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del conte monaldo leopardi 39

io credo che avesse ragione perchè non deve esserci legge e formalità la quale autorizzi un ragazzo di diciassette anni a pregiudicarsi per tutta la vita. Appena assunto il regime della famiglia io gli offersi buoni patti e lo pregai di vivere in pace con me. Egli vi condiscese con animo prontissimo, e senza voler parlare di patti o di scritture mi disse che io gli avrei dato alle occorrenze il suo bisogno, promettendo che le sue domande non mi avrebbero infastidito troppo. Ambedue ci siamo mantenuti la parola. Non si parlò più di lite, e abbiamo vissuto assieme altri ventidue anni in pace completa, dandogli io tutto quello che domandava, e tenendosi egli in limiti tanto discreti, ed usando modi tanto umani con me che sembrava figlio col padre anzichè zio col nepote. Tanto vale un atto di amicizia e di cordialità usato opportunamente, e tanto sarebbe facile il sopprimere molte querele fra congiunti, se si corresse a parlarsi faccia a faccia senza contegni e puntigli ridicoli.

Pur troppo per altro il secondo atto della mia amministrazione domestica non fu così saggio, e così fortunato. La mia buona e cara sorella aveva poco più di sedici anni, nè ci era ragione di maritarla a rotta di collo, nè le mie circostanze lo permettevano perchè non mi si era lasciato preparativo alcuno per la sua dote. I miei congiunti però, non tagliati come ho già detto alle vedute economiche, pensarono diversamente, ed io condiscesi con prontezza perchè ero uno stordito e non sapevo quello che facevo. Lo sposo fu il cavaliere Pietro marchese Melchiorri, degno cavaliere, di famiglia illustre assai, ma un poco disestato negli affari, e col peso enormissimo della madrigna, e di nove fratelli, o sorelle. La mia cara sorella ha dovuto soffrirne bastantemente ed ha potuto largamente esercitare la sua molta virtù. Si fece che io promettessi la dote di