Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/39

Anno 39

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Anno di Cristo xxxix. Indizione xii.
Pietro Apostolo papa 11
Cajo Caligola imperadore 3.


Consoli



Solamente per tutto il gennaio tenne Caligola il consolato1, e nelle calende di febbraio, per attestato di Dione2, rinunziò la dignità a Marco Sanquinio Massimo, che era stato console un’altra volta. Continuò Apronio Cesiano nell’uffizio sino alla fine di giugno, per testimonianza [p. 124]del medesimo storico, e nelle susseguenti calende dicono che gli fu sostituito Gneo Domizio Corbulone. Così il padre Stampa3 ed altri, negando la sostituzione d’altri consoli. Ma Dione scrive, che incolpati da Caio i consoli, per non aver intimate le ferie pel suo giorno natalizio, e per aver solennizzata la vittoria d’Augusto contra di Marco Antonio, furono in quello stesso dì, cioè del suo natale, degradati, con rompere i loro fasci: ignominia tale, che l’un di essi consoli si uccise di poi da sè stesso. Aggiugne che allora succedette nel consolato Domizio Africano. Secondo Svetonio4, Cajo Caligola nacque nel dì 31 d’agosto; e però in quel dì succedette la mutazion de’ consoli, e Domizio Africano eletto console da Caligola, tenne il consolato sino al fine dell’anno. Domitium Afrum Collegam Cajus ipse sibi re, verbo Populus elegit. Certo è, essere stati due personaggi diversi Domizio Corbulone e Domizio Africano, come si ricava da Tacito5 che li nomina amendue. Dione anch’egli parla di essi sotto l’anno presente, con dire che Domizio Corbulone si guadagnò il consolato con far dei processi, e poscia aggiugne che anche Domizio Africano fu creato console. Quel solo che resta scuro, si è, qual dei due consoli deposti si troncasse il filo della vita; perciocchè tanto Sanquinio Massimo, quanto Corbulone sembra che vivessero alcuni anni ancora, se pur di amendue parla Tacito negli Annali6. Cajo nell’anno presente levò di nuovo al popolo il diritto dei Comizii, perchè ne seguiva dell’imbroglio, e lo restituì al senato. Era per altre cagioni in collera contro d’esso popolo, perchè sapea d’esserne odiato; vedea che scarso era il loro concorso agli spettacoli; e più volte intese che aveano levato rumore contro [p. 125 modifica]le spie e gli accusatori. Però molti di quando in quando ne fece ammazzare, e si augurava che un solo collo avesse tutto il popolo romano per poterlo tagliare con un sol colpo. Nel medesimo tempo andava crescendo la di lui crudeltà anche verso i nobili e i ricchi, trovandosi con facilità dei pretesti per farli accusare e condannare a fine di mettere le griffe sopra le loro ricchezze e beni. Di Calvisio Sabino senatore, di Prisco pretore e d’altri parla Dione, con aggiungere che tutto il senato e popolo all’udirlo un dì lodar Tiberio, e minacciar tutti, rimasero sbalorditi e tremanti; e la conciarono per allora con delle adulazioni e lodi eccessive. Domizio Africano, del cui consolato poco fa s’è ragionato, seppe anch’egli con ripiego di fina accortezza schivar la mala ventura. Credendo costui d’acquistarsi un gran merito, avea esposta una statua di Caligola, con dire nell’iscrizione ch’esso Augusto in età di ventisette anni era giunto ad essere console due volte. Prese Caligola con quella sua testa sventata al rovescio l’espressione, parendogli fatto un rimprovero a sè stesso per la sua età, e per le leggi che non permetteano in sì poco tempo tali onori. Però considerando che uomo accreditato nell’eloquenza del foro fosse Domizio, composta un’orazione con molto studio volle egli stesso accusarlo in senato. L’accorto Domizio, finita ch’egli ebbe la diceria, senza mettersi a difendere sè stesso, si mostrò solamente stupefatto per la forza e bellezza dell’orazione di Caio, con rilevarne tutti i passi più luminosi e lodarli. Richiesto poi di difendersi, se potea, rispose d’essere vinto da così forte eloquenza, ed altro non restargli, se non di ricorrere alla clemenza di Cesare; e, in così dire, se gli gittò supplichevole ai piedi, implorando misericordia. Caio gonfio per aver superato un oratore di tanto nome, gli perdonò il resto, ed in appresso il creò console.

