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Prefazione II

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AROLDO E CLARA.





Sed si esurient inimicus tuus, ciba illum;
     si sitis, potum da illi.

(Ep. ad Rom. 12).



I.


Piangi, o la più gentil fra le convalli
Dello spumante Pellice, ove un giorno
Alle sale d’Aroldo i Saluzzesi
Cavalieri affluìano ad alte feste.
5Più non vedrai delle sue torri a sera
Uscir giulivo il cieco vecchio Aroldo,
Caramente appoggiando un braccio e l’altro
Sovra Ioffrido e Clara, ed il canuto
Ciglio volgendo con amor, ma indarno
10Ai dolci rai del tramontante sole.

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     Que’ figli suoi nascean gemelli, e santa
Tenerezza li univa. Or sola e mesta
Clara accompagna il cieco padre a sera
Fuor della torre, perocchè il gagliardo
15Fratel devote ha l’armi alla difesa
Del pio Tommaso suo ramingo prence
Contro i nemici della patria terra.
     Rosseggiava bellissimo un tramonto
Sulle nevi lontane, e stupefatto
20Pareva il sol che dal romito albergo
A salutarlo non venisse il vecchio.
Ahimè, quell’era di sventura un novo
Spaventevole dì! Schiudesi alfine
La porta del castello, e con veloci
25Passi agitatamente escono Aroldo,
Clara e più servi; nè il canuto ciglio
Ai söavi del sole ultimi rai
Volger si cura. Che avvenìa? — Dal campo
Infausto messo è giunto. Il pro’ Ioffrido
30Contro l’usurpator del saluzzese
Seggio osando tropp’oltre avventurarsi
Nel calor della pugna il circondaro
L’empie straniere spalle, e prigion cadde.
     Speme di riscattar sì cara vita
35Nutre il barone antico; e vuole ei stesso

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Trar supplichevol senza indugio al truce
Fortunato invasor, che se talora
Immolar gode i miseri captivi,
Talor si placa a ricca d’oro offerta,
40Molto dovendo da sua iniqua sede
Oro il tiranno effonder sulle bande
Dell’alleato provenzal monarca.
     Giunto al margin vicino ove al tragitto
Nel rigonfiato Pellice è apprestata
45La navicella, Aroldo porge il bacio
Del congedo alla figlia. Allora al collo
Gli s’avvinghia la pia. — Sola a mie stanze
Non riederò, buon genitor; pupilla
Esser della tua fronte a chi s’aspetta
50Se non a me? Forse pietà maggiore
Assalirà dello sdegnato sire
Il cor, s’umano ha cor, prona a’ suoi piedi
La veneranda tua canizie e gli anni
Giovenili di vergine scorgendo,
55Che colla vita del fratel la vita
Chiede del padre.
                                    Vuole opporsi Aroldo,
Ma mentre in barca ei scende, ella d’un balzo
Già vel precede, e al consentir paterno
Fa cogli amplessi vïolenza, e l’onde

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Perigliose attraversano. Ma ov’era
L’Angiol del vecchio afflitto e l’Angiol tuo,
Generosa innocente? A voi non velo
Fecer colle tutrici ale a celarvi
65Alla vista de’ prossimi ladroni
Che irrompono co’ brandi alla rapina.
     Voler divino ai nembi di sfortuna
Lascia possanza sovra i giusti un tempo;
Ma breve è il tempo sotto il sole, e arcana
70Nei patimenti una virtù Dio pose
Ch’anco i giusti migliora e a sè li innalza.
     Sbandato di predoni era un drappello,
Che della guerra col favor raccolto
S’era d’Itale spiagge e di straniere
75A rubamenti ed omicidii, altero
Linguaggio alzando di zelanti eroi,
Campioni della patria e di Manfredo.
S’azzuffan del baron coi fidi servi,
E nell’orrenda mischia ad uno ad uno
80Dal soverchiante numero feriti
Vengon que’ servi, e de’ vincenti in mano
Son le ricchezze che a comprar la vita
Destinava del figlio il cieco sire.
     Intero un dì per boschi e per dirupi
85Ei trascinato colla figlia venne,

