Aristide/Nota storica
Questo testo è completo. |
◄ | Parte II |
NOTA STORICA
Dopo una specie di scorribanda in Lombardia, che durò quasi due anni, il Goldoni se ne tornò a Venezia come autore di teatro, portando seco nella borsa di viaggio una tragicommedia (il Belisario) e un Intermezzo per musica (la Pupilla), finiti allora. Era il settembre del 1/34. Nel rivedere la sua bella città, il giovane poeta si commosse, quasi presago delle future creazioni, e benché fosse di sera, volle subito calcarne le pietre, come per un bisogno di goderla e di possederla. "Volli subito rivedere" confessa nelle Memorie “il mio Ponte di Rialto, la mia Merceria, la mia Piazza di San Marco, la mia Riva degli Schiavoni” (voli. I della presente ed., p. 7). E il pubblico veneziano la sera del 24 novembre, nel teatro di S. Samuele, incoraggiò con gli applausi il figlio diletto che doveva farle il dono glorioso della Commedia.
Nel carnevale del ’35 fece recitare una nuova tragedia (la Rosmonda) e un nuovo Intermezzo, ispirato felicemente alle scenette popolari dei ciarlatani (la Birba). Nella primavera di quell’anno fece conoscenza con l’abate Vivaldi, detto il Prete Rosso dal colore dei capelli, “famosissimo suonator di violino” e celebre compositore; e dovette per lui ritoccare, ossia assassinare, la Griselda dello Zeno. La prima visita del Goldoni al Vivaldi forma una delle pagine più vive e più argute delle Memorie goldoniane (vedi vol. I, pp. 107-109 e Mémoires, P. I, ch. XXXVI, dove la scena è resa ancor più comica). Quel prete originale rimase così sedotto dalla facilità poetica e dalla giovialità del dottor Carlo, che non isdegnò di musicare un breve dramma “eroicomico” del nuovo scrittore di teatro, da servire per le recite autunnali a S. Samuele.
Il libretto a stampa dell’Aristide ci conserva sotto il velo dell’anagramma i nomi del compositore e degli esecutori, sfuggiti finora agli studiosi. Non è chiaro ciò che l’autore si prefiggesse con tale operetta. Se voleva fare propriamente la parodia dei drammi in musica (come pur crede la signora Olga Marchini-Capasso, Goldoni e la Commedia dell’arte, Napoli, 1912, p. 194 e sgg.) non doveva rappresentarci Xerse, Arsinoe, Cireno quali personaggi seri, e così anche lo stesso Aristide, tolto il particolare della faccia dipinta, nella scena VI (sc. II della parte II): come ben osserva Mario Penna nel suo Noviziato di C. Goldoni (Torino, 1925, p. 68). Certo che la puerile e barocca favola dell’eroe greco in cerca della moglie prigioniera del re degli Assiri nota, amata contemporaneamente da Xerse e dal suo capitano, apparisce oggi a noi come una indegna buffonata, ma tale non poteva manifestarsi agli occhi del pubblico veneziano nel 1735. Che poi questo infelicissimo Aristide goldoniano ricordi il Temistocle del Metastasio, come pare a Mario Penna, io proprio non direi: nè il Goldoni poteva conoscere il Temistocle, scritto e rappresentato a Vienna dentro il 1734 (v. lettera del M. al Peroni, 24 ott), ma spedito a Venezia allo stampatore Bettinelli soltanto nel novembre del ’36 e cantato la prima volta a S. Gio. Crisostomo nel 1744.
Non dunque vero dramma eroicomico, bensì serio-giocoso, per la parte notevole che vi hanno i servi Carino e Bellide (cioè il capocomico Imer e la valente Agnese Amurat). Siamo costretti a ripensare a certi melodrammi del Seicento, prima dello Zeno, dove l’elemento comico si accozza col tragico in bizzarra forma. Può darsi che colpevole di sì misera invenzione fosse principalmente lo stesso Vivaldi, che non aveva mai musicato fino allora, per quel che sappiamo, Intermezzi buffi. Ma anche qui l’ingegno del Goldoni ha aualche guizzo negli scherzi di Carino e principalmente di Bellide, la servetta del Settecento veneziano.
