Autobiografia (Monaldo Leopardi)/Capitolo XXV

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XXV.

I primi atti della mia amministrazione.

Feci buon uso dei primi momenti di libertà. Il mio zio Ernesto allorchè aveva diciassette anni rinunziò la sua porzione di patrimonio in favore della primogenitura, ma poi sentendone pentimento, o cedendo alle suggestioni di gente interessata ad abusare della sua bontà, domandò ed ottenne la restituzione in intiero. Si litigò un poco fra i miei tutori e lui, e si diceva che egli avrebbe perduto, ma [p. 39 modifica]io credo che avesse ragione perchè non deve esserci legge e formalità la quale autorizzi un ragazzo di diciassette anni a pregiudicarsi per tutta la vita. Appena assunto il regime della famiglia io gli offersi buoni patti e lo pregai di vivere in pace con me. Egli vi condiscese con animo prontissimo, e senza voler parlare di patti o di scritture mi disse che io gli avrei dato alle occorrenze il suo bisogno, promettendo che le sue domande non mi avrebbero infastidito troppo. Ambedue ci siamo mantenuti la parola. Non si parlò più di lite, e abbiamo vissuto assieme altri ventidue anni in pace completa, dandogli io tutto quello che domandava, e tenendosi egli in limiti tanto discreti, ed usando modi tanto umani con me che sembrava figlio col padre anzichè zio col nepote. Tanto vale un atto di amicizia e di cordialità usato opportunamente, e tanto sarebbe facile il sopprimere molte querele fra congiunti, se si corresse a parlarsi faccia a faccia senza contegni e puntigli ridicoli.

Pur troppo per altro il secondo atto della mia amministrazione domestica non fu così saggio, e così fortunato. La mia buona e cara sorella aveva poco più di sedici anni, nè ci era ragione di maritarla a rotta di collo, nè le mie circostanze lo permettevano perchè non mi si era lasciato preparativo alcuno per la sua dote. I miei congiunti però, non tagliati come ho già detto alle vedute economiche, pensarono diversamente, ed io condiscesi con prontezza perchè ero uno stordito e non sapevo quello che facevo. Lo sposo fu il cavaliere Pietro marchese Melchiorri, degno cavaliere, di famiglia illustre assai, ma un poco disestato negli affari, e col peso enormissimo della madrigna, e di nove fratelli, o sorelle. La mia cara sorella ha dovuto soffrirne bastantemente ed ha potuto largamente esercitare la sua molta virtù. Si fece che io promettessi la dote di [p. 40 modifica]scudi ottomila, e dovendo pagarla in pochi mesi senza l’ammannimento di uno scudo, si può immaginare come restò sfasciata la mia economia e disestato il sistema domestico dovendo trovare a debito tanto denaro. Senza prattica di affari, senza relazioni e senza consiglio commisi errori sopra errori, e poi commettendone altri per riparare i primi, sicchè devo riconoscere che quella dote promessa e pagata tanto incautamente e intempestivamente fu il primo anello di quella catena di guai che mi hanno amareggiata la vita.

I debiti sopra accennati furono i primi, ma non i soli che contrassi. La mia natura quantunque liberale non era prodiga o dissipatrice, ma avendo concepite idee troppo grandiose, credevo necessarie o convenienti molte cose che non erano tali, e non mancavano adulatori che fomentassero la mia passione, o astuti che approfittassero della mia debolezza. In sostanza non feci spese da sterminare una casa da per sè stessa, ma facendole fuori di tempo e di luogo, sostenendole con denaro imprestato, trovandomi già fuori di equilibrio per i primi debiti, e cadendo sotto le mani spietate degli usuraj che abusavano del mio bisogno e della mia imbecillità, erano appena due anni che avevo assunto il regime domestico, e senza avere viaggiato, o giuocato, o gettato uno scudo con femmine, mi trovavo pieno zeppo di debiti, e incamminato a rovina totale. Se questa non si verificò fu un prodigio della providenza poichè non mancarono circostanze che dovevano renderla irreparabile. Fra esse ebbe luogo il trattato infausto di matrimonio di cui mi accingo a narrare.