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Ma il manto della notte ai duo infelici
Prestò propizie tenebre, e dal mezzo
Del brïaco drappel de’ masnadieri
Quetamente si trassero alla valle.
     90Come lontani fur dall’empia frotta,
E ardiron favellare, il cieco strinse
La figlia al seno, e grazie alte le rese
D’averlo addotto a salvamento, e lei
Per l’accorto suo senno e per la dolce
95Filïal carità ribenedisse.
     — Or dove, o padre, senza aïta alcuna
Ci avvïeremo?
                               — O Clara mia, remoti
Siam dal nostro castello, e a ritornarvi
Il tempo mancherìa; son prezïosi
100Tutti gl’istanti; acceleriamo il passo
Verso il campo nemico, appo le triste
Di Saluzzo rovine. Or senza doni
Compariremo anzi al tremendo sire,
Ma sincere promesse il piegheranno
105A moti di clemenza. Inoltre ho fede
In mia canizie e in queste spente occhiaie
E nel pianto che versano, e ben anco,
Figlia, nel tuo.
                              Pensava Aroldo ospizio

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110Prender non lunge, ove la figlia al raggio
Della luna scorgea l’amica torre
D’un consanguineo sir. Ma là giugnendo,
Odon che il giorno pria furibonda oste
Era quivi passata e avea deserta
115La rocca e trucidato il castellano,
E devastato a’ villici i tugurii.
     Il negro pan de’ villici dispersi
Piangendo rompe colla figlia Aroldo,
E beono alle lor tazze. Indi sen vanno
120Per tutti i casolari, invan cercando
Palafreno o giumento: avean le schiere
De’ nemici avidissime votata
In que’ lochi ogni stalla.
                                                  — Ahi, dilungati
Vieppiù ci siam dal tetto nostro, o padre!
125Or dove andrem?
                                   — Pedon la via si segua
Sino al mattin: buio non è, dicesti.
Fa cor; preghiamo camminando, e al guardo
D’altri ladron te, mia dovizia or sola,
Te il ciel pietoso asconderà.
                                                         Sì disse,
130E di padre l’affetto e di sorella
Lena lor porge insino all’alba. Il campo

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Mostrossi allora al pauroso orecchio
Della fanciulla pria che agli occhi.
                                                                     — O padre,
Odi tu, disse, odi tu roco un suono
135Simile al suon della bufera o a quello
Di molte acque correnti?
                                                    Il vecchio capo
Ei soffermò, ed immemore un istante
Delle sue angosce, alzò la barba e rise.
     — Oh di qual gioia quel fragor m’empiea
140Negli anni miei di gloria! È il campo, o figlia!
Noto è ad orecchio di guerrier quel suono,
Come voce di sposa al suo diletto.
Un dì così fremente io il bellicoso
Aere appena sentìa, sovra il mio scudo
145Battea forte l’acciaro, e dai precordii
Metteva un grido che atterrìa da lunge
Del nemico le scolte. E i miei congiunti
Dicean: « Voce è d’Aroldo, oggi si pugni,
Chè dove è Aroldo, è la vittoria ». Or fiacca
150È questa voce, e più la destra, e al breve
Giubilo del guerrier tosto succede
In me a quel suono il trepidar del padre.
     Proseguiro alcun tempo, e quindi Clara,
Che sino allor söavemente a’ detti

