Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/64

Anno 64

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Anno di Cristo LXIV. Indizione VII.
Pietro Apostolo papa 36.
Nerone Claudio imperad. 11.


Consoli


Caio Lecanio Basso e Marco Licinio Crasso


Andò in quest’anno Nerone a Napoli1 per vaghezza di far sentire a quei popoli nel pubblico teatro la sua canora voce. Grande adunanza di gente v’intervenne dalle vicine città, per udire un imperadore musico, un usignolo Augusto. Ma occorse un terribile accidente, che nondimeno a niun recò danno. Appena fu uscita tutta la gente ch’esso teatro cadde a terra. Pensava quella vana testa di passar anche in Grecia, e in altre parti di Levante, per raccogliere somiglianti plausi; ma poi si fermò in Benevento, nè andò più oltre, senza che se ne sappia il motivo. Fra questi divertimenti fece accusar Torquato Silano, insigne personaggio, discendente da Augusto per via di donne. Il suo reato era di far troppa spesa per un particolare; ciò indicar disegni di perniciose novità. Prima di essere condannato, egli si tagliò le vene. Tornato a Roma Nerone, volle dare una cena sontuosa nel lago di Agrippa, come ha Tacito. Dione2 scrive ciò fatto nell’anfiteatro, dove, dopo una caccia di fiere, introdusse l’acqua per un combattimento navale; e, dopo averne ritirata l’acqua, diede una battaglia di gladiatori; e finalmente, rimessavi l’acqua, fece la cena. N’ebbe l’incombenza Tigellino. V’erano superbe navi ornate d’oro e d’avorio, con tavole coperte di preziosi tappeti, e all’intorno taverne disposte in gran numero con delicati cibi preparati per ognuno. Canti, suoni dappertutto, ed illuminata ogni parte. Concorso grande di plebe e di nobiltà, tanto uomini che donne, e tutta la razza delle prostitute. Che [p. 231 modifica]Babilonia d’infamità e di lascivie si vedesse ivi, nol tacquero gli antichi, ma non è lecito alla mia penna il ridirlo. A questa abbominevole scena ne tenne dietro un’altra, ma sommamente terribile e funesta3. Attaccossi o fu attaccato nel dì 19 di luglio il fuoco alla parte di Roma, dov’era il Circo Massimo, pieno di botteghe di venditori dell’olio. Spirava un vento gagliardo, che dilatò l’incendio pel piano e per le colline con tal furore, che di quattordici rioni di quella gran città dieci restarono orrida preda delle fiamme, ed appena se ne salvarono quattro. Per così fiera strage di case, di templi, di palazzi, colla perdita di tanti mobili, e preziose rarità ed antichità, accompagnata ancora dalla morte d’assaissime persone, che strida, che urli, che tumulto si provasse allora, più facile è l’immaginarlo che il descriverlo. Per sei giorni durò l’incendio (altri dissero di più), senza poter mai frenare il corso a quel torrente di fuoco. Trovavasi Nerone ad Anzo, allorchè ebbe nuova di sì gran malanno, nè si mosse per restituirsi a Roma, se non quando seppe che le fiamme si accostavano al suo palazzo, e agli orti di Mecenate, fabbriche anch’esse appresso involte nell’indicibil eccidio.

