Arcadia (Sannazaro)/Egloga II

Egloga II

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Prosa II Prosa III
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EGLOGA SECONDA.

montano ed uranio.


Montano.

Itene all’ombra degli ameni faggi,
Pasciute pecorelle, omai che ’l sole
Sul mezzo giorno indrizza i caldi raggi.
Ivi udirete l’alte mie parole
Lodar gli occhi sereni e trecce bionde,
Le mani e le bellezze al mondo sole.
Mentre il mio canto e ’l mormorar dell’onde
S’accorderanno; e voi di passo in passo
Ite pascendo fiori, erbette e fronde.
Io veggio un uom, se non è sterpo o sasso:
Egli è pur uom che dorme in quella valle
Disteso in terra faticoso e lasso.
Ai panni, alla statura, ed alle spalle,
Ed a quel can che è bianco, e’ par che sia
Uranio, se ’l giudizio mio non falle.
Egli è Uranio, il qual tanta armonia
Ha nella lira, ed un dir sì leggiadro,
Che ben s’agguaglia alla sampogna mia.
Fuggite il ladro, o pecore e pastori;
Ch’egli è di fuori il lupo pien d’inganni,
E mille danni fa per le contrade.
Qui son due strade: or via, veloci e pronti
Per mezzo i monti, che ’l cammin vi squadro,
Cacciate il ladro, il qual sempre s’appiatta
In questa fratta e ’n quella, e mai non dorme,
Seguendo l’orme delli greggi nostri.
Nessun si mostri paventoso al bosco;
Ch’io ben conosco i lupi: andiamo, andiamo;
Che s’un sol ramo mi trarrò da presso,

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Nel farò spesso ritornare a dietro.
Chi fia, s’impetro dalle mie venture
Ch’oggi sicure vi conduca al varco,
Più di me scarco? o pecorelle ardite,
Andate unite al vostro usato modo.
Che, se ’l ver odo, il lupo è qui vicino:
Ch’esto mattino udii romori strani.
Ite, miei cani, ite, Melampo ed Adro,
Cacciate il ladro con audaci gridi.
Nessun si fidi nell’astute insidie
De’ falsi lupi che gli armenti furano;
E ciò n’avviene per le nostre invidie.
Alcun saggi pastor le mandre murano
Con gli alti legni, e tutte le circondano;
Che nel latrar de’ can non si assicurano.
Così, per ben guardar, sempre n’abbondano
In latte e ’n lane, e d’ogni tempo aumentano,
Quando i boschi son verdi, e quando sfrodano.
Nè mai per neve il marzo si sgomentano,
Nè perdon capra, perchè fuor la lascino:
Così par che li Fati al ben consentano.
A’ loro agnelli già non noce il fascino;
O che sian erbe o incanti che possedano;
E i nostri col fiatar par che s’ambascino.
Ai greggi di costor lupi non predano:
Forse temon de’ ricchi: or che vuol dire,
Ch’a nostre mandre per usanza ledano?
Già semo giunti al luogo ove il desire
Par che mi sprone e tire,
Per dar principio agli amorosi lai.
Uranio, non dormir, destati omai:
Misero, a che ti stai?
Così ne meni il dì come la notte?

Uranio.

Montano, i’ mi dormiva in quelle grotte;

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E ’n su la mezza notte
Questi can mi destar bajando al lupo:
Ond’io gridando, al lupo, al lupo, al lupo,
Pastor, correte al lupo,
Più non dormii per fin che vidi il giorno:
E ’l gregge numerai di corno in corno;
Indi sotto quest’ orno
Mi vinse il sonno, ond’or tu m’hai ritratto.

Montano.

Vuoi cantar meco? or incomincia affatto.

Uranio.

Io canterò con patto
Di rispondere a quel che dir ti sento.

Montano.

Or qual canterò io, che n’ho ben cento?
Quella del fier tormento?
O quella che comincia: alma mia bella?
Dirò quell’altra forse: ahi cruda stella?

Uranio.

