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e ancor debole e abbattuto si era rannicchiato in portineria ad aspettare la signora. Suo padre era stato messo in libertà ed egli doveva ringraziarla dell’opera e della carità usata in questa circostanza. Voleva dimostrarle che sapeva perdonare anche lui a chi gli aveva fatto del male e che non gli mancava la buona volontà di cooperare a quel molto di bene che si poteva fare. Infine voleva rivederla, salutarla...

Vestita di nero, coi capelli che cascavano quasi stanchi anch’essi sul collo e sulle spalle, nel disordine che segue alle notti mal dormite, cogli occhi abbruciati dalla veglia, la signora gli parve ingrandita e rischiarata d’una bellezza più pura e ideale. L’apertura del vestito lasciava scoperto un poco il collo d’una candidezza d’avorio, come d’avorio in quel nero parevano le mani.

Rivedendo nella sua dolente realtà colei che gli era apparsa trasfigurata e raggiante nella poesia del delirio, sentì d’essere meno straniero verso la poverina. Avevano sofferto insieme.

La zia Colomba lo aveva messo a parte di tutti i particolari per cui la signora era venuta a chiedere l’ospitalità in casa sua. Sul tavolino erano rimasti molti fogli di una lettera, scritta da lei nel furore d’uno spasimo mortale, e da quei frammenti il giovane aveva imparato a conoscere a quali gridi si abbandoni un’anima, che insorge e che ricade accasciata sotto il peso delle cose.

La storia di questi dolori era scritta anche sul volto appassito, nella bellezza attenuata, nel disordine della persona, nello sguardo intimidito e assente: e parlava nella voce, una voce che avresti detto venire da una donna sopravissuta a una tremenda catastrofe.