Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/66
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Anno di | Cristo LXVI. Indizione IX. Lino papa 2. Nerone Claudio imperad. 13. |
Consoli
Caio Lucio Telesino e Caio Svetonio Paolino
Funesto ancora fu l’anno presente a Roma per l’infelice fine di molti illustri romani, che tutti perirono per la crudeltà di Nerone, principe giunto a non saziarsi mai di sangue, perchè questo sangue gli fruttava l’acquisto dei beni de’ pretesi rei. Tacito empie molte carte1 di sì tristo argomento. Io me ne sbrigherò in poche parole, per risparmiare la malinconia a chiunque, è per leggere queste carte. Basterà solo rammentare che Anneo Mella, fratello di Seneca, e padre di Lucano poeta, accusato si svenò e terminò presto il processo. Caio Petronio, che ha il prenome di Tito appresso Plinio, uomo di somma leggiadria, e tutto dato al bel tempo, era divenuto uno dei più favoriti di Nerone. La gelosia di Tigellino, prefetto del pretorio, gli tagliò le gambe, e il costrinse a darsi la morte. Ma prima di darsela, fece credere a Nerone di lasciarlo suo erede, e gli mandò il suo testamento. In questo non si leggevano se non le infami impurità ed iniquità di esso Nerone. La descrizione de’ costumi lasciati da Tacito, ha dato motivo ad alcuni di crederlo il medesimo, che Petronio Arbitro, di cui restano i frammenti di un impurissimo libro. Ma dicendo esso Tacito, che questo Petronio fu proconsole della Bitinia e console, egli sembra essere stato quel Cajo Petronio Turpiliano, che abbiam veduto console nell’anno 61 di Cristo, e però diverso da Petronio Arbitro. Più di ogni altro venne onorato dalla compassione di tutti, e compianto il caso di Peto Trasea, e di Berea Sorano, amendue senatori e personaggi della prima nobiltà, perchè non solo abbondavano di ricchezze, ma più di virtù, di amore del pubblico bene e di costanza per sostenere le azioni giuste e riprovar le cattive. Per questi lor bei pregi non potea di meno l’iniquo Nerone di non odiarli, e di non desiderar la morte loro. Però il fargli accusare, benchè d’insussistenti reati, lo stesso fu che farli condannare dal senato, avvezzo a non mai contraddire ai temuti voleri di Nerone. Così restò priva Roma dei due più riguardevoli senatori, ch’ella avesse in que’ tempi, crescendo con ciò il batticuore a ciascun’altra persona di vaglia, giacchè in tempi tali l’essere virtuoso era delitto. Non parlo d’altri o condennati o esiliati da Nerone nell’anno presente, mentovati da Tacito, la cui storia qui ci torna a venir meno perchè l’argomento è tedioso.
Secondo il concerto fatto con Corbulone governator della Soria, Tiridate fratello di Vologeso re dei Parti2, si mosse in quest’anno per venir a prendere la corona dell’Armenia dalle mani di Nerone, conducendo seco la moglie, e non solo i figliuoli suoi, ma quelli ancora di Vologeso, di Pacoro e di Monobazo, e una guardia di tremila cavalli. L’accompagnava Annio Viviano, genero di Corbulone, con gran copia d’altri Romani. [p. 242]Nerone, che forte si compiaceva di veder venire a’ suoi piedi questo re barbaro, non perdonò a diligenza ed attenzione alcuna, affinchè egli nel medesimo tempo fosse trattato da par suo, e comparisse agli occhi di lui la magnificenza dell’imperio romano. Non volle Tiridate3 venir per mare, perchè dato alla magia, peccato riputava lo sputare o il gittar qualche lordura in mare. Convenne dunque condurlo per terra con sommo aggravio dei popoli romani; perchè dacchè entrò e si fermò nelle terre dell’imperio, dappertutto sempre alle spese del pubblico ricevè un grandioso trattamento (il che costò un immenso tesoro), e tutte le città per dove passò, magnificamente ornate, l’accolsero con grandi acclamazioni. Marciava Tiridate in tutto il viaggio a cavallo, con la moglie accanto, coperta sempre con una celata d’oro per non essere veduta, secondo il rito de’ suoi paesi, che tuttavia con rigore si osserva. Passato per Bitinia, Tracia ed Illirico, e giunto in Italia, montò nelle carrozze che gli avea inviato Nerone, e con esse arrivò a Napoli, dove l’imperadore volle trovarsi a riceverlo. Menato all’udienza, per quanto dissero i mastri delle cerimonie, non volle deporre la spada. Solamente si contentò che fosse serrata con chiodi nella guaina. Per questa renitenza Nerone concepì più stima di lui; e maggiormente se gli affezionò, allorchè