Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/65

Anno 65

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Anno di Cristo LXV. Indizione VIII.
Lino papa 1.
Nerone Claudio imperad. 12.


Consoli


Aulo Licinio Nerva Siliano e Marco Vestinio Attico


In una iscrizione, rapportata dal Doni e da me1, si legge SILANO ET ATTICO COS. Se questa sussiste, non Siliano, ma Silano sarà stato l’ultimo dei suoi cognomi. Il cardinal Noris ed altri sostentano Siliano. Per attestato di Tacito, avea Nerone disegnati consoli per le calende di luglio, Plauzio Laterano, dalla cui persona o casa riconosce la sua origine la Basilica Lateranense, ed Anicio Cereale. Il primo, in vece del consolato, ebbe da Nerone la morte, siccome dirò. Fece lo stesso fine Vestino Attico, cioè l’altro console ordinario. Però si può tenere per fermo che Cereale succedesse nel consolato. Roma2 in questo anno divenne teatro di morti violente per la congiura di Caio Calpurnio Pisone, che fu scoperta. Era questi di nobilissima famiglia, ben provveduto di beni di fortuna, grande avvocato dei rei, e però comunemente amato e stimato, benchè dato ai piaceri ed al lusso, e mancante di gravità di costumi. Sarebbe volentieri salito sul trono, e per salirvi conveniva levar di mezzo Nerone; il che non parea tanto difficile, stante l’odio comune. S’egli fosse il primo ad intavolar la congiura, non si sa. Certo è bensì che Subrio, o sia Subio Flavio, tribuno di una compagnia delle guardie, e Mario Anneo Lucano nipote di Seneca, e celebre autore del poema della Farsalia, furono de’ primi ad entrarvi, e de’ più disposti ad eseguirla. Per una giovanil vanità Lucano (era nato nell’anno 39 dell’Era nostra) non potea digerire che [p. 236]Nerone, per invidia, e pazza credenza di saperne più di lui in poesia, gli avesse proibita la pubblicazione del suddetto poema, ed anche di far da avvocato nelle cause. Entrò in questo medesimo concerto anche Plauzio Laterano, console designato, per l’amore che portava al pubblico. Molti altri, o senatori, o cavalieri, o pretoriani, ed alcune dame ancora, chi per odio e vendetta privata, e chi per liberar l’imperio da questo mostro, tennero mano al trattato. Proposero alcuni di ammazzarlo, mentre cantava in teatro, o pur di notte, quando usciva senza guardie per la città. Altri giudicavano meglio di aspettare a far il colpo a Pozzuolo, a Miseno o a Baja, avendo a tal fine guadagnato uno de’ principali uffiziali dell’armata navale. In fine fu stabilito di ucciderlo nel dì 12 di aprile, in cui si celebravano i giuochi del Circo a Cerere. Messo in petto di tanti il segreto, per poca avvertenza di Flavio Scevino traspirò. Fece egli testamento; diede la libertà a molti servi; regalò gli altri; preparò fasce per legar ferite: ed intanto, benchè desse agli amici un bel convito, e facesse il disinvolto, pure comparve malinconico e pensoso. Milico suo liberto osservava tutto, e perchè il padrone gli diede da far aguzzare un pugnale rugginoso, s’avvisò che qualche grande affare fosse in volta. Sul far del giorno questo infedele, animato dalla speranza di una gran ricompensa, se n’andò agli orti Serviliani, dove allora soggiornava Nerone, e tanto tempestò coi portinai, che potè parlare ad Epafrodito liberto di corte, che l’introdusse all’udienza del padrone. Furono tosto messe le mani addosso a Scevino, che coraggiosamente si difese, e rivolse l’accusa contro del suo liberto. Ma perchè si seppe, avere nel dì innanzi Scevino tenuto un segreto e lungo ragionamento con Antonio Natale, ancor questo fu condotto dai soldati. Esaminati a parte, si trovarono discordi, e poi alla vista de’ tormenti confessarono il disegno; e rivelarono i [p. 237 modifica]complici. Allo intendere sì numerosa frotta di congiurati, saltò tal paura addosso a Nerone, che mise guardie dappertutto, e nè pur si teneva sicuro in qualunque luogo ch’egli si trovasse.

Vien qui Tacito annoverando tutti i congiurati, e il loro fine. Molti furono gli uccisi, e fra gli altri Caio Pisone, capo della congiura, e Lucano poeta; altri, con darsi la morte da sè stessi, prevennero il carnefice; ed alcuni ancora la scamparono colla pena dell’esilio. Fra gli altri denunziati v’entrò anche Lucio Anneo Seneca, insigne maestro della stoica filosofia; ma che, se si avesse a credere a Dione3, macchiato fu di nefandi vizii d’avarizia di disonestà e di adulazione. Di lui parla con istima maggiore Tacito, scrittore alquanto più vicino a questi tempi. Consisteva tutto il suo reato nell’essere stato a visitarlo nel suo ritiro Antonio Natale, e a lamentarsi perchè non volesse ammettere Pisone in sua casa, e trattare con lui. Al che avea risposto Seneca, non essere bene che favellassero insieme; del resto dipendere la di lui salute da quella di Pisone. Trovavasi Seneca nella sua villa, quattro miglia lungi di Roma, e mentre era a tavola con due amici, e con Pompea Paolina sua moglie cara, arrivò Silvano tribuno d’una coorte pretoriana ad interrogarlo intorno alla suddetta accusa. Rispose con forti ragioni, nulla mostrò di paura, e parlò senza punto turbarsi in volto. Portata la risposta a Nerone, dimandò, il crudele, se Seneca pensava a levarsi colle proprie mani la vita. Disse Silvano di non averne osservato alcun segno. Farà bene, replicò allora Nerone, ed ordinò di farglielo sapere. Intesa l’atroce intimazione, volle Seneca far testamento, e gli fu proibito. Quindi scelto di morire collo svenarsi, coraggiosamente si tagliò le vene, ed entrò nel bagno per accelerare l’uscita del sangue. Dopo aver lasciati alcuni bei documenti agli amici, morì. Anche la moglie Paolina volle accompagnarlo [p. 238]collo stesso genere di morte, e si svenò, ma per ordine di Nerone fu per forza trattenuta in vita, ed alcuni pochi anni visse dipoi, ma pallida sempre in volto. Le straordinarie ricchezze di Seneca si potrebbe credere gl’inimicassero l’ingordo Nerone, se non che scrive Dione ch’egli le avea dianzi cedute a lui, per impiegarle nelle sue fabbriche. Ancorchè il console Vestinio non fosse a parte della congiura, pure si valse Nerone di questa occasione per levarlo di vita, e lo stesso fece d’altri ch’egli mirava di mal occhio.