Che quella bestia di Nerone fosse l’autore di sì orrida tragedia, a cui non fu mai veduta una simile in Italia, lo scrivono risolutamente Svetonio e Dione e chi poscia da loro trasse la storia romana. Aggiungono, esser egli venuto a sì diabolica invenzione, perchè Roma abbondante allora di vie strette e torte e di case disordinate, o poveramente fabbricate, si rifacesse poi in miglior forma, e prendesse il nome da lui; e che specialmente egli desiderava di veder per terra molte case e granai pubblici, che gl’impedivano il fabbricare un gran palazzo ideato da lui. Dicono di più, che fur veduti i suoi camerieri con fiaccole e stoppia attaccarvi il fuoco; e che Nerone, [p. 232]in quel mentre stava ad osservar lo scempio, con dire: «Che bella fiamma!» Aggiungono finalmente, ch’egli vestito in abito da scena a suon di cetra cantò la rovina di Troia. Ma fra le tante iniquità di Nerone questa non è certa. Tacito la mette in dubbio; e l’altre suddette particolarità sono bensì in parte toccate da lui, ma con aggiungere che ne corse la voce. Trattandosi di un sì screditato imperadore, conosciuto capace di qualsisia enormità, facil cosa allora fu l’attribuire a lui l’invenzione di sì gran calamità, ed ora è a noi impossibile il discernere se vero o falso ciò fosse. Si applicò tosto Nerone a far alzare gran copia di case di legno, per ricoverarvi tutti i poveri sbandati, facendo venir mobili da Ostia e da altri luoghi; comandò ancora, che si vendesse il frumento a basso prezzo. Quindi stese le sue premure, a far rifabbricare la rovinata città, la quale (non può negarsi) da questa sventura riportò un incredibil vantaggio. Imperciocchè con bel ordine fu a poco a poco rifatta, tirate le strade diritte e larghe, aggiunti i portici alle case, e proibito l’alzar di troppo le fabbriche. Tutta la trabocchevol copia dei rottami venne di tanto in tanto condotta via dalle navi che conducevano grani a Roma, e scaricata nelle paludi di Ostia. Vuole Svetonio che Nerone si caricasse del trasporto di quelle demolizioni, per profittar delle ricchezze che si trovavano in esse rovine; nè vi si potevano accostare se non i deputati da lui. Determinò di sua borsa premii a chiunque entro di un tal termine di tempo avesse alzata una casa o palagio: e del suo edificò ancora i portici. Fece distribuire con più proporzione l’acque condotte per gli acquidotti a Roma, e destinò i siti di esse, per estinguere al bisogno gl’incendii, con altre provvisioni che meritavano gran lode, ma non la conseguirono per la comune credenza che da lui fosse venuto sì orribil malanno. Anch’egli imprese allora la fabbrica del suo nuovo palazzo, che fu mirabil [p. 233 modifica]cosa, e nominato poi la Casa d'oro. Svetonio4 ce ne dà un piccolo abbozzo. Tutto il di dentro era messo a oro, ornato di gemme, intarsiato di madreperle. Sale e camere innumerabili incrostate di marmi fini; portici con tre ordini di colonne che si stendevano un miglio; vigne, boschetti, prati, bagni, peschiere, parchi con ogni sorta di fiere ed animali; un lago di straordinaria grandezza, con corona di fabbriche all’intorno a guisa di una città; davanti al palazzo un colosso alto centoventi piedi, rappresentante Nerone. Allorchè egli vi andò poi ad alloggiare, disse: «Ora sì che quasi comincio ad abitare in un allogio conveniente ad un uomo.» Ma questa sì sontuosa e stupenda mole, con altri vastissimi disegni da lui fatti di sterminati canali, per condur lontano sino a cento sessanta miglia per terra l’acqua del mare, costò ben caro al popolo romano, perciocchè smunto e ridotto al bisogno il prodigo Augusto, passò a mille estorsioni e rapine, confiscando, sotto qualsivoglia pretesto, i beni altrui, imponendo non più uditi dazii e gabelle, ed esigendo contribuzioni rigorose da tutte le città, ed anche dalle libere e collegate; il che fu quasi la rovina delle provincie. Nè ciò bastando, mise mano ai luoghi sacri; estraendone tutti i vasi d’oro e d’argento, e le altre cose preziose. Mandò anche per la Grecia e per l’Asia a spogliar tutti que’ templi delle ricche statue degli stessi dii, e di ogni lor più riguardevole ornamento.

Diede occasione lo spaventoso incendio di Roma alla prima persecuzione degl’imperatori pagani5 contra dei Cristiani. Si era già non solo introdotta, ma largamente diffusa nel popolo romano, per le insinuazioni di s. Pietro Apostolo e de’ suoi discepoli, la religione di Cristo; giacchè non duravano fatica i [p. 234]buoni a conservare la santità ed eccellenza in confronto dell’empia e sozza dei Gentili. Nerone, affin di scaricar sopra d’altri l’odiosità da lui contratta per la comune voce di aver egli stesso incendiata quella gran città, calunniosamente, secondo il suo solito, ne fece accusare i Cristiani, siccome attestano Tertulliano, Eusebio, Lattanzio, Orosio ed altri autori, e fin gli stessi storici pagani Tacito e Svetonio. Scrive esso Tacito, ma non già Svetonio, che furono convinti di aver essi attaccato il fuoco a Roma, quando egli stesso poco dianzi avea attestato che la persuasion comune ne facea autore lo stesso Nerone; e Svetonio e Dione ciò danno per certo. Non era capace di sì enorme misfatto chi seguitava la legge purissima di Gesù Cristo, e massimamente durante il fervore e l’illibatezza dei primi Cristiani. A che fine mai, gente dabbene, e lasciata in pace, avea da cadere in sì mostruoso eccesso? Perciò una gran moltitudine di essi fu con aspri ed inutili tormenti fatta morire sulle croci, o bruciata a lento fuoco, o vestita da fiere, per essere sbranata dai cani. Vi si aggiunse ancora l’inumana invenzione di coprirli di cera, pece e di altre materie combustibili, e di farli servir di notte, come tanti doppieri della crudeltà, negli orti stessi di Nerone. Così cominciò Roma ad essere bagnata dal sacro sangue de’ martiri. Confessa nondimeno il medesimo Tacito, che gran compassione produsse un così fiero macello di gente, tuttochè, secondo lui, colpevole per una religione contraria al culto dei falsi dii. In questi tempi avendo ordinato Nerone che l’armata navale tornasse al porto di Miseno, fu essa sorpresa da così impetuosa burrasca, che la maggior parte delle galee e di altre navi minori s’andò a fracassare nei lidi di Cuma.

  1. Tacitus, Annal., lib. 15, cap. 33.
  2. Dio., lib. 61.
  3. Tacit., Annal. lib. 15, c. 38. Dio., lib. 61. Suet. in Ner., c. 38.
  4. Sueton., in Nerone, c. 31 et 32. Tacitus, Annal., lib. 14, cap. 42 et seqq.
  5. Sueton., in Neron., c. 16. Tacit., lib. 15, c. 42 et seqq.