Archivio storico italiano, serie 3, volume 12 (1870)/Rassegna bibliografica/La scrittura di artisti italiani

Isidoro Del Lungo

La scrittura di artisti italiani ../Diplomatarium Portusnaonis ../La Nunziatura in Francia del cardinale Guido Bentivoglio IncludiIntestazione 8 febbraio 2018 75% Da definire

Rassegna bibliografica - Diplomatarium Portusnaonis Rassegna bibliografica - La Nunziatura in Francia del cardinale Guido Bentivoglio

[p. 143 modifica]


Quel ministro di polizia, al quale due righe di scrittura d’un galantuomo bastavano per poterlo mandare alla forca, non era un collettore d’autografi, per buona ventura de’ suoi contemporanei; a’ quali, se tale e’ fosse stato, avrebbe fatto comodo la sentenza d’un altro ministro, che la parola è data all’uomo per nascondere il proprio pensiero. Diremo anzi a dirittura che un collettore d’autografi, buona e quieta e [p. 144 modifica]paziente persona, come ognun se la figura, non potrebb’essero mai un ministro; almeno (chè v’ha ministri e ministri) dello stampo di Fouchet e Talleyrand. Eppure gli affanni d’un collettore per anche meno che le due righe di scritto desiderato dal feroce proconsole di Lione, io credo che se la storia li registrasse, apparirebbero non minori di quanti n’abbia mai durati poliziotto o ministro; sebbene, soggiungerà qui un filosofo politico, troppo meno proficui al genere umano. Di ciò lasciamo stare; e basti che la gratitudine pe’ poliziotti e pei ministri non deve usurparsi tanto del nostro cuore, che un posticino non vi rimanga anche per quelli ingegnosi conservatori d’una delle tante manifestazioni, con che il pensiero umano lascia di sè vestigia nel mondo. Io non vo’ tesser qui il panegirico dell’autografo: ma se v’ha chi accetta, senza eccezione, che lo stile sia l’uomo, perchè non sarà lecito affermare che l’autografo, veste materiale e visibile del pensiero scritto, possa, sia pure con molte eccezioni, rivelarci qualche cosa del carattere morale o dell’ingegno d’un uomo? Io non so a quali aste o tagli riconosceva quel tale la mano di Silvio Pellico; ma più d’una volta, come a me credo sia ad altri avvenuto che una scrittura rotonda e minuta, o secca e allungata, o grossa e larga, arruffata o nitida, fitta o rada, semplice o rabescata, abbia fatto pensare almeno ad alcune qualità di chi la vergava. L’importanza poi dell’autografo cresce in ragione dell’antichità, per la quale può esso addivenire segno e carattere morale, nonchè d’individui, ma di tempi; e far risaltare dal confronto certi particolari, che da testimonianze e argomenti più gravi non si dedurrebbero forse con pari agevolezza e spontaneità.

Forse non pensava a tuttociò l’egregio Conservatore delle stampe e de’ disegni della Galleria Fiorentina, quando pose mano alla splendida collezione che io qui annunzio, specialmente agli amatori della erudizione artistica; e questa, come le altre sue imprese, gli furono piuttosto consigliate da quell’intelligente amore per l’arte che ha sempre informatala sua vita operosa e modesta. Ma a me pare veramente, che oltre la curiosità e la passione degli amatori, qualche più grave e fruttuoso desiderio di veri studiosi possa aver pascolo o sodisfazione in queste Scritture d’Artisti. Nè basta: alla [p. 145 modifica]pubblicazione del signor Pini, per la sua importanza e pel modo com’è condotta, si applicano considerazioni di specie assai più elevata che quelle cui sogliono dar occasione pubblicazioni meramente ordinate a lusso o a curiosità di biblioteche.