Andò poscia Nerone in senato, per informar quei padri del pericolo fuggito e dei delinquenti4; e però furono decretati ringraziamenti e doni agli dii, perchè avessero salvato un sì degno principe; ed egli consecrò a Giove vendicatore nel Campidoglio il suo pugnale. Capitò in questi tempi a Roma Cesellio Basso, di nascita Africano, uomo visionario, che ammesso all’udienza di Nerone, gli narrò come cosa certa, che nel territorio di Cartagine in una vasta spelonca stava nascosa una massa immensa d’oro non coniato, quivi riposta o dalla regina Didone, o da alcuno degli antichi re di Numidia. Vi saltò dentro a piè pari l’avido Nerone, senza esaminar meglio l’affare, senza prendere alcuna informazione, e subito fu spedita una grossa nave, scelta come capace di sì sfoggiato tesoro, con varie galee di scorta. Nè d’altro si parlava allora che di questo mirabil guadagno fra il popolo. Per la speranza di un sì ricco aiuto di costa, maggiormente s’impoverì il pazzo imperadore, perchè si fece animo in ispendere e spandere in pubblici spettacoli e in profusion di regali. Ma con tutto il gran cavamento fatto dal suddetto Basso, nè pure un soldo si trovò; e però deluso il misero, altro scampo non ebbe per sottrarsi alle pubbliche beffe, che di togliere colle sue mani a sè stesso la vita. Ma se mancò a Nerone questa pioggia [p. 239 modifica]d'oro, si acquistò egli almeno un’incomparabil gloria in quest’anno, coll’aver fatta una pubblica comparsa nella scena del teatro, dove recitò alcuni suoi versi. Fattagli istanza dal popolazzo di metter fuori la sua abilità anche in altri studii, saltò fuori colla cetra in concorrenza d’altri sonatori, e fece udir delle belle sonate. Strepitosi furono i viva del popolo, la maggior parte per dileggiarlo, mentre i buoni si torcevano tutti al mirar sì fatto obbrobrio della maestà imperiale. E guai a que’ nobili che non vi intervennero: erano tutti messi in nota. Fu in pericolo della vita Vespasiano (poscia imperadore), perchè osservato dormire in occasione di tanta importanza. Conseguita la corona, passò Nerone, secondo Svetonio e Dione5, a far correre, stando in carrozza, i cavalli. Ito poscia a casa6, tutto contento di sì gran plauso, trovò la sola Poppea Augusta sua moglie, che gli disse qualche disgustosa parola. Benchè l’amasse a dismisura, pure le insegnò a tacere con un calcio nella pancia. Essa era gravida, e di questo colpo morì. Donna sì delicata e vana, che tutto dì era davanti allo specchio per abbellirsi; voleva le redini d’oro alle mule della sua carrozza; e teneva cinquecento asine al suo servigio, per lavarsi ogni dì in un bagno formato del loro latte. S’augurava anche piuttosto la morte, che di arrivare ad esser vecchia, e a perdere la bellezza. Opinione è d’insigni letterati7 che nel dì 29 di giugno del presente anno, per comandamento di Nerone, fosse crocifisso in Roma il principe degli Apostoli san Pietro, e che nel medesimo giorno ed anno venisse anche decollato l’Apostolo de’ Gentili san Paolo. Certissima è la loro gloriosa morte e martirio in Roma; ma non sembra egualmente certo il tempo; intorno a che potrà il lettore consultare [p. 240]chi ha maneggiato ex professo cotali materie. Nel pontificato romano a lui succedette s. Lino. Dopo la morte di Poppea, Nerone, perchè Antonia figlia di Claudio Augusto, e sorella di Ottavia sua prima moglie, non volle consentir alle sue nozze, trovò de’ pretesti per farla morire. Quindi sposò Statilia Messalina, vedova di Vestinio Attico console, a cui egli avea dianzi tolta la vita. Certe altre sue bestialità, raccontate da Dione, non si possono raccontar da me. E Tacito aggiunge l’esilio o la morte da lui data ad altri primarii romani, che mai non gli mancavano ragioni per far del male.

  1. Thesaurus Novus Inscription., pag. 305, num. 4.
  2. Tac., Annal., lib. 15, cap. 48 et seq. Dio., lib. 61. Sueton., in Nerone, cap. 36.
  3. Dio., lib. 61.
  4. Tacitus, Annal., lib. 16, cap. 1.
  5. Sueton., in Nerone, cap. 35. Dio., lib. 62.
  6. Tacitus, lib. 16, c. 6.
  7. Baron., in Annal. Blanchinius, ad Anastasium. Pagius, in Critica Baroniana.