Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/40
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Anno di | Cristo XL. Indizione XIII. Pietro Apostolo papa 12 Cajo Caligola imperadore 4. |
Consoli
Cajo Cesare Caligola Augusto per la terza volta.
Solo fu console ad aprir l’anno Cajo Caligola, non già perchè egli non avesse nominato il collega; ma perchè, come abbiamo da Svetonio e da Dione1, il console designato morì nell’ultimo dì del precedente anno, nè vi restò tempo da provvedere. Si ritrovarono imbrogliati i senatori per non esservi in Roma capo alcuno del senato, nè si attentavano i pretori a convocare esso senato, benchè loro appartenesse tale officio nell’assenza e mancanza de’ consoli. Contuttociò da loro stessi salirono nelle calende di gennajo al Campidoglio, e quivi fecero i sacrifizii; posta anche la sedia di Caligola nel tempio, l’adorarono; e, come s’egli fosse stato presente, gli fecero l’offerta dei doni che in testimonianza del loro amore avea introdotto Augusto. Tiberio poi la dismise, e Caligola per avarizia la rinnovò. Null’altro osarono di fare in quel dì i senatori, se non di caricar di lodi l’imperadore, e di augurargli delle immense prosperità. Si contennero anche nei dì seguenti, finchè arrivò l’avviso, che Caligola giunto a Lione avea dimesso il consolato nel dì 12 di gennajo. Allora entrarono nella dignità i due consoli sostituiti. Dione li lasciò nella penna. Secondo le conghietture d’alcuni eruditi questi furono Lucio Gellio Poblicola e Marco Coccejo Nerva; ma non è cosa esente da dubbii; e molto meno che nelle calende di luglio fossero sostituiti Sesto Giulio Celere e Sesto Nonio Quintiliano, come altri han creduto. In Lione, siccome accennai, si ritrovò Caligola nelle [p. 132]calende di gennajo2, e probabilmente allora per onorare il suo consolato, celebrò quivi gli spettacoli mentovati da Svetonio e da Dione. Furono vari, ma non vi mancò quella della gara nell’eloquenza greca e latina, giuoco solito a farsi in quella città alla statua d’Augusto. Chi era vinto pagava il premio ai vincitori, ed era tenuto a fare un componimento in lor lode. Coloro poi, che in vece di piacere dispiacevano, doveano colla lingua, o con una spugna cancellare il loro scritto, se pur non eleggevano d’essere sferzati dai discepoli, ovvero tuffati nel fiume vicino. Era tuttavia Cajo in Lione, quando arrivò colà chiamato da lui Tolomeo re, figliuolo di Giuba già re delle due Mauritanie, e suo cugino. Fu onorevolmente ricevuto. Ma o sia ch’egli entrato nel teatro per ragione del grande sfarzo recasse gelosia al luminare maggiore, o pure che Cajo, informato delle molte di lui ricchezze, le volesse far sue: fuor di dubbio è, che il mandò in esilio, e poscia (forse nel cammino) con somma perfidia il fece ammazzare: iniquità, per cui i suoi sudditi si ribellarono dipoi al romano imperio. Anche Mitridate re dell’Armenia in altro tempo fu da lui mandato in esilio, ma non ucciso. Poscia, prima di ritornare in Italia, volle Caligola coronar tante sue gloriose imprese con un’azione magnifica3. Sul lido dell’Oceano per ordine suo andò tutto il suo esercito ad accamparsi con gran copia di macchine e d’attrezzi militari, ed egli imbarcatosi in una galea, per mare arrivò colà. Ognun si aspettava che egli pensasse portar la guerra nella Bretagna: e forse ne avea formato il disegno: quand’ecco smontato egli di nave, salì sopra un alto trono, fece ordinare in battaglia tutte le schiere, e sonar le trombe, dare il segno della zuffa, come se fosse vicino un gran combattimento, senza vedersi intanto nemico alcuno. Poscia tutto ad un punto ordinò ai soldati di raccogliere sul lido quante conchiglie o nicchi potessero nelle celate e nel seno, chiamandole spoglie dell’Oceano da portarsi a Roma, e da mettersi nel Campidoglio. In memoria di questa sua segnalata vittoria fece fabbricare ivi un’alta torre. Vennegli anche in testa prima di partirsi dalla Gallia, di far tagliare a pezzi le legioni che si rivoltarono molti anni addietro contra di Germanico suo padre, ed assediarono anche lui stesso fanciullo. Tanto gli dissero i suoi consiglieri, che depose così matta e crudel voglia; non poterono però tanto, ch’egli non persistesse nel volere almen decimare que’ soldati. Feceli per tanto raunar tutti senz’armi e senza spada, ed attorniare dalla cavalleria; ma accortosi che molti d’essi dubitando di qualche insulto, correano a prendere l’armi, fu ben presto a levarsi di là, ed affrettare il suo ritorno in Italia.