Nè così dicendo voglio mostrar mica disprezzo per quello che in pubblicazioni consimili suol chiamarsi singolare e curioso. La passione dei particolari storici, dei piccoli fatti, che nulla disprezza, ancorchè tenue, purchè caratteristico dei temili, delle persone, degli avvenimenti; questo amore scrupoloso e minuto, questo culto pedantesco a un tempo e razionale per ogni cosa antica; io lo credo un vero progresso dei tempi nostri, anzi uno de’ più belli, se non de’ più solenni, trionfi della moderna critica storica. La materia comecchessia tracciata dalla mano dell’uomo è rivelazione dello spirito, ogni forma è un’idea: a questi principi i, che quaranta o cinquanta anni fa erano pur troppo dimenticati, va raccostandosi la critica; e n’esce un’ermeneutica più spirituale e più veggente, che dal monumento superbo all’umile casetta, dalla tela parietale allo schizzo in penna, dal codice variopinto di miniature al foglietto volante, dal manoscritto del filosofo o del poeta al quaderno di ricordanze del mercante o dell’artigiano, tutto conserva e rispetta perchè tutto studia ed interpetra, e di tutto si fa pietra a ricostruire il faticoso edifizio del passato.

Anche, dunque, come curiosa e singolare, la raccolta artistica del signor Pini ha sempre, agli occhi nostri, una importanza non piccola. Chi non getterà volentieri lo sguardo sopr’una carta che, mercè il fedele artifizio della fotografia, ne riproduce tal quale una vergata da Masaccio, dall’Alberti, da Lionardo, da Raffaello, da Michelangelo? Chi non prenderà piacere a confrontar l’autografo di certi uomini, o, chi pure non credesse ninna delle cose da me dette in principio su questo proposito, almeno a riconoscere semplicemente la scrittura di certi tempi? Guardate questa, di poche e diritte linee, media grandezza, giusto corpo un po’ quadrato, lettere e parole equidistanti: come l’occhio ci si riposa, con che agio ci spazia! Occorre dire che siamo nel trecento? e badate: dinanzi al facsimile d’una carta preziosa; nientemeno che «il più antico autografo artistico che si conosca», ed è una letterina di Taddeo Gaddi. Cercate poc’oltre; e [p. 146 modifica]riconoscerete, a’ medesimi segni, un altro trecento: maestro Michele di ser Memmo da Siena si obbliga alla Signoria pistoiese di formare d’argento la statua di sant’Iacopo. Abondano, nel fiore dell’arte, i quattrocento: ne’ quali, durante la prima metà del secolo, si conserva di quella medesima lettera trecentistica ciò che il secolo XIV avea pur esso ritenuto dal XIII; dico una forma che oggi chiameremmo un po’ stampatella, come nella raccolta del Pini possono sin d’ora mostrare gli autografi di Paolo Uccello, di Masaccio, di fra Filippo, di Donatello, del Brunellesco: se non che lo stampatello de’ quattrocentisti si viene impiccolendo a uso quell’altra lettera che chiamossi, anche nelle scritture del trecento, lettera mercantile, perchè adoperata, ma allora meno frequentemente, nella trattazione degli alfari, e ingenerale, nell’uso comune della vita, riserbando la più formata a’ codici manoscritti propriamente letterarii. Queste distinzioni vanno man mano perdendosi dopo la invenzione dell’arte tipografica: e così mentre fra le scritture della seconda metà del quattrocento, quelle più vicine al 50 (per esempio di Benozzo Gozzoli, di Filippino Lippi, di Leon Battista Alberti) rassomigliano molto a quelle della prima, salvo forse l’essere alquanto più chiare e distinte, fra l’ultimo scorcio del secolo e i primi lustri del successivo la scrittura va facendosi più manuale, voglio dire lontana dallo stampato sia per la posizione delle lettere sempre meno verticale, sia per la forma meno quadrata o meno rotonda; perde insomma quel non so che di regolare e quasi disegnato, che oggi fa distinguer subito un carattere antico da’ moderni, non pure dagli odierni nostri, più meno artificiati per cagione di alfabeti inghilesi o teutonici, ma dagli scarabocchi tutt’altro che artistici dei nostri vecchi del seicento e settecento. Insino a’ quali può dirsi che, fin da queste prime dispense, ci conduca la raccolta del signor Pini, con gli autografi di Pietro Tacca, di Cherubino Alberti, del comasco Gaspero Mola; come di quei passaggi e mutazioni grafiche ci mostra documenti di tutte, specialmente, fra gli ultimi quattrocentisti, nel Mantegna, nel Contucci da Sansavino, in Valerio Belli da Vicenza; fra i cinquecentisti, nel Condivi, nel Montorsoli, nel Sanmarino, nel Vasari, in Gian Bologna. Le quali mie osservazioni di curioso [p. 147 modifica]prego siano intese con la debita discrezione; e non mi si faccia dire che que’ nostri vecchi scrissero con una falsariga nel trecento, con una nel quattrocento; e guai a chi voglia trovar le eccezioni. Anche qui le eccezioni, col solo apparir tali, confermano la regola: e del resto, è materia troppo umile, perchè metta conto impiantarvi sopra una teoria.