sel vide davanti con un ginocchio piegato a terra, e colle mani alzate al cielo sentì darsi il titolo di Signore. Dopo avergli Nerone fatto godere in Pozzuolo un divertimento con caccia di fiere e di tori, il condusse seco a Roma. Si vide allora quella vastissima città tutta ornata di lumi, di corone, di tappezzerie, con popolo senza numero accorso anche di lontano, vestito di vaghe vesti, e coi soldati ben compartiti coll’armi loro tutte rilucenti. Fu soprattutto mirabile nella mattina del dì seguente il vedere la gran piazza e i tetti anch’essi coperti tutti di gente. Miravasi nel mezzo di esse assiso Nerone in veste trionfale sopra un alto trono, col senato e le guardie intorno. Per mezzo di quel gran popolo condotti Tiridate e il suo nobil seguito, s’inginocchiarono davanti a Nerone, ed allora proruppe il popolo in altissime grida, che fecero paura a Tiridate, e il tennero sospeso per qualche tempo. Fatto silenzio, parlò a Nerone con umiltà non aspettata, chiamando se stesso schiavo, e dicendo di essere venuto ad onorar Nerone come un suo dio, e al pari di Mitra, cioè del sole, venerato dai Parti. Gli pose dipoi Nerone in capo il diadema, dichiarandolo re dell’Armenia; e dopo la funzione passarono al teatro, ch’era tutto messo a oro, per mirare i giuochi. Le tende tirate per difendere la gente dal sole, furono di porpora, sparse di stelle d’oro, e in mezzo di esse la figura di Nerone in cocchio, fatta di ricamo. Succedette un sontuosissimo convito, dopo il quale si vide quel bestion di Nerone pubblicamente cantare e suonar di cetra: e poi montato in carretta colla canaglia de’ cocchieri, vestito dell’abito loro, gareggiar nel corso con loro.
Se ne scandalezzò forte Tiridate, e prese maggior concetto di Corbulone, dacchè sapeva servire e sofferire un padrone sì fatto, senza valersi dell’armi contra di lui. Anzi non potè contenersi da toccar ciò in gergo allo stesso Nerone con dirgli: «Signore, voi avete un ottimo servo in Corbulone;» ma Nerone non penetrò l’intenzion segreta di queste parole. Fecesi conto, che i regali fatti da esso Augusto a Tiridate ascendessero a due milioni. Ottenne egli ancora di poter fortificar Artasata, e a questo fine menò da Roma gran quantità di artefici, con dar poi a quella città il nome di Neronia. Da Brindisi fu condotto a Durazzo, e passando per le grandi e ricche città dell’Asia ebbe sempre più occasion di vedere la magnificenza e possanza dell’imperio romano. Ma non ancor sazia la vanità di Nerone per questa funzione che [p. 244]costò tanti milioni al popolo romano, avrebbe pur voluto, che Vologeso re de’ Parti fosse venuto anch’egli a visitarlo, e l’importunò su questo. Altra risposta non gli diede Vologeso, se non che era più facile a Nerone passare il Mediterraneo: il che facendo, avrebbono trattato di un abboccamento. Per questo rifiuto a Nerone saltò in capo di fargli guerra; ma durarono poco questi grilli, perchè egli pensò ad una maniera più facile di acquistarsi gloria: del che parleremo all’anno seguente. Nacque4 bensì nell’anno presente la guerra in Giudea, essendosi rivoltato quel popolo per le strane avanie de’ Romani, mentre Cestio Gallo era governator della Siria, il quale durò fatica a salvarsi dalle loro mani in una battaglia. Fu obbligato Nerone ad inviar un buon rinforzo di gente colà, e scelse per comandante di quell’armata Vespasiano, capitano di valore sperimentato. Io so che all’anno seguente è comunemente riferita la morte di Corbulone, ricavandosi ciò da Dione. Ma al trovar noi, per attestato di Giuseppe Storico, allora vivente, il suddetto Cestio Gallo al governo della Siria, senzachè parli punto di Corbulone, può dubitarsi che la morte di questo eccellente uomo succedesse nell’anno presente. E per valore e per amor della giustizia non era inferiore Corbulone ad alcuno de’ più rinomati antichi Romani. Nerone presso il quale passava per delitto l’essere nobile, virtuoso e ricco, non potè lasciarlo più lungamente in vita. Coll’apparenza di volerlo promuovere a maggiori onori, il richiamò dalla Siria, ed allorchè fu arrivato a Cencre, vicino a Corinto, gli mandò ad intimar la morte. Se la diede egli colle proprie mani, tardi pentito di tanta sua fedeltà ad un principe sì indegno, e di essere venuto disarmato a trovarlo. Perchè a noi qui manca la Storia di Tacito, la cronologia non va con piede sicuro.