Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/35

Anno 35

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Anno di Cristo XXXV. Indizione VIII.
Pietro Apostolo papa 7
Tiberio imperadore 22.


Consoli


Cajo Cestio Gallo e Marco Servilio Moniano


Si celebrarono in quest’anno1 le nozze di Cajo Caligola, nipote per adozione di Tiberio, con Claudilla, figliuola di Marco Silano, in Anzo. V’intervenne lo stesso Tiberio, non avendo voluto neppure per occasion sì propria lasciarsi vedere in Roma, perchè non gli piacea di trovarsi presente alle sanguinarie esecuzioni, che ivi tuttavia si continuavano d’ordine di lui, non mai sazio di perseguitare chiunque fu stretto d’amicizia con Sejano. Fin qui aveva egli sofferto Fulcinio Trione, che fu console nell’anno della caduta del medesimo Sejano, anzi la buona gente il riputava molto favorito da lui. Ora solamente era per iscoppiare il fulmine sopra di lui; ma ciò presentito da Trione, si uccise colle proprie mani dopo aver fatto un testamento, in cui vomitò quante ingiurie potè contra di Tiberio e di Macrone, e dei liberti della corte. Non si attentavano gli eredi suoi di pubblicare un sì obbrobrioso scritto. Avutane contezza Tiberio, volle che si portasse e leggesse nel senato per guadagnarsi il plauso di principe sofferente dell’altrui libertà, giacchè punto non si curava della propria infamia, nè che si scoprissero le iniquità da lui commesse per mezzo di Sejano, ben sapendo che non erano cose ignote al pubblico. Uso certamente suo fu il non mai volere che si occultassero i libelli infamatorii fatti contra di lui, parendo quasi che riputasse sue lodi le sue vergogne. Altri senatori ed altri nobili, annoverati da Tacito2 e da Dione, o per mano propria o per quella del carnefice terminarono in [p. 104]quest’anno la lor vita; ed uno fra gli altri merita d’essere rammentato, cioè Poppeo Sabino, poco fa da noi veduto, che dopo il consolato, per ventiquattro anni avea governato la Macedonia, l’Acaia e le due Mesie, e col darsi la morte schivò il giudizio. Soggiornava in questi tempi Tiberio in vicinanza di Roma, per poter più speditamente aver il piacere d’intendere l’esecuzione de’ suoi tirannici comandamenti3. Fu allora, che vennero a Roma alcuni nobili Parti, segretamente, cioè senza saputa del re loro Artabano, per chiedere a Tiberio Fraate, figliuolo del fu Fraate re. Era montato Artabano in gran superbia, dacchè la vecchiaia di Tiberio, e il suo abborrimento alla guerra, aveano scemata in molti la stima e paura dell’armi romane. Essendo mancato di vita Zenone o sia Artassia, già creato dai Romani re dell’Armenia, Artabano avea occupato quel regno, e messovi Arsace, uno dei suoi figliuoli, per re, con assalir dipoi la Cappadocia, e minacciar anche di peggio i Romani. Inimicossi oltre a ciò i suoi colla soverchia alterigia, e lor diede ansa che ricorressero a Tiberio. Fu dunque mandato Fraate in Soria per isperanza che i Parti si moverebbero in favore di lui; ma perchè v’andò con poca fretta, ebbe tempo Artabano di premunirsi, e Fraate ammalatosi morì. Non lasciò Tiberio per questo di accudire agli affari dell’Armenia, e costituito Lucio Vitellio, cioè il padre di Vitellio, che fu col tempo imperadore, per generale dell’armata romana in Levante, mosse anche i re d’Iberia