Se non che mentr’io mi trastullo sulla curiosità di queste elegantissime tavole, m’accorgo d’essere entrato in alcuno di quei più sostanziali meriti che dissi doversi attribuire alla lor collezione; e propriamente in quello che risguarda la paleografia. Nè ciò soltanto perchè la maggior parte de’ documenti pubblicati ha accanto a sè una diligentissima trascrizione in istampa, sulla quale i meno esperti possono avvezzarsi a conoscere le difficoltà e vincerle; ma più perchè una collezione così numerosa di facsimili (dovrann’essere, in tutto, 300) presenterà tanta copia di nessi ed abbreviature, varietà di punteggiatura, singolarità o irregolarità grafiche, da potere molto utilmente essere aggiunta alle tavole d’un compiuto trattato di paleografia. A misurare la quale utilità giovi pensare che quando, come spesso accade nelle cose dell’antichità, quistioni letterarie fanno capo ad una di paleografia, per risolver questa sicuramente, l’abbondanza degli esempi non è mai soverchia, e più sono desiderabili quelli i quali, anzichè da scritture letterarie, sieno esse copie od originali, vengono da scritture interamente familiari, dove anche la mano di chi scriveva era con maggior libertà abbandonata a sè e alle sue abitudini.

Anche la mano. Imperocchè, se lasciamo finalmente da parte le lettere e le sillabe, e veniamo a dire alcun che delle parole e de’ sentimenti, possiamo affermare che la nativa schiettezza e originalità del dettato formano un grandissimo pregio della collezione di queste scritture, che mi pare a un tempo e letterario e morale, e che si fa sentire anche più vivamente per la veste nella quale le ci si presentano, attissima a generare illusione, cosicchè quasi ci risuonino agli orecchi quelle parole, e l’uomo intero in quelle poche linee che da lui paiono scritte si riveli a’ nostri occhi. Molto saviamente pertanto il signor Pini ha, nello scegliere gli autografi, i quali per la maggior parte si conservano [p. 148 modifica]nell’Archivio Fiorentino di Stato, avuto l’occhio che la loro lunghezza non superasse i diciotto centimetri della carta fotografica: il che egli ci dice aver fatto, perchè gli autografi così compiuti fossero altrettanti documenti biografici, e l’Albo ne acquistasse eziandio tale importanza storica, da poter esser considerato come una buona giunta alle raccolte di lettere e documenti artistici, per le quali, dopo il Bottari, si sono resi benemeriti il Ticozzi, il Gaye, il Gualandi, il Milanesi. Ma non minore della storica, di che accenneremo per ultimo, è la importanza, come dicevamo, letteraria e morale ch’egli ha dato per tal modo alla sua raccolta. I documenti autografi che la compongono sono, d’ordinario, o lettere o portate al Catasto del Comune di Firenze: così nei cinquanta, compresi in queste due prime dispense, abbiamo ventotto lettere, delle quali più che la metà sono state potute dare integralmente; diciannove portate, e molte d’esse pur per intiero; due illustrazioni di disegni, e un’obbligazione. I lettori dell’Archivio credo che ci sapran grado, se riferiremo, come saggio dell’ottima scelta fatta dal signor Pini, alcuni fra questi, non meno che di storia e d’arte, documenti di costume e di lingua. Mi valgo della trascrizione, che è fedelissima; solo permettendomi di ridurre, mercè la punteggiatura, più agevole la lezione.