Ma non meno della crudeltà cresceva [p. 126]in lui anche la frenesia o pazzia, profondendo sempre più a sproposito immenso danaro negli spettacoli7. Egli stesso sulla carretta talvolta andò nel circo a gareggiar nella corsa coi plebei professori; e guai a quegli uomini e cavalli che gli andavano innanzi. Fra gli altri ebbe un cavallo prediletto, a cui avea posto il nome d’Incitato. Lo tenea seco a tavola, dandogli biada in vasi d’oro, e in bicchieroni d’oro del vino. Forse fu una burla il dirsi che egli avea anche promesso di crearlo console un dì; e che l’avrebbe fatto, se fosse vivuto più tempo. Poca gloria a questo forsennato regnante pareva il passeggiar per terra a cavallo. Volle far vedere ai Romani, che gli dava l’animo di cavalcar sopra il mare. Fece dunque fabbricar un ponte in un seno di esso mare fra Baja e Pozzuolo, lungo da tre miglia e mezzo con due file di navi da carico, fermate con ancore, e fatte venir anche da lontano8: il che poi cagionò una gran carestia in Roma e nell’Italia. Sopra vi fu fatto un piano di terra con varie case ben provvedute d’acqua dolce. Per questo ponte fabbricato con immensa spesa, un dì montato sopra un superbo cavallo, armato colla corazza riputata di Alessandro Magno, e con sopravvesta ornata d’oro e di gemme, spada al fianco, e scudo imbracciato e con corona di quercia in capo, marciò l’intrepido imperadore con tutta la sua corte da Baja a Pozzuolo, quasichè andasse ad assalire un’armata nemica; e come se fosse stanco per una data battaglia, si riposò poi in quella città. Nel seguente giorno salito sopra un carro tirato dai suoi più superbi destrieri, con Dario avanti, uno degli ostaggi dei Parti, seguitato da essa sua corte tutta in gala, e da alcune schiere di pretoriani, ripassò di nuovo sul medesimo ponte; in mezzo al quale alzato un tribunale, arringò, come se avesse conseguita qualche gran vittoria, lodando i soldati, quasi [p. 127 modifica]che fossero usciti di pericolo, gloriandosi sopra tutto di aver calpestato coi piedi il mare. Dato poscia un congiario o sia regalo al popolo, egli coi cortigiani sul ponte, e gli altri in varie navi, passarono il rimanente del giorno e la notte in gozzoviglie e in ubbriacarsi, essendo tutto il ponte colla collina d’intorno illuminato da fiaccole, fuochi ed altri lumi, talmente che la notte non invidiava al giorno. Nel calore del vino e dell’allegria molti furono gittati per divertimento in mare, e molti ve ne gittò lo stesso Caio, dei quali perirono alcuni. Così terminò la gran funzione, con vantarsi il prode Augusto di aver messo terrore al mare, e con ridersi di Dario e di Serse, per aver egli domato il mare per un tratto più lungo. Le immense spese fatte in quest’azion da teatro, incitarono dipoi lo smunto Augusto a far danari per tutte le vie, e massimamente colle condanne dei benestanti. Fra questi uno fu il celebre filosofo Lucio Anneo Seneca, tenuto pel più saggio di Roma, che corse gran pericolo, non già per qualche suo delitto, ma solamente per aver trattata con vigore nel senato una causa alla presenza dello stesso Caligola, che se l’ebbe a male, o perchè proteggesse co’ desiderii quella causa, o perchè gli spiacesse chi era più eloquente di lui. Il fece dunque condannare; ma il lasciò poi vivere per avere inteso da una donnicciuola di corte, che questo filosofo era tisico e poco potea campare.