Deh per mio amor dì quella
Ch’a mezzo dì l’altr’jer cantasti in villa.

Montano.

Per pianto la mia carne si distilla,
Siccome al sol la neve,
O com’al vento si disfà la nebbia;
Nè so che far mi debbia.
Or pensale al mio mal qual esser deve.

Uranio.

Or pensate al mio mal, qual esser deve;
Che come cera al foco,
O come foco in acqua mi disfaccio;
Nè cerco uscir dal laccio,
Sì m’è dolce il tormento, e ’l pianger gioco,

Montano.

Sì m’è dolce il tormento, e ’l pianger gioco;

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Ch’io canto, suono e ballo.
E cantando e ballando al suon languisco,
E segno un basilisco:
Così vuol mia ventura, ovver mio fallo.

Uranio.

Così vuol mia ventura, ovver mio fallo;
Che vo sempre cogliendo
Di piaggia in piaggia fiori e fresche erbette,
Trecciando ghirlandette;
E cerco un tigre umiliar piangendo.

Montano.

Fillida mia, più che i ligustri bianca,
Più vermiglia che ’l prato a mezzo aprile,
Più fugace che cerva,
Ed a me più proterva,
Ch’a Pan non fu colei che vinta e stanca
Divenne canna tremula e sottile;
Per guiderdon delle gravose some,
Deh spargi al vento le dorate chiome.

Uranio.

Tirrena mia, il cui colore agguaglia
Le mattutine rose e ’l puro latte;
Più veloce che damma,
Dolce del mio cor fiamma;
Più cruda di colei che fe’ in Tessaglia
Il primo alloro di sue membra attratte;
Sol per rimedio del ferito core
Volgi a me gli occhi, ove s’annida amore.

Montano.

Pastor, che siete intorno al cantar nostro,
S’alcun di voi ricerca foco od esca
Per riscaldar la mandra,
Venga a me salamandra,
Felice insieme e miserabil mostro;
In cui convien ch’ognor l’incendio cresca

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Dal dì ch’io vidi l’amoroso sguardo,
Ove ancor ripensando agghiaccio ed ardo.

Uranio.

Pastor, che per fuggire il caldo estivo,
All’ombra desiate per costume
Alcun rivo corrente,
Venite a me dolente,
Che d’ogni gioja e di speranza privo
Per gli occhi spargo un doloroso fiume
Dal dì ch’io vidi quella bianca mano,
Ch’ogni altro amor dal cor mi fe’ lontano.

Montano.

Ecco la notte, e ’l ciel tutto s’imbruna,
E gli alti monti le contrade adombrano;
Le stelle n’accompagnano e la luna.
E le mie pecorelle il bosco sgombrano
Insieme ragunate, che ben sanno
Il tempo e l’ora che la mandra ingrombano.
Andiamo appresso noi; ch’elle sen vanno,
Uranio mio; e già i compagni aspettano,
E forse temon di successo danno.

Uranio.

Montano, i miei compagni non sospettano
Del tardar mio; ch’io vo’ che ’l gregge pasca;
Nè credo che di me pensier si mettano,
I’ ho del pane, e più cose altre in tasca:
Se vuoi star meco, non mi vedrai movere,
Mentre sarà del vino in questa fiasca:
E sì potrebbe ben tonare e piovere.

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ANNOTAZIONI

all’Egloga Seconda.


Il fascino è un certo genere di stregamento, chiamato anche mal d’occhi, che si credeva dagli antichi, che massime gl’invidiosi ed i maligni facessero col loro guardare, e per cui gli uomini non meno che gli animali diventassero stupidi ed inerti, e dimagrando si consumassero a segno di morire. I Latini dicevano fascinum anche per dire il membro virile. Orazio nell’Epod. od. viii.