Alla lingua del buon secolo due documenti, come accennammo, dà sin qui la raccolta: d’un senese e d’un fiorentino. Dal senese potrebbe derivarsi qualche nuova voce al glossario di nostra lingua: veggasene un tratto: «Anni Domini mcccxlviii, a dì xvii d’aprile. Io maestro Michele di ser Memmo da Siena, camaestro del palagio del Comune di Pistoia, prometto a’ signori Operarj di sancto Iacopo, di lavorare e fare una figura d’ariento a la imagine di misser sancto Iacopo apostono, di grandeza d’uno braccio o di quella grandezza che loro parrà; e prometto etc.». La letterina di Taddeo Gaddi a Tommaso di Marco Strozzi è caratteristica per quella incolta semplicità, che tanto piace in antichi e più negli artisti: «Tomaso; Taddeo dipintore tuo, da Pisa. Renditi sicuro che solo per onore avere, io voglio dipignere la tavola; e renditi sicuro che così sarà: onde maestro Paulo, e voi e lui, la fate fare di legname, [p. 149 modifica]al nome di Dio; e io, tosto avrò conpiuto il lavoro de’ Ganbacorti, e così de la tavola detta farò. In conclusioni, io farò ciò che il maestro Paulo mi dirà, e così di voi. Dio sia guardia di tutti. Dì vii di setembre». Dalla portata di Masaccio al Catasto del 1127 impariamo la povera condizione di quel mirabile giovine, che anni innanzi ch’e’ morisse così glorioso a ventisett’anni: «Siamo in famiglia noi due con nostra madre, la quale è d’età d’anni quarantacinque; io Tommaso sopra detto sono d’età d’anni venticinque, e Giovanni mio fratello sopra detto è d’età d’anni venti». Anche Donatello, uomo però di quarantasett’anni, avea seco la madre «Monna Orsa» d’anni ottantaquattro, e la sorella «donna Tita» di cinquantadue, ed era povero e indebitato ancor egli. Il Brunellesco invece può schierare una bella lista di crediti; e libero d’incarichi di famiglia, in quella sua «casa nel popolo di san Michele Berteldi», con «uno fanciullo d’età d’anni quatordici il quale à alevato insino da piccolo, e tienlo come figliuolo, e una fante che governa», vive tranquillo e di buon umore, attendendo a voltar la Cupola e a motteggiar sul Ghiberti e a farsi beffe del povero Grasso legnaiuolo. Quel fanciullo fu poi Andrea Cavalcanti scultore, detto dalla patria il Buggiano ed erede del Brunellesco. Benozzo Gozzoli difende presso il magnifico Piero de’ Medici due serafini ch’egli ha, spera, assai acconciamente, introdotto «tra certi nugoli» a’ canti d’un suo affresco; ma se poi il Magnifico non se ne contenta, «dua nugoli gli leveranno via»: perchè, scrive il buon Benozzo, «ciercho quelle vie ch’io possa far cosa chessia che io possa sodisfarvi, almanco in una buona parte»2. E sullo stesso stile, fatto più curioso e dal dialetto e da certa ingenuità baldanzosa, si raccomanda Domenico Veneziano: «Se voi sapesi el disiderio che ho de fare qualche famoso lavorio, [p. 150 modifica]et spicialmente a vui, me saristi in ziò favorevole. Son certo che per vui non remarà. Prieghove fatene el posibole, ch’io vi prometo ne receverete honore de’ fatti miei». E un intagliator modenese, Arduino: «Non bisiogna che io ve informe de’ fate mee: penso me chonosiate per fama chelo e che io sapia fare». Veri e proprii documenti letterarii sono invece gli autografi di Leon Battista Alberti e d’Antonio di Tuccio Manetti; lettere ambedue a Lorenzo de’ Medici. Ecco quella dell’Alberti; lettera di pari a pari, come cittadino, e di persona congiunta in amicizia col vincolo gentile degli studii, ma dove pure si fa sentire, ancorachè francamente portata, la soggezione. «Salve. Che tu pigli chonfidenzia in me mi piace, e fai quello che si richiede alla benivolenzia nostra antiqua. Et io, perchè chosì chonosco essere mio debito, però desidero e per te e a tua richiesta fare qualunque chosa torni chommodità a chi te ama. Et maxime molto mi diletterà far chosa grata al tuo Sandro, per chui tu mi chiedi certa chomutazione di terreni al Borgho. Sono certo, se non fusse chosa iustissima non la chiederesti, nè lui metterebbe te interprete: ma pur ti pregho lo chonforti; e io sarò, credo, chostì fra non molti dì, e vederemo la chosa, e sarò chollo archiepiscopo, senza cui consiglio proposi, più fa, di far nulla, e quello che tu stessi statuirai farò di buona voglia. Interim vale. Ex Roma, x aprilis. Tuus Baptista de Albertis». Del quale autografo cresce il pregio, se pensiamo che di lettere familiari dell’Alberti, nè ve n’ha alcuna a stampa (sebbene di lui o col nome di lui tanto si sia stampato), nè, almeno in Firenze, se ne conoscono manoscritte. Tuttavia d’assai maggior momento è l’autografo di Antonio Manetti, architetto, matematico e dantista di que’ medesimi tempi; perchè cotesta sua lettera al magnifico Lorenzo aggiunge non tanto alla vita di questo, la quale aspetta un narratore degno, quanto alla letteratura, meglio, alla storia dantesca un fatto nobilissimo, e ignoto, ch’io sappia, fin oggi: avere il magnifico Lorenzo de’ Medici meditato e praticato di restituire a Firenze le ossa di Dante. Sopra di che mi propongo tornare a scriver particolarmente, pubblicando, che nelle tavole del Pini si può tuttavia dire inedito, ed illustrando il prezioso documento.

