrigato per la mancanza di una falce o falciuola; pur me ne feci una alla meglio di una vecchia spaduccia salvata in mezzo ad altre armi dal naufragio del vascello. Ma siccome in sostanza poi si trattava del ricolto di un campo non grandissimo, la mia mietitura non mi diede grande difficoltà; la feci come potei, non tagliando via se non le spighe che mi portai a casa entro un grande canestro fabbricato da me e che sgranai a mano. In fin del conto trovai che il mio mezzo quarto di semenza m’avea dato due moggia di riso, e più di due e mezzo di orzo, sempre secondo un computo di congettura, perchè misure io non ne aveva.
Ciò non ostante mi fu questo un grande incoraggiamento, perchè prevedeva che coll’andar del tempo, Dio non m’avrebbe lasciato mancare il pane. Per altro mi rimaneva sempre un grand’impaccio, perchè io non sapeva in qual modo macinare o sia convertire in farina il mio grano, nè come rimondar questa farina, ove l’avessi ottenuta, e separarla della crusca; in oltre io non sapea come farne del pane, e ancorchè ciò fosse stato facile, mi mancava il modo di cuocerlo. Queste considerazioni aggiunte al mio desiderio d’ingrandire le mie provvigioni e di assicurarmi un costante vitto per l’avvenire, mi trassero nella risoluzione di lasciare intatto questo secondo ricolto e di serbarlo tutto per semenza alla prossima stagione; e d’impiegare intanto l’intero mio studio, le intere ore mie di lavoro alla grande impresa di provvedermi così di biade come di pane.
Potea ben dirsi allora ch’io lavorava per il mio pane. È alquanto maravigliosa al pensarci, e credo che pochi veramente ci abbiano pensato, la straordinaria quantità di cose necessarie a provvedere, a produrre, a custodire, a preparare, a fabbricare quest’unica cosa: il pane.
Io che mi vidi ridotto al mero stato di natura, io la capii con mio giornaliero scoraggiamento questa difficoltà, e la sentii di più in più a ciascun’ora sin da quando ebbi raccolto quel primo pugno di grano che mi surse, come dissi, fuor d’ogni espettazione ed a mia grande sorpresa.
Primieramente io non aveva aratro per volger la terra; non una vanga per vangarla, se non quella ch’io m’avea fatta di legno come osservai precedentemente; ma questa serviva al mio lavoro come può servire una vanga di legno, nè fatica o tempo impiegati per fabbricarmela fecero sì che mancando del ferro, non si logorasse ben presto, e rendesse i lavori eseguiti con essa e più penosi e più imperfetti. Pure mi rassegnai a valermi di ciò che aveva, e la peggiore riuscita non giunse a disanimarmi. Seminato il grano, io mancava di erpice, ond’era costretto a trascinare sul terreno un grosso ramo di albero che lo grattava per così esprimermi in vece di rastrellarlo o tritarlo. Mentre il grano andava crescendo o era cresciuto, osservai già quante cose mi mancavano per custodirlo, assicurarlo, mieterlo, tirarlo a casa, trebbiarlo (che per me era sgranarlo) e preservarlo; poi mi bisognava un mulino per macinarlo, un vaglio per cernerlo dalla crusca, lievito per convertirlo in pane ed un forno per cuocerlo; pure io feci senza di tutte queste cose come si vedrà in appresso. L’avere il grano era già un conforto ed un vantaggio inestimabile per me; certo tutte l’altre fatiche che venivano di conseguenza dietro a tale possedimento, spaventavano per la difficoltà e molestia congiunte con loro; ma non vi era rimedio. Poi dall’altra parte non ravvisava in ciò una troppa perdita di tempo, perchè, come io lo aveva diviso, una certa parte di esso era ogni giorno assegnata a questi lavori; e poichè aveva deciso di non convertire in pane il mio grano finchè non ne avessi raccolta una maggiore quantità, mi restavano tutti i prossimi sei mesi per dedicarmi interamente alle fatiche e agli studi necessari per fabbricarmi tutti gli stromenti opportuni alle operazioni che ci volevano, affinchè il grano raccolto mi fosse di un verace giovamento.