Minusve languet fascinum


Credevan eglino, che le stesse cose le quali servivano a far l’incantamento, servissero anche a distruggerlo. Sia d’esempio l’appiccare alle porte delle case gli uccelli di mal augurio per allontanare le sciagure cui si voleva ch’essi predicessero o apportassero. Ora come per ammaliare usavano il membro virile, così l’usavano anche per togliere l’incantesimo, e a tal fine lo appendevano al collo de’ fanciulli a modo di amuleto. Il che anche la loro religione avea confermato, poichè giusta la testimonianza di Plinio al lib. xix. cap. 4 della St. Natur., le porte e gli orti erano consacrate contro le fascinazioni degl’invidiosi; ed i rimedj erano gli eretti peni dei Satiri.

Colei che vinta e stanca ec. La Ninfa Siringa, che fuggendo dalle amorose brame di Pane fu dagli Dei convertita in canna.

Colei che fe’ in Tessaglia ec. Dafne seguita da Apollo, e convertita in lauro.

Salamandra, animale somigliante alla tarantola ed alla lucerta, che ha il tergo sparso di lucenti macchie a guisa di stelle. Aristotele, Plinio ed Eliano recano mirabili cose su la forza del suo veleno. Il nostro Poeta fa la salamandra di natura ignea, e i citati antichi autori la fanno anzi di natura freddissima. Plinio, per omettere le parole degli altri due, al cap. 67 del lib. x. della St. Nat. così scrive: Salamandra, animal lacerti figura, stellatum, nunquam nisi magnis imbribus proveniens et serenitate deficiens. Huic tantus rigor, ut ignem tactum extinguat, non alio modo quam glacies. Convien dunque credere, che qui il Sanazzaro segua l’opinione degli Ebrei, i quali anzi narrano, che la salamandra e nasce dal fuoco, e vive in esso. La qual cosa certamente falsa può averla fatta imaginare il vedere che la salamandra appunto di natura freddissima resiste viva nel fuoco, finchè non ha vomitato tutta la sanie, di cui abbonda. Lo Sponio attesta d’aver [p. 25 modifica]veduto in Roma co’ proprj occhi una salamandra essere consunta dal fuoco. Anche Benvenuto Cellini scrive nella sua Vita d’aver veduto una salamandra nelle fiamme. Ecco il fatto descritto da lui medesimo con quella sua sì bella naturalezza, per la quale piacerà sempre la lettura di quella sua Vita a chiunque fornito di buon gusto ama le Lettere e le Arti; massime dopo che il giudiziosissimo Sig. Bibliotecario Carpani ce la diede emendata di molti errori, ed illustrata con note opportunissime sì per la lingua che pei fatti e per le persone che vi sono introdotte. Nella mia età di cinque anni in circa, così narra Benvenuto, essendo mio Padre in una nostra celletta, nella quale si era fatto il bucato, ed era rimasto un buon fuoco di querciuoli, Giovanni (questi è lo stesso suo Padre) con una viola in braccio cantava e sonava soletto intorno a quel fuoco, perchè era molto freddo; e guardando in quel fuoco, a caso vide in mezzo a quelle più ardenti fiamme un animaletto come una lucertola, il quale si gioiva in quelle fiamme più vigorose. Subito avvedutosi di quel che era, fece chiamar la mia sorella e me, e mostratolo a noi bambini, a me diede una gran ceffata, per la quale io molto mi misi a piangere; ed egli piacevolmente racchetatomi, mi disse così: Figliuolin mio caro, io non ti do per male che tu abbia fatto, ma solo perchè tu li ricordi che quella lucertolina, che tu vedi nel fuoco, si è una salamandra, quale non s’è mai veduta per altri, di che ci sia notizia veruna; e così mi baciò e mi dette certi quattrini. Che che però ne sia di queste proprietà della salamandra, cui io non vidi mai né viva né morta, posso ben dire, che non è da imitarsi il falso pensiero del nostro Poeta di far si che Montano chiami i pastori a prender il fuoco materiale da lui, che tutto è preso da un fuoco figurato, qual è quello dell’amore.

E gli alti monti ec. Virgilio nell’Egl. I.


Majoresque cadunt altis de montibus umbrae.