[p. 151 modifica]Proseguendo, cinque lettere inedite, scelte dal carteggio buonarrotiano e indirizzate al grande maestro, possono far documento e della già nota cordialità di lui, e della bonomia che le tradizioni delle vecchie botteghe del quattrocento conservarono lungamente fra gli artisti del seguente secolo. Poco però ella poteva durare sotto il grave influsso delle corti: e i rabeschi del cavalier Giorgio Vasari vengono opportuni a rammentarcelo, sebbene la sua elegante letterina non parli nè di corti nè d’accademie; e perchè scritta a’ don Vincenzio Borghini e sopra interessi privati, non abbia da sfoggiare in omaggi a Eccellenze e Altezze Serenissime, come le ultime di tempo autografate dal Pini, quando gli artisti non chiederanno più all’arte le libere e solenni manifestazioni del bello, ma, scrive nel 1612 un d’essi toscano, «qualche seguo della servitù mia verso questi signori de’ quali son nato suddito, sotto l’ombra de’ quali protesto di voler vivere e morire». Pia, com’ognun sente, e affettuosissima giaculatoria!

Ma la importanza storica di questi documenti apparisce maggiore se più direttamente si consideri, cioè non tanto nel significato morale o nel valor letterario di essi, quanto rispetto al lor contenuto o alle notizie d’arte a cui danno occasione, mercè le elegantissime e compiute notizie biografiche, che, autografo per autografo, il cav. Gaetano Milanesi dà sopra gli artisti allogati nella Collezione. Ben pochi in Italia saprebbero, credo io, compilare que’ cenni con altrettanta sicurezza di dottrina e felice proprietà di forme, nelle quali spira l’alito degli antichi nostri scrittori d’arte, non a ravvivare frasucce inefficaci e stantìe, ma a dimostrare tuttavia possibile il dir cose belle e degne con forma eletta e nostrale. Nè belle e ben significate solamente, ma spesse volte sono nuove, specialmente intorno agli artisti men divulgati, le notizie che il Milanesi ha saputo raccogliere: tanto che sopra più d’un soggetto e d’una quistione i cultori della storia dell’arte dovranno in queste brevi scritture cercar l’ultima e più sicura sentenza, e di non pochi nomi adornare da esse i loro cataloghi. Cosi, per dare esempio dell’una e dell’altra cosa ed un saggio eziandio del lavoro del dotto archivista fiorentino, egli è forse il primo a [p. 152 modifica]parlarci di quel Michele di ser Memmo «nato in Siena ne’ primi «anni del secolo XIV,.... orafo, musaicista, scultore, architetto»: di Taddeo Gaddi trae, dall’autografo poc’anzi da noi riferito, notizie sopra le sue pitture in Pisa pe’ Gambacorti e per gli Strozzi in Santa Trinità di Firenze: di Benozzo Gozzoli c’insegna cosa che crede «ignota a tutti, cioè che egli, come si racconta d’altri artefici, fosse stato all’orafo, prima che si mettesse alla pittura», e che abbia lavorato col Ghiberti alle porte del San Giovanni: di Paolo da Verona, ricamatore, accerta lavori non ricordati da altri; di Matteo de’ Pasti, pur veronese, congettura «che siano suoi i Trionfi del Petrarca che si veggono nella R. Galleria di Firenze, dipinti su quattro tavolette convesse; de’ quali Trionfi si parla nella lettera qui fotografata, che il Pasti indirizza a Piero de’ Medici»: Antonio Manetti, intagliatore ed architetto, distingue, rettificando l’affermazione di altri eruditi, dal Manetto legnaiuolo, più conosciuto, per cagion della novella, sotto il nome di Grasso: dell’altro Antonio Manetti, il dantista sopra ricordato, fornisce notizie che non si hanno altronde; e ciò pure di Zanobi Strozzi, pittore e miniatore, di Giuliano Pesello, di Pietro di Chellino, di Federigo Frizzi, del comasco Mola: per non dire che molte date di nascite o morti d’artefici, prese da’ libri originali, vengono qui o somministrate la prima volta o raddirizzate. Nè si creda che il Milanesi, mal misurando all’angusto spazio questa dovizia di fatti minuti ed erudizioncelle, siasi poi trovato a dover tagliar corto quanto a osservazioni e giudizi che da un critico del suo valore si ha sempre diritto di aspettarsi. Di Masaccio e delle sue influenze nell’arte, io non so se in meno parole potrebbe dirsi con più temperata saviezza che così: «Chiusa l’età de’ Giotteschi, la storia riconosce in Masaccio colui che mediante l’attento studio della forma, e degli effetti della luce e delle ombre nel rilievo delle parti, richiamò l’arte alla imitazione della natura. Ma gli artefici fiorentini che dopo di lui tennero questa medesima via, condussero a poco a poco la pittura e la scultura, per esagerazione di quel verissimo principio, al manierismo, se così può dirsi, della imitazione pedantesca del vero. Pure non sarebbe senza manifesta [p. 153 modifica]ingiustizia il dar colpa di tutto questo a Masaccio; al quale in quella vece si debbe quella