Autobiografia (Monaldo Leopardi)/Capitolo LXXII

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LXXII.

Amministrazione dell’Annona.

In questi tempi l’Annona era una calamità gravissima per tutto lo Stato, ma per intenderne l’importanza bisogna risalire ad epoca più lontana. Alcuni secoli addietro ciascheduno dei nostri paesi constituiva una Republica separata, e tutte queste Republiche riconoscendo sotto alcuni rapporti la sovranità della Chiesa, in tutt’altro erano indipendenti, si governavano con le leggi proprie, provedevano a sè medesime come stimavano meglio, e il Principato non si imbarazzava nelle loro facende. Come dunque attualmente i governi prendono le misure opportune perchè lo Stato sia proveduto di vettovaglie, così allora i singoli paesi pensavano [p. 161 modifica]a provvedere sè stessi, e nel principio della stagione calcolato il reddito territoriale permettevano o proibivano fino ad un certo segno l’estrazione delle derrate. Per lo più si obbligavano i proprietarii a ritenere per il consumo interno una parte delle loro raccolte, e queste parti si conoscevano col nome di quote. Se l’anno era troppo scarso il Comune comprava altronde per tempo la quantità mancante, e se il prezzo coll’andare della stagione cresceva, il Comune che aveva comprato a buon saggio, rivendeva così, e il popolo non sentiva tutto il rigore della carestia. A poco a poco le nostre Republiche si erano distrutte, e tutti i paesi nostri essendosi ridotti ad essere membri dipendenti dello Stato, dovevano cessare tutti quegli usi e quei provedimenti i quali comechè utili nella loro instituzione, cambiate le cose erano di intralcio al commercio e dividevano e spezzavano quel corpo sociale, che tutte le altre circostanze avevano immedesimato e riunito. Nell’ordine morale però come nel fisico le scoperte le più importanti raramente si fanno tutto ad un colpo, e dalle tenebri alla luce si passa grado a grado. Distrutte le Republiche, aboliti i loro privilegj, subordinate tutte le Comuni al volere del Principe, le Annone sussistevano, e i Proprietarj dovevano dare le quote, i magistrati dovevano provedere al sostentamento del paese, e il popolo si credeva in diritto di venire nudrito dal Comune a buon mercato. Questo difetto per lungo tempo non fu sensibile, perchè non essendo troppo diversi i prezzi da un anno all’altro, e dal principio al fine della stagione, i proprietarj non facevano molta difficoltà nella apprezzarsi delle quote, e queste consistevano in piccole quantità, perchè solamente i più poveri accorrevano ai forni o spacci del publico. La grande maggioranza del popolo si provedeva di grano, e faceva il suo pane a casa, ed era un disdoro ed una umiliazione nel volgo, il vivere di pane comprato. Le [p. 162 modifica]fasi però del monetario, le guerre esterne, e le armate dimoranti fra noi, fecero crescere il prezzo dei generi notabilmente e per una mal’intesa pietà tollerata e forse voluta dal Governo, il prezzo del pane per i poveri non venne cresciuto. Vendendosi dunque questo ad un saggio minore assai del valore commerciale, ben presto tutti si dichiararono poveri e corsero ai forni publici per godere di quel profitto. Le quote ordinarie non furono più sufficienti, e si accrebbero tanto che ingojarono l’intiero raccolto, sicchè i proprietarj studiarono tutte le malizie per nascondere le proprie derrate, e venderle clandestinamente il doppio di quello che gliele pagava il Comune. Si era nel mezzo dell’abbondanza e si sentivano gli effetti di una carestia crudelissima, e le somme grandiose che rimettevano i comuni rovinavano il publico, ed il privato senza rimediare a questa rovina. I Comuni cedevano sotto una mole di debito smisurata, il popolo abbandonato ogni ritegno correva tutto a farsi mantenere dal publico, i proprietarj nascondevano i raccolti, e le multe, la forza, i giuramenti non erano più efficaci per farglieli consegnare, e gli stessi coltivatori vendevano sfacciatamente i loro vittuali per venire a comprare il pane dal Comune. Tale era la difficoltà delle circostanze allorchè io venni eletto amministratore di questa Annona per la stagione annonaria dell’anno 1800 al 1801. Mi vennero dati tre compagni ma questi ancorchè vecchj e assai più sperimentati di me mi lasciarono solo, o perchè si persuasero della insufficienza propria, o perchè è natura degli affari il ridursi alla amministrazione di un solo. Seguendo i principj che allora dominavano non ommisi cura veruna per esercitare bene il mio uffizio. Presi tutte le assegne dei raccolti tanto dai proprietarj come dai coltivatori, stipulai contratti utili con li fornai, prescrissi che il pane di commiserazione si vendesse solamente contro l’esibita di certi bollettoni che io [p. 163 modifica]distribuivo ai poveri secondo il numero e le circostanze delle famiglie, e attivai molte industrie alle quali prima nessuno aveva pensato. Credo che non tutte le mie cure riuscissero inutili, ed ho la compiacenza di avere risparmiate al nostro comune molte migliara di scudi in quell’anno, ma la piena del disordine sormontava da tutte le parti, e non era possibile ripararlo. I proprietarj sapendo che verrebbero costretti a consegnare all’annona i loro raccolti per un prezzo minore infinitamente del prezzo commerciale, diedero assegne malsincere, e non si ebbe in assegna neppure una metà del prodotto territoriale. I coltivatori seguirono l’esempio dei proprietarj, e inoltre vendute sul principio della stagione per gli ordinarj bisogni le raccolte coloniche rispettive, lungi dal provedersi comprando i generi o prendendoli ad imprestito secondo il consueto, corsero a comprare il pane agli spacci comunali dove lo trovavano a buon mercato. I poveri ancorchè non avessero giornalmente tanto denaro per mantenere la famiglia di pane facevano mercimonio dei loro bollettoni prestandoli, o vendendoli, e le classi medie si provedevano anch’esse agli spacci publici servendosi dei bollettoni dei poveri. Le ricerche delle amministrazioni annonarie facevano nascondere i generi, e queste occultazioni, e quelle ricerche lo facevano salire a prezzi altissimi. La discrepanza somma intercedente fra il prezzo commerciale e quello al quale le Comuni vendevano il pane rendeva tanto utile la frode che ognuno la esercitava sfacciatamente. Allorchè assunsi la amministrazione il primo giorno di agosto del 1800 il pane del Comune si vendeva scudi 7,60 allo rubbio, e andò crescendosi a poco a poco fino alli scudi 18 ma il Comune pagò il grano dalli 24, sino alli 45 scudi ogni rubbio. Gli effetti lagrimevoli di questa discrepanza possono meglio immaginarsi che descriversi. Il grano era diventato un oggetto di speculazione universale perchè [p. 164 modifica]chiunque riusciva a nascondere uno rubbio di grano guadagnava venticinque o trenta scudi. Senza generi e senza il denaro per provederli provai angustie di morte, e molte sere mi coricai sapendo che nel giorno seguente dovevo nudrire 17 mila individui, e che nei magazzini non ci era un vago di grano. Nulladimeno, per un miracolo della Providenza si providde a tutto fino al giorno 30 di luglio 1801 in cui la mia amministrazione cessò. In undici mesi questi publici spacci consumarono cinque mila e più rubbia di grano, e mille rubbia di formentone, e il publico ebbe una rimessa di scudi cinquantamila in moneta erosa allora corrente.