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155Del genitore avea frammisti i suoi,
Incominciò a interrompersi, e risposte
Dar che, non conscio l’intelletto, un moto
Parean sol delle labbra. A poco spazio
Vedea della distante oste per l’aure
160Quasi di nave altissimi duo pini
Elevarsi e ondeggiar, poscia fermarsi
Come al suolo confitti. E secondata
Venìa quell’opra da un clamor che il primo
Clamor non era, ma or fischiante or rotto
165Da infami ghigni o da cupo silenzio.
     A’ sensi suoi creder dovea? Le cime
Parean gravate de’ duo legni, e il pondo
Che le gravava non scerneasi. Udito
Spesso Clara ha di barbari supplizi,
170Ove ad appesa vittima lo strale
Drizzano i bersaglieri, ed ottien palma
Quei che divide dalle ciglia il teschio.
     Di tai supplizi un questo fora? Oh dubbio
Peggior di morte! E chi alla sbigottita
175Dice s’uno colà de’ morïenti
L’amato suo fratello ora non sia?
Chi le dice se il passo al genitore
Vietare a forza ella non debba? Ahi lassa!
E se il padre trattien, non di Ioffrido,

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180Che forse ancor sull’albero non pende,
Cagionerà la morte? . . . Ad ogni costo
Vadasi al fatal loco!
                                         Il piè, tremando
In ciò pensare, affretta. In man la mano
Della meschina Aroldo tien. — Di gelo,
185Fra sè diceva, è questa man, siccome
Quella ch’io strinsi di sua madre al letto
Ove s’estinse.
                             Indi il vegliardo scuote
Il capo, quasi scuotere volesse
Un malaugurio, e non potea. — Di morte,
190Figlia, i negri m’inseguon pensamenti.
Abbi pietà di mia veechiaia, e i cari
Detti mi porgi che tue labbra sciorre
Uniche san, quando scorato è il padre.
     Nata ne’ giorni di sventura, e in erma
195Torre cresciuta, ove sorelle e madre
Vide spirar, sollecita a sinistri
Presentimenti schiuder l’ama, è fatto
In lei religïon. Si raccapriccia
In udir che s’affaccin alla mente
200Del genitore e in quest’istante i negri
Pensamenti di morte. A lui si volge,
Apre le labbra ― e i consolanti detti

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Ch’uniche sciorre un dì sapean, non trova:
Non trova, ed ahi! la prima volta è questa
205Che inobbedito di suo padre è il cenno.
     — Più de’ pensier miei tristi or malaugurio
M’è il tuo silenzio, ei dice.
                                                         E lo spavento
In lei crescendo, e a’ rai primi del sole
Splender veggendo le volanti frecce,
210Improvviso s’arresta. — Oh genitore!
Non c’inoltriam: non odi tu le strida
Degli assassini?
                               — Il figlio, il figlio mio
Forse a morte strascinano: affrettiamci.
     — Deh, padre, ferma! a’ piedi tuoi ten prego.
215Io stessa innanzi andronne, e se Ioffrido
In vita è ancor, di novo al fianco tuo
Tosto mi rendo, ma te . . . oh ciel! raddurre
Te vivo a casa allor io possa almeno!
     — Sciagurata, che parli? Orrende cose
220Forse tu vedi e a me non dici. Ovvero
Fra quelle voci che il mio antico orecchio
Non distinte percuotono, tu scerni
Voci di morte e del fratello il nome.
Che vedi tu? Che al giovenil tuo orecchio
225Porta il tumultuoso aere d’atroce?

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     — Nulla, o buon padre. Ma t’arresta; pensa
Che se tu, giunto appo i nemici, udissi
L’orribil caso . . . tu m’intendi . . . allora
Orfana forse rimarrei nel campo.
     230— Me perder temi, e non t’avvedi, insana,
Che scellerata è tua pietà? Egli muore,
E tu qui mi rattieni? Il varco sgombra,
Tel comando, obbedisci.
                                                    All’inusata
Ira paterna impaurissi Clara;
235S’alzò. Con passi rapidi il cammino
Misura il cieco, e strascinata quasi
La giovinetta il segue. Erasi spersa
La turba intanto che cingea i duo pini,
E presso a questi il padre e la sorella
240Arrivan di questi. Ella più volte
Erse il ciglio tremando, e insanguinate
Scorse due salme, e incontanente a terra
Ritrasse il guardo. E non varrìa sovr’esse
Fiso tenerlo ad indagar; chè franta
245Han la coppa del cranio, e dal mozzato
Lor sembiante piovea cèrebro e sangue.
     Ma quell’orrida vista e lo spavento
Forza a’ ginocchi tolgonle ed al core:
     — Padre! dic’ella, padre! . . . E qui stramazza

