Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/62
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Anno di | Cristo LXII. Indizione V. Pietro Apostolo papa 34. Nerone Claudio imperad. 9. |
Consoli
Publio Mario Celso e Lucio Asinio Gallo
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Perchè Tacito sul principio di questo anno nomina Giunio Marullo, console designato, il quale poi non apparisce console, perciò possiam credere ch’egli fosse sostituito ad alcun d’essi consoli ordinari, oppure all’uno degli straordinari, succeduti nelle calende di luglio, i quali si tiene che fossero Lucio Anneo Seneca maestro di Nerone, e Trebellio Massimo. Nel gennaio dell’anno presente1 accusato fu e convinto Antistio Sosiano pretore, d’aver composto dei versi contro l’onor di Nerone. I senatori più vili, fra’ quali Aulo Vitellio, che fu poi imperadore, conchiusero dovuta la pena della morte a questo reato. Non osavano aprir bocca gli altri. Il solo Peto Trasea ruppe il silenzio, sostenendo che bastava relegarlo in un’isola, e confiscargli i beni, nel qual parere venne il resto dei senatori. Nondimeno fu creduto meglio di udir prima il sentimento di Nerone, il quale mostrò bensì molto risentimento contra d’Antistio, eppur si rimise al senato, con facoltà ancora di assolverlo. Si eseguì la sentenza del bando. In quest’anno ancora il suddetto Trasea, uomo di petto, e rivolto sempre al pubblico bene, propose che si proibisse ai popoli delle provincie il mandare i lor deputati a Roma, per far l’elogio dei loro governatori; perchè questo onore sel procuravano i magistrati colla troppa indulgenza, e col permettere ai popoli delle indebite licenze, per non disgustarli. L’ultimo anno fu questo della vita di Burro prefetto del pretorio, uomo d’onore e di petto, che avea finquì trattenuto Nerone dall’abbandonarsi affatto ai suoi capricci, e massimamente alla crudeltà. Restò in dubbio s’egli morisse, di mal naturale, oppure di veleno, per quanto ne scrive Tacito2; poichè, per conto di Svetonio3 e di Dione4, amendue crederono che Nerone, rincrescendogli ormai d’aver un soprastante che non si accordava con tutti i suoi voleri, il facesse prima del tempo sloggiar dal mondo. Gran perdita fece in lui il pubblico, e molto più, perchè Nerone in vece d’uno [p. 224]creò due altri prefetti del pretorio, cioè Fenio Rufo, uomo dabbene, ma capace di far poco bene per la sua pigrizia, e Sofonio Tigellino, uomo screditato per tutt’i versi, ma carissimo per la somiglianza de’ depravati costumi a Nerone. Con questo iniquo favorito cominciò Nerone ad andare a vele gonfie verso la tirannia e pazzia. Allora fu, che Seneca conobbe che non era più luogo per lui presso di un principe, il quale si lascerebbe da lì innanzi condurre dai consigli de’ cattivi, e già cominciava a dimostrar poca confidenza a lui. Il pregò dunque di buona licenza, per ritirarsi a finir quietamente i suoi giorni, con offerirgli ancora tutto il capitale de’ beni a lui finquì pervenuti o per la munificenza del principe, o per industria propria5. Nerone con bella grazia gliela negò, ed accompagnò la negativa con tenere espressioni d’affetto e di gratitudine, giungendo sino a dirgli di desiderar egli piuttosto la morte, che di far mai alcun torto ad un uomo, a cui si professava cotanto obbligato. Quel che potè dal suo canto Seneca, giacchè non si fidava di sì belle parole; fu di ricusar da lì innanzi le visite, di non volere corteggio nell’uscire di casa; il che era anche di rado, fingendosi mal concio di salute, ed occupato da’ suoi studi. Si ridusse ancora a cibarsi di solo pane ed acqua e di poche frutta, o per sobrietà o per paura del veleno.
Già dicemmo, che Ottavia figliuola di Claudio Augusto, e moglie di Nerone, era per la sua saviezza e pazienza un’adorabile principessa; ma non già agli occhi di Nerone, troppo diverso da lei d’inclinazione e di costumi. Certamente egli non ebbe mai buon cuore per lei, e dacchè introdusse in corte Poppea Sabina, cominciò anche ad odiarla6 per le continue batterie di quell’impudica, che non potea stabilire la sua fortuna se non sulle rovine d’Ottavia. Tanto disse, tanto fece questa maga che in quest’anno, col pretesto della sterilità di essa Ottavia, Nerone la ripudiò, e da lì a pochi dì arrivò Poppea all’intento suo di essere sposata da lui. Nondimeno qui non finì la guerra. Poppea, sovvertito uno de’ familiari di Ottavia, la fece accusar di un illecito commercio con un suonatore di flauto, nominato Eucero. Furono perciò messe ai tormenti le di lei damigelle, ed estorta da alcune con sì violento412 mezzo la confession del fallo; ma altre sostennero con coraggio l’innocenza della padrona, e dissero delle villanie a Tigellino, ministro non meno di questa crudeltà, che della morte data poco innanzi a Silla e a Rubellio Plauto già mandati da Nerone in esilio. Fu relegata Ottavia nella Campania, e messe guardie alla di lei casa, per tenerla ristretta. Ma perciocchè il popolo, che amava forte questa buona principessa, apertamente mormorava di sì aspro trattamento, la fece Nerone ritornare a Roma. Pel suo ritorno andò all’eccesso la gioia del popolo, perchè, ruppe le statue alzate in onor di Poppea, e coronò di fiori quelle di Ottavia, con altre pazzie d’allegria sediziosa; di che diede motivo a Poppea di caricar la mano contra dell’odiata principessa, persuadendo a Nerone che il di lei credito era sufficiente a rovesciare il suo trono. Fu perciò chiamato a corte l’indegno Aniceto, che già avea tolta di vita Agrippina, acciocchè servisse ancora ad abbattere Ottavia, col fingere d’aver tenuta disonesta pratica con lei. Perchè gli fu minacciata la morte, se ricusava di farlo, ubbidì. Promossa l’infame accusa colla giunta d’altre inventate dal maligno principe di aborto procurato, di ribellioni macchinate, l’infelice principessa, in età di soli ventidue anni, venne relegata nell’isola Pandalaria, dove passato poco tempo Nerone le fece levar la vita, e portar anche il suo capo a Roma, acciocchè l’indegna Poppea s’accertasse della verità del suo crudel trionfo. Di tante iniquità commesse da Nerone, forse [p. 226]niuna riuscì cotanto sensibile al popolo romano, come il miserabil fine d’una sì saggia ed amata principessa, la quale portava anche il titolo di Augusta, e massimamente al vederla condannata per così patenti ed indegne calunnie. La ricompensa ch’ebbe Aniceto dell’indegna sua ubbidienza, fu di essere relegato in Sardegna, dove ben trattato terminò poscia con suo comodo la vita. Pallante, già potentissimo liberto sotto Claudio, morì in quest’anno, e fu creduto per veleno datogli da Nerone, affin di metter le griffe sopra le immense di lui ricchezze.