Prese susseguentemente Caligola all’improvviso la risoluzione di passar nella Gallia, col pretesto della guerra non mai bene estinta coi Germani; ma veramente per far bottino addosso alle provincie romane, ed insieme per dar a conoscere l’insigne suo valore e potenza ai Barbari, dopo averne data una sì bella lezione al mare stesso. Dovette accadere la sua partenza negli ultimi mesi di questo anno. Fu detto, che raunò dugentomila, ed altri anche scrissero dugento cinquantamila armati. Direste ch’egli [p. 128]sicuramente subbissò con tante forze la Germania. Andò a finire anche questo formidabil apparato in una scena comica. Appena ebbe passato il Reno, che marciando in carrozza in mezzo all’esercito per dei passi stretti, gli fu detto che sorgerebbe ivi della confusione se i nemici venissero ad assalire i Romani. Bastò questo, perchè egli salito a cavallo, con fretta se ne tornasse al ponte del Reno, e trovatolo impedito dalle carrette dei bagagli, si facesse portar di là sulle spalle dagli uomini, non parendogli mai d’essere in sicuro dai Germani, finchè non ebbe la barriera del Reno davanti. In quella ridicolosa spedizione fece un dì nascondere alcuni Tedeschi della sua guardia di là da esso Reno, acciocchè nel tempo del desinare gli fosse portata la nuova che il nemico veniva. Allora saltato su da tavola, colle milizie corse contra quelle sognate truppe, e giunto in un bosco vi spese il resto del giorno a far tagliare degli alberi, per innalzarvi de’ trofei dell’oste nemica da lui messa in fuga, confortando intanto alla tolleranza le legioni colla speranza di menar meglio le mani un’altra volta. Ed intanto scrivea lettere di fuoco al senato, perchè in Roma si faceano dei conviti ed altri divertimenti, mentre egli si trovava in mezzo ai pericoli della guerra. Venne in questi tempi a mettersi sotto la di lui protezione con pochi de’ suoi Adminio figliuolo d’uno dei re della gran Bretagna, cacciato dal padre. Come s’egli avesse conquistata la Bretagna, spedì tosto corrieri a Roma con lettere laureate, ed ordine ad essi di presentarsi sol quando il senato fosse adunato nel tempio di Marte, e di consegnar le lettere in mano dei consoli. Fecesi anco proclamar imperadore per la settima volta, quasichè egli avesse riportata qualche vittoria, quando neppur uno dei Germani provò se erano ben affilate le spade romane. Queste furono le bravure e conquiste del buffonesco imperadore, che diedero da ridere a tutti, e specialmente [p. 129 modifica]agli stessi Germani, i quali s’avvidero per tempo della di lui vanità e paura, nè ebbero più apprensione alcuna di lui. Il tempo preciso di queste sue ridicolose prodezze non è assegnato dagli antichi scrittori.