Del maestro Antonio Vivaldi ricercò di recente le notizie biografiche Arcangelo Salvatori (A. Vivaldi [il Prete Rosso] - Note biografiche, in Rivista Mensile della Città di Venezia, VII, n. 8, agosto 1928, pp. 325-346: saggio premiato dall’Accademia di Musica Antica), ma non potè stabilire con certezza la data della nascita, ch’è fra il 1675 e il 1678, nè quella della morte. Solo si sa che nell’aprile del 1740 egli era sul punto di abbandonare un’altra volta Venezia. Nel volume II dei Commemoriali di Piero Gradenigo, presso il Museo Civico Correr, trovo questo cenno (sfuggito al Salvatori) in data 173... “L’Abbate D. Antonio Vivaldi, incomparabile Sonador di Violino, detto il Prete Rosso, stimatissimo per le sue Composizioni e Concerti, lucrò a’ suoi giorni più di 50 mille ducati, ma per sproporzionata prodigalità morì povero in Vienna”. Così almeno sappiamo dove finì il famoso maestro, benché il Gradenigo fosse incerto, anzi errasse, nell’indicare la data. Nel Nuovo Dizionario 1storico stampato a Bassano, e curato in parte dal Verci, si legge questa breve notizia: “Vivaldi (Antonio), celebre musico Italiano, morto verso il 1740. Era maestro di Cappella nel Conservatorio della Pietà in Venezia. Famoso si è il costui nome fra i così chiamati Virtuosi a motivo del suo talento pel violino, e fra i Compositori per le sue sinfonie, fra le quali son più celebri le sue Quattro Stagioni” (t XXI, 1796, p. 248). È probabile che il vecchio prete, sempre malato, morisse appena giunto a Vienna, forse per gli strapazzi del viaggio, nel ’40 (v. anche Cicogna, ricordato dal Salvatori, l. c., p. 334).
Nelle memorie italiane, dettate molto prima delle memorie in francese, e che io cito perchè sfuggirono al Salvatori, il Goldoni è più benigno nel giudicare la musica del Vivaldi. “Questo famosissimo Suonator di violino” egli scrive,”quest’uomo celebre per le sue suonate, specialmente per quelle intitolate le Quattro Stagioni, componeva altresì delle Opere in musica; e quantunque dicessero i buoni conoscitori ch’egli mancava nel contrappunto, e che non metteva i bassi a dovere, faceva cantar bene le parti, e il più delle volte le Opere sue hanno avuto fortuna” (vol. I, p. 107). Le sonate delle Quattro Stagioni furono celebrate anche da Angelo Goudar nei supplementi delle Remarques sur la musique et la danse (v. citaz. a p. 145, n. 3, di Venise au 18e siècle di Philippe Monnier, Paris, 1907). Pure il Tartini accusava il Vivaldi di aver voluto invano coltivare tutti due i generi di musica, strumentale e vocale: “Vivaldi, qui a voulu s’exercer dans les deux genres” disse un giorno al giovane De Brosses, nel 1739 “s’est toujours fait siffler dans l’un, tandis qu’il réussissoit fort bien dans l’autre” (lett a M. De Malateste, in Lettres familières, Paris, 1869, vol. II, p. 316). Lo stesso De Brosses sembra alludere alla sua avidità di guadagno in altra lettera, dove dice: “Vivaldi s’est fait de mes amis intimes, pour me vendre des concertos bien cher”. E aggiunge: "C’est un vecchio, qui a une furie de composition prodigieuse"; ma si stupisce che a Venezia non sia molto apprezzato: “J’ai trouvé, à mon grand étonnement, qu’ il n’est pas aussi estimé qu’ il le merite en ce pays-ci, où tout est de mode”, dove il pubblico presto si stanca degli autori prediletti (voi. I, p. 193).