Venne egli, ma pieno di mal talento, contro al senato. Si trovavano stranamente imbrogliati i senatori, per non sapere come regolarsi con un sì fantastico e pazzo imperadore4. Se gli decretavano onori straordinari per la sua pretesa vittoria de’ Germani e Britanni, temevano del male, quasi che il beffassero; e non decretandone alcuno, o pochi a misura dei di lui desiderii, ne temevano altrettanto. Egli inoltre avea scritto di non volere onori; e pur da lì a non molto tornò a scrivere, lamentandosi che l’aveano defraudato del trionfo a lui dovuto. Ed avendogli il senato inviato all’incontro un’ambasceria, sollecitandolo a venire a Roma: Verrò, verrò, rispose, e con questa, tenendo la mano sul pomo della spada. Fece anche pubblicamente sapere a Roma, ch’egli ritornava, ma solamente per coloro che desideravano il suo arrivo, cioè per l’ordine equestre e popolo, perchè quanto a sè non si terrebbe più per cittadino nè per principe del senato. Nè dipoi volle che alcun de’ senatori venisse [p. 134]ad incontrarlo. O rifiutato o differito il trionfo, si contentò dell’ovazione: col qual onore entrò in Roma nel dì 31 d’agosto, giorno suo natalizio, conducendo seco per pompa que’ pochi prigionieri disertori tedeschi che potè avere, a’ quali unì una mano d’uomini d’alta statura, raccolti nella Gallia, e fatti tosare e vestire alla tedesca. Menò ancora, e buona parte per terra, le galee che l’aveano servito nella ridicolosa spedizione contra della gran Bretagna5. Gittò poi in questa occasione dall’alto della basilica giulia gran quantità d’oro e d’argento, e nella folla molti vi perirono. Dopo tal solennità comandò che fosse ucciso Cassio Betulino, e volle che Capitone di lui padre assistesse a sì funesto spettacolo; e perchè questi osò di chiedergli, se permetteva a lui la vita, a lui ancora la levò. Rappacificossi poi col senato per un accidente. Entrato nella curia Protogene, corsero tutti i senatori a complimentarlo, e a toccargli, secondo il costume, la mano. Fra gli altri essendosi a lui presentato Scribonio Proculo uno d’essi, Protogene, ministro della crudeltà di Cajo, guatandolo con occhio torvo: E tu ancora, disse, hai ardire di salutarmi; tu che cotanto odii l’imperatore? Allora i senatori si scagliarono addosso all’infelice, come ad un mostro e nemico pubblico; e con gli stiletti da scrivere, che ognuno portava addosso, tante gliene diedero, che lo stesero morto a terra. Il suo corpo fatto in brani fu poi strascinato per la città. Questo atto de’ senatori, e l’aver eglino decretato6 che l’imperadore avesse da sedere in un sì alto tribunale, che niuno potesse arrivarvi, e tener ivi le guardie, e che si mettessero anche dei soldati alle di lui statue; cagion fu, ch’egli si ammollì e perdonò a quell’augusto ordine: e similmente mostrò piacere, che i senatori più che mai l’adulassero, chi dandogli il titolo d’eroe, e chi di dio; il che servì a maggiormente farlo impazzire. Gran tempo era, che questa legger testa si riputava più che uomo, ed ambiva gli onori divini. Già avea comandato che in Mileto, città dell’Asia, si fabbricasse un tempio in onor suo. Un altro ancora se ne