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250A’ piè d’Aroldo.
                                  E mentre ei brancolando
Col caro pegno tra le braccia fugge
D’in mezzo della via, però che udito
Brigata di cavalli ha scalpitante
Di qua dal campo alla sua volta, e ignaro
255Ad un de’ lati fermasi, ove un tronco
D’albero sente; innanzi a lui lo stuolo
Giunge de’ cavalieri. Era Manfredo,
Che di baroni provenzali cinto
Per intenti di guerra iva il terreno
260Intorno visitando. Una fanciulla
Scorge egli tramortita ed un vegliardo,
E voltosi ad Aroldo, acerbamente
Così gli grida: — O discortese e stolto,
Perchè nel sangue d’un fellone e sotto
265Il patibolo tratta hai quell’afflitta,
Cui toglie i sensi il raccapriccio?
                                                                 ― Oh sire,
Oh novo sire di Saluzzo! esclama
L’antico cavalier, cui non intera
L’aspra parola del crudel pungea,
270Nota è ad Aroldo ancor la voce tua:
Aroldo io son dalle romite torri
Che si specchian nel Pellice. E l’illustre

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Tuo genitor te adolescente spesso
Adduceva a mie sale, e co’ miei figli
275In un calice sol beevi a mensa.
Ah per memoria del tuo estinto padre
Oggi pietà di me ti prenda! Il figlio
Ch’unico maschio avanza a mia vecchiaia,
E cadde tuo prigion, deh non rapirmi!
280Io non leggeri doni a te in riscatto
Dal mio castel portato avea, ma iniqui
Predatori per via m’hanno assalito.
Alle mie braccia il caro figlio rendi,
E qual tributo m’imporrai ti solvo,
285Pareggiasse anco de’ miei campi aviti
L’intero pregio.
                                 — O sciagurato Aroldo,
Di qual osi tributo or favellarmi,
Se finor tutto mi negasti? È tardi.
     — Tardi, o sire non è. Seguìta, è vero,
290Fu dal bollente figlio mio l’insegna
De’ prischi Saluzzesi e di Tommaso,
E la vittoria a tua prodezza arride.
Ma tu il fervido oprar del giovinetto
Dona pietosamente al supplicante
295Suo genitor che in venti pugne il sangue
Versò pel nobil padre tuo, quand’esso

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Con tanta gloria signorìa qui tenne.
     — È tardi, o vecchio, e duolmene. In te accogli
Tutta la forza ond’è capace il core
300D’un cavalier. Sovra quel legno pende
Un trafitto cui grazia altra non posso
Conceder più che di ritorlo ai corvi,
E consentirgli de’ suoi cari il pianto.
     Disse, e accennando che una guardia il morto
305Dalla croce calasse e all’infelice
Lo rimettesse, cogli sproni un tocco
Diede al cavallo, e col suo stuol disparve.
     Clara i sensi racquista, e oh di dolore
Qual novo orrendo palpito! Era dunque
310Il fratel suo quel miserando ucciso!
Eccolo tolto dal funesto legno;
Ed ella il raffigura a cicatrici
Che sul petto ei portava. Oh come il vecchio
E l’angosciata giovin su quel corpo
315S’abbandonan piangendo! Ella in un lino
L’infranta testa pïamente avvolge,
E chiede aiuto ai vïandanti. A dolce
Carità si commove una famiglia
Di Saluzzesi agricoltori, e dato
320Viene un carro con bovi, onde al lontano
Castello il morto cavalier si tragga.