Per la bibliografia del Vivaldi rimando al saggio citato del Salvatori. Delle sei lettere pubblicate nel 1871 dallo Stefani, molto importante quella del 16 novembre 1737 al marchese Guido Bentivoglio di Ferrara, in cui il vecchio maestro accenna ai quattordici anni di viaggi per l’Italia e l’Europa con le sorelle Giraud, e ai suoi mali fisici: riprodotta pure dal Salvatori. Da quella s’indovina come il Vivaldi fosse spesso premuto dal bisogno, a cagione del grave dispendio, e perciò incalzato a un lavoro rapido e affannoso come i grandi maestri del Settecento, come il Galuppi stesso, come il Goldoni, come il Tiepolo. Nell’elenco delle Opere teatrali manca l’Aristide, e non si accenna agli Intermezzi goldoniani del 1735 e del 36 (il Filosofo, Monsieur Peiiton, la Bottega del caffè, l’Amante cabala: v. vol. precedente), alcuno dei quali ebbe forse le note musicali dal Prete Rosso. Nei citati Commemoriali del Gradenigo, vol. IV, in data 1761, vedo bandito da Venezia “Francesco Vivaldi giovane peruchier fratello del famoso D. Antonio suonador di Violino” per atto sconcio a persona nobile. Trattasi, credo, di un nipote. Sulle composizioni del Vivaldi che si conservano a Torino, vedi A. Gentili in Rivista Musicale Italiana, 1927, fasc. 3.
Il Goldoni dedicò l’Aristide al Lalli per mezzo d’un curioso sonetto dove si lagna che ai poeti manchi l’aiuto dei Mecenati. A chi vuol alludere?
Forse evitò in questo modo il pericolo d’inimicarsi il Lalli, al quale spettava il privilegio delle dediche dei nuovi libretti ai magnati veneziani. Tutti sanno che Sebastiano Biancardi, nato a Napoli nel 1679 di famiglia civile, fu costretto a fuggire dalla patria sotto accusa di sottrazione di denaro dal Banco della SS. Annunziata, a cui era addetto, o almeno di poca vigilanza. Riparato a Venezia sui primi del Settecento, assunse il nome di Domenico Lalli, strinse amicizia con lo Zeno, diventò col suo mezzo direttore dei teatri Grimani di S. Samuele e di S. Gio. Crisostomo, e dal 1710 fin quasi alla morte, nel 1741, compose un gran numero di drammi per musica, d’Azioni sacre, d’Intermezzi buffi e di cantate, di cui si può veder il catalogo nel saggio di Michele Scherillo, La prima commedia musicale a Venezia, stampato nel 1883 nel I vol. del Giornale Storico della Lett. It. e ristampato più tardi in appendice all’Opera buffa Napoletana, nella Collezione Settecentesca Sandiron, Palermo, 1916. Per la biografia vedi pure il Mazzucchelli, Scrittori d’Italia e D’Afflitto, Memorie degli Scrittori del Regno di Napoli, Napoli, 1794. Il Goldoni “fu sempre in buona armonia ed amicizia col Lalli” che gli cedette nel ’35 la direzione degli spettacoli musicali nel teatro di S. Samuele (vol. I, p. 107) e nel ’37, come pare, anche quella del teatro di S. Gio. Crisostomo (ivi, p. 124). "Onestissimo galantuomo" lo chiamò l’autore dei Rusteghi nelle sue memorie: "le cui figliuole sono state le prime conoscenze e le care amiche della mia consorte in Venezia" (c. s.).
La musica del Vivaldi non riuscì a dar vita all’Aristide che il nostro autore non ricordò nemmeno negli elenchi delle proprie opere, stampati alla fine dei Mémoires. Una copia del libretto originale edito nel 1735 con la solita incuria dal Valvasense, trovasi presso il Museo Civico di Venezia, ed altra è a Roma nella Biblioteca Musicale di S. Cecilia (raccolta De Carvalhaes), ed altra nella raccolta privata del dott Cesare Musatti. Una ristampa fece il Tevernin a Venezia, nel 1753 (t. III delle Opere Drammatiche Giocose di Polisseno Fegejo), riprodotta a Torino dall’Olzati, nel 1757; e un’altra lo Zatta, nel 1794 (t. 35, ossia I della classe IV), poco dopo la morte del grande commediografo.
G. O.