fece alzare in Roma; e si trovarono intieri popoli, e massimamente gli Alessandrini, che a questa ridicolosa divinità davano gl’incensi. Perchè i Giudei, divoti del solo vero Dio, non vollero consentire a tanta empietà, patirono di molti guai, e meraviglia fu che non gli sterminasse tutti. Le pazzie che fece Cajo, per sostenere questa sua vana opinione di deità, raccontate da Dione, sono innumerabili. Sulle prime si pareggiava ai semidei, vestendosi talora, come Ercole, Bacco ed altri simili. Passò ad uguagliarsi agli dii, e a gareggiar con Giove stesso. Al vederlo un dì assiso sul trono in abito di Giove, un ciabattino nativo della Gallia non potè contenere le risa. Avvedutosene Cajo, e chiamatolo, gli domandò chi credeva egli che fosse: Un gran pazzo, con gran sincerità rispose il buon uomo. E pur Cajo, che per tanto meno avrebbe fatto morire un intero senato, male non fece a costui, perchè più sopportava la libertà dei plebei che dei grandi. La via che tenne Lucio Vitellio, padre dell’altro che fu imperadore, per salvare la propria vita, fu la seguente. Richiamato egli in quest’anno dalla Soria, nel cui governo come proconsole s’era acquistato non poco onore, con ripulsare Artabano re de’ Parti, venne a Roma. Cajo, parte per invidia alla di lui gloria, parte per paura di un personaggio sì generoso, avea già fissata la di lui morte. Subodorato questo suo pericolo7, Vitellio prese il ripiego dell’adulazione e d’impazzire coi pazzi; e presentatosi davanti a lui con abito vile, e col capo velato, come si faceva ai falsi dii, se gli prostrò a’ piedi con dirotte lagrime, dicendo, che non v’era altri che un Dio [p. 136]par suo capace di perdonargli, promettendo di fargli de’ sagrifizii se potea conseguir la sua grazia. Non solamente Caligola gli perdonò, ma il tenne da lì innanzi per uno de’ suoi principali amici. E Vitellio trovata così utile l’adulazione, continuò poi sotto Claudio Augusto a valersene con perpetua infamia del suo nome. Intanto non mancarono a Roma altri spettacoli della pazza crudeltà di Caligola, accennati da Dione e da Svetonio, non potendosi abbastanza esprimere a quante metamorfosi fosse suggetto quel cervello bisbetico, volendo oggi una cosa, domani il contrario; ora amando ed ora odiando le medesime persone; prodigo insieme ed avaro; sprezzator de’ suoi dii, e un coniglio, qualora udiva il tuono; talora perdonando i gran falli, ed altre volte gastigando colla morte i minimi; e così discorrendo; tutti caratteri d’uomo a cui s’era intorbidato più d’un poco il cervello. Fu anche creduto, che Cesonia sua moglie con dargli una bevanda amatoria l’avesse conciato così. La qual poscia fra le carezze che le faceva il consorte, ne sentiva anche ella delle belle: imperocchè baciandole il collo, più volte Cajo le dicea: Oh che bel collo, che subito che me ne venga talento sarà tagliato! Ma sopra tutto tenne egli saldo il costume di far morire chi de’ grandi non gli mostrava assai affetto: con avere sempre in bocca il detto di Azzio tragico poeta: Oderint, dum metuant. Mi odiino quanto vogliono, purchè mi temano. Un simile tirannico motto fu in uso a Tiberio8.