lode che merita un ingegno potente, che seppe rivolgere l’arte da un sentiero, ove essa sarebbe rimasta stazionaria, o si sarebbe smarrita, col ricondurla a meglio intendere il suo fine, e additandole i mezzi più propri a raggiungerlo». Gli scultori che cercheranno nella Raccolta del Pini l’autografo di Donatello, vi troveranno accanto queste riflessioni opportunissime e verissime e piene d’amore per l’arte: «Meritamente e senza contrasto ottiene Donatello il principato nella scultura del secolo XV, essendo egli stato ingegno maravigliosamente naturato a quest’arte, perchè diede alle sue figure forza, espressione e moto grandissimo; e trattando il marmo come materia molle e cedevole, seppe, portato in un subito da quel primo furore che invade gli artefici eccellenti, cavar fuori dal rozzo sasso, con pochi colpi, il suo concetto e dargli forma nuova e sempre appropriata; tantochè alcune sue opere si crederebbero fatte nel primo impeto della fantasia, senza modello o altro provvedimento; così grande era allora la pratica e la risolutezza nel lavorare di scarpello! E per questa pratica ebbero i vecchi scultori gran vantaggio sopra i moderni; perchè mentre quelli, contentandosi di tenere innanzi un piccolo abbozzo, di cera o di creta, del loro concetto, ogni loro studio e fatica ponevano nel ben condurre di marmo le loro opere; al contrario i nostri artefici danno tutto il tempo e il pensiero a formarle di terra, lasciando la fatica ad uomini meccanici di riprodurre nel marmo i loro modelli. Il che fa che le sculture loro sieno lodevoli per minuta diligenza e pulitezza in ogni parte, ma riescano altresì fredde, e senza quello spirito, che il solo proprio artefice, lavorandole di sua mano, potrebbe infondere in esse». Leon Battista Alberti è dal Milanesi, più che ritratto, scolpito, in questa che, mentr’è compiuta notizia biografica, potrebbe pure, sopra un monumento a quell’uomo universale, trascriversi tale e quale per bellissima epigrafe: «Ingegno straordinario ed universale nelle lettere, nelle scienze e nelle arti. Autore di commedie latine che si credettero antiche, di romanzi che portarono il nome d’illustri scrittori, di trattati di economia [p. 154 modifica]che ad altri furono attribuiti. Inventore di nuova forma di verso italiano, e trovatore ingegnoso di strumenti che agevolarono l’esercizio dell’arte. Nel suono, nel canto, nella danza, nel cavalcare, nello schermire destrissimo. Dell’architettura, pittura, scultura solenne maestro coi precetti e cogli esempi. Fu caro ai pontefici ed a molti principi d’Italia. Pei Malatesti innalzò in Rimini il bellissimo tempio di S. Francesco, e pei Gonzaga il non men bello di S. Andrea di Mantova e il coro della Nunziata di Firenze. Diede pei Rucellai il grazioso disegno delle loro case e della loggia; e vuolsi che sia opera del suo compasso la facciata di S. Maria Novella, rifatta sopra l’antica, sebbene da qualche contemporaneo ne sia data ad altri la lode. Nato da Lorenzo in Genova ai 18 di febbraio del 1405, morì in Roma nel 72». Il Vasari che, come scrittore, alle cure del Pini e de’ fratelli Milanesi e d’altri loro valorosi colleghi tanto deve, è, come artista, giudicato con reverente severità in queste poche linee: «Artefice infaticabile, nocquegli il far molto e presto. Nelle pitture si mostrò artefice pieno di fantasia, risoluto, ma spesso trascurato; e nel disegnare e nel comporre cadde nella esagerazione di chi aveva dinanzi un esemplare grande, ma pericoloso agi’ ingegni minori. In architettura, della quale ebbe buon sentimento, lasciò colla fabbrica degli Uffizi un’opera che meglio provvede alla sua fama d’artista». Tal’altra volta una o due frasi comprendono lungo e ragionato giudizio; ma il sentimento, anche squisito, dell’arte non basterebbe a farle trovare, se non fosse da paziente pratica esercitato, dagli studii ringagliardito. Di cosiffatte mi paiono, dove il Mantegna è chiamato «disegnatore dotto e coloritore di forza»; Mino da Fiesole, «l’Angelico della scultura»; Gian Bologna, «artista di gran pratica e di bella esecuzione»; e nelle figure di Luca della Robbia si nota «la tranquilla espressione che rivela l’animo quieto e sereno dell’artista»; e di «gentilissimo e consideratissimo architetto» si dà lode a Baldassarre Peruzzi, del quale è da avvertire la singolarità dell’autografo, che è un suo disegno da lui medesimo in poche righe illustrato. Al qual proposito, giustamente, parlando degl’intendimenti e del fine della sua Raccolta, notò il Pini [p. 155 modifica]massimamente degli architetti, essere utile conoscere la scrittura, i quali solevano tra le linee de’ loro disegni scriverne la dichiarazione: così molti anonimi si verranno a svelare, e di non poche opere sapremo l’autor vero».