Diedero per lo contrario da piagnere alla Gallia le inaudite sue estorsioni per far danaro. Non contento dei regali che gli portavano i deputati delle città, si applicò a far morire i più ricchi di quelle contrade sotto diversi pretesti; occupando le lor terre, e vendendole dipoi anche per forza a chi non ne avea voglia, ed era obbligato a pagarle molto più che non valevano. Trovandosi un giorno al giuoco, gli fu detto che mancava il danaro. Fecesi tosto portare i catasti dei beni della Gallia, comandò che i meglio possidenti fossero privati di vita; rivoltosi poi agli altri giocatori, disse: «Voi giuocate di poco; ma io giuoco a guadagnar sei milioni.» Profuse bensì un gran danaro in regalar le milizie, ma insieme cassò molti uffiziali; ad altri assaissimi negò la promozione dovuta; e a gran copia di soldati per capricciose ragioni fece levar la vita. Soprattutto risonò la morte da lui data a due dei suoi principali magistrati. L’uno fu Gneo Lentolo Getulico della primaria nobiltà romana, che per dieci anni avea tenuto il governo dell’armi della Germania. Perchè egli, secondo il sentimento di Dione, s’era guadagnata la benevolenza de’ soldati, questo fu il gran delitto per cui Caligola il tolse dal mondo. Ma probabilmente anch’egli fu incolpato, come mischiato in una congiura tramata contra d’esso Augusto da Marco Emilio Lepido, non so se vera o falsa. Svetonio la dà per vera. Aveva Cajo condotte seco nel viaggio le sue sorelle Agrippina e Livilla, disonestamente amate da lui, e prostituite anche da altri. Lepido era loro parente, sì per essere figliuolo di Giulia nipote d’Augusto e sorella d’Agrippina lor madre, e sì per essere stato marito di Drusilla, loro sorella. La confidenza che [p. 130]passava fra essi a cagion della parentela, degenerò facilmente in un infame commercio, cosa non rara fra i Pagani, seguaci di una falsa e sporca religione. Sapendo le sorelle, quanto fosse odiato il fratello, ed aspirando spezialmente l’ambiziosa Agrippina a divenir imperadrice, macchinarono tutti e tre contra di Caligola, perchè Lepido si prometteva di succedergli. Scoperta la trama, Lepido la pagò con la vita; ed Agrippina e Livilla furono relegate nell’isola di Ponza, con aver anche Cajo obbligata Agrippina a portare a Roma le ceneri del drudo in un’urna. Disse che oltre alle isole egli avea per loro anche delle spade. Scrisse poscia al senato di avere scappato quella pericolosa burrasca, e mandò a Roma i biglietti che attestavano l’impudica lor vita, e la lor lega coi congiurati, e tre pugnali inoltre destinati a torgli la vita, con ordine di consecrarli a Marte vendicatore9. Fece da lì a poco venir nella Gallia tutti gli ornamenti e le suppellettili, gli schiavi, ed anche i liberti delle sorelle per ricavarne danaro (perchè spesso lo scialacquatore ne scarseggiava), e trovato che li vendea ben cari, nella maniera nondimeno che dissi da lui praticata: comandò tosto, che fossero condotte da Roma anche tutte le più belle e preziose masserizie del palazzo imperiale, prendendo per forza tutte le carrette e cavalli che si trovavano per le pubbliche strade, affin di condurle, non senza grave danno e lamento dei popoli. Tutto ancora vendè come all’incanto nella Gallia, e carissimo, perchè volea che si pagasse anche il fumo, con aver messo de’ biglietti sopra cadaun di que’ mobili; in uno d’essi dicea: «Questo fu di mio padre; quest’altro di mio nonno e di mia madre; quest’era di Marc’Antonio in Egitto; questo lo guadagnò Augusto in una tal vittoria;» e così discorrendo. Tutto il danaro poi si dissipò in breve tra le paghe e i regali dei soldati, ed alcuni spettacoli ch’egli volle dar in Lione prima [p. 131 modifica]del suo ritorno, succeduto nell’anno seguente.


Anno di Cristo XL. Indizione XIII.
Pietro Apostolo papa 12
Cajo Caligola imperadore 4.


Consoli


Cajo Cesare Caligola Augusto per la terza volta.


Solo fu console ad aprir l’anno Cajo Caligola, non già perchè egli non avesse nominato il collega; ma perchè, come abbiamo da Svetonio e da Dione10, il console designato morì nell’ultimo dì del precedente anno, nè vi restò tempo da provvedere. Si ritrovarono imbrogliati i senatori per non esservi in Roma capo alcuno del senato, nè si attentavano i pretori a convocare esso senato, benchè loro appartenesse tale officio nell’assenza e mancanza de’ consoli. Contuttociò da loro stessi salirono nelle calende di gennajo al Campidoglio, e quivi fecero i sacrifizii; posta anche la sedia di Caligola nel tempio, l’adorarono; e, come s’egli fosse stato presente, gli fecero l’offerta dei doni che in testimonianza del loro amore avea introdotto Augusto. Tiberio poi la dismise, e Caligola per avarizia la rinnovò. Null’altro osarono di fare in quel dì i senatori, se non di caricar di lodi l’imperadore, e di augurargli delle immense prosperità. Si contennero anche nei dì seguenti, finchè arrivò l’avviso, che Caligola giunto a Lione avea dimesso il consolato nel dì 12 di gennajo. Allora entrarono nella dignità i due consoli sostituiti. Dione li lasciò nella penna. Secondo le conghietture d’alcuni eruditi questi furono Lucio Gellio Poblicola e Marco Coccejo Nerva; ma non è cosa esente da dubbii; e molto meno che nelle calende di luglio fossero sostituiti Sesto Giulio Celere e Sesto Nonio Quintiliano, come altri han creduto. In Lione, siccome accennai, si ritrovò Caligola nelle [p. 132]calende di gennajo11, e probabilmente allora per onorare il suo consolato, celebrò quivi gli spettacoli mentovati da Svetonio e da Dione. Furono vari, ma non vi mancò quella della gara nell’eloquenza greca e latina, giuoco solito a farsi in quella città alla statua d’Augusto. Chi era vinto pagava il premio ai vincitori, ed era tenuto a fare un componimento in lor lode. Coloro poi, che in vece di piacere dispiacevano, doveano colla lingua, o con una spugna cancellare il loro scritto, se pur non eleggevano d’essere sferzati dai discepoli, ovvero tuffati nel fiume vicino. Era tuttavia Cajo in Lione, quando arrivò colà chiamato da lui Tolomeo re, figliuolo di Giuba già re delle due Mauritanie, e suo cugino. Fu onorevolmente ricevuto. Ma o sia ch’egli entrato nel teatro per ragione del grande sfarzo recasse gelosia al luminare maggiore, o pure che Cajo, informato delle molte di lui ricchezze, le volesse far sue: fuor di dubbio è, che il mandò in esilio, e poscia (forse nel cammino) con somma perfidia il fece ammazzare: iniquità, per cui i suoi sudditi si ribellarono dipoi al romano imperio. Anche Mitridate re dell’Armenia in altro tempo fu da lui mandato in esilio, ma non ucciso. Poscia, prima di ritornare in Italia, volle Caligola coronar tante sue gloriose imprese con un’azione magnifica12. Sul lido dell’Oceano per ordine suo andò tutto il suo esercito ad accamparsi con gran copia di macchine e d’attrezzi militari, ed egli imbarcatosi in una galea, per mare arrivò colà. Ognun si aspettava che egli pensasse portar la guerra nella Bretagna: e forse ne avea formato il disegno: quand’ecco smontato egli di nave, salì sopra un alto trono, fece ordinare in battaglia tutte le schiere, e sonar le trombe, dare il segno della zuffa, come se fosse vicino un gran combattimento, senza vedersi intanto nemico


Note

  1. Sueton., in Cajo, cap. 17.
  2. Dio., lib. 59.
  3. Stampa Continuat. Fastor. Sigonius et alii.
  4. Sueton., in Cajo, c. 8.
  5. Tacitus, Annal., lib. 3, cap. 33, et lib. 4, c. 52.
  6. Tacitus, Annal., lib. II, cap. 18.
  7. Sueton., in Cajo, cap. 54. Dio. lib. 59.
  8. Sueton., in Cajo, c. 19.
  9. Sueton. in Cajo, cap. 39.
  10. Sueton. in Cajo, cap. 17. Dio., lib. 59.
  11. Sueton. in Cajo, cap. 20.
  12. Dio. lib. 59. Sueton. cap. 46. Aurelius Victor de Caesarib.