Innanzi di por fine a questa già forse troppo lunga rassegna, mi piace far menzione anche d’un altro autografo singolare, ed è di un architetto contemporaneo ed emulo del Brunellesco, e, alla pari del Manetti, dantista, anzi spositore del Poema nello Studio di Firenze: Giovanni di Gherardo da Prato, l’autore del Paradiso degli Alberti, pubblicato recentemente con molta dottrina e diligenza dal prof. Wesselofski. «Egli avea fatto parecchi disegni per la Cupola e per la catena: ma Brunellesco vinse tutti coll’ingegno, se non riuscì che troppo tardi a vincer l’invidia che gli avea posto accanto molti emuli. Di questi fu Giovanni di Gherardo: il quale non pare si desse per vinto neppure quando la Cupola, con sicura arditezza, era cominciata a voltare. Ne abbiamo la prova in una cartapecora, venuta da pochi anni all’Archivio di Stato; sulla quale, a linee e a parole, si sforzò di mostrare (e fu circa al 1426), che l’edifizio verrebbe con due mancamenti: l’esser cieco, ed aver poca stabilità. E se il primo è difetto, messer Giovanni non ebbe torto; ma dell’altro gli rispondono i secoli». Così il mio Cesare Guasti; poichè per la notizia di questo pratese il Milanesi cedeva la penna all’amico, illustratore della Cupola di Santa Maria del Fiore. Il quale, proponendo al Pini la fotografia della ricordata cartapecora per la parte dimostrativa del disegno, aggiungeva nella sua Notizia, e sono curiosità anche letterarie, due sonetti passati tra Giovanni e Filippo duranti quelle gare infelici.

Conchiudendo, alla impresa del signor Pini, malagevole, com’è facile immaginare, a condursi per così lungo cammino (dovranno essere trecento autografi, in dodici dispense, di venticinque tavole ciascuna e del prezzo di lire venti ); a questa impresa nella quale la curiosità, spesso compagna indifferente di cose frivole od anche spregevoli, è fatta servire a fini utili e degni; io non saprei con quali parole benaugurare nè più convenienti nè più autorevoli, di queste che ne scriveva, non è molto, il Tommaseo: «Le gallerie [p. 156 modifica]pubbliche e le più cospicue tra le private, le pubbliche biblioteche e le case signorili, spendendo le lire dugenquaranta richieste a tale raccolta, vorranno, speriamo, non permettere che soli gli stranieri se ne vantino promotori. Se non si dimostra conoscente l’Italia di quel che fu, viene a fare troppo trista confessione di quel ch’ell’è, troppo cattivo augurio di quel che sarà».

I. Del Lungo.          




  1. Dopo scritta la presente rassegna, è venuta a luce anche la Dispensa III, nella quale figurano Antonio Filarete, Pietro della Francesca, Vittorio Ghiberti, Bertoldo scultore, Mariano del Buono, Giuliano da Sangallo, Lionardo da Vinci, Baccio d’Agnolo, Baccio da Montelupo, Antonio da Sangallo il giovane, Benvenuto della Volpaia, Gio. Gerardo Catena, il Rosso fiorentino, Pietro Urbano da Pistoia, Pier Maria da Pescia, Domenico da Terranova, Francesco da Sangallo, Salustio Peruzzi, Francesco Moschino, Angelo Bronzino, Nardo de’ Rossi, Niccolò Tribolo, Gio. Antonio de’ Rossi, Egnazio Danti, Lodovico Canacci.
  2. Chi voglia sapere se la vinsero i nugoli o i serafini, vada a vederlo nella cappella del palazzo Mediceo. In questa lettera del Gozzoli è da notare il vocabolo pontata che manca a’ vocabolarii, sebbene vivo nell’arte . e vuol dire; tanto lavoro quanto se ne può fare in muro, senza mutare il ponte sul quale si lavora. Ecco il passo della lettera di Benozzo: «Io credo che di quest’altra settimana io arò fornito questa pontata. Credo che voi vorrete vedere inanzi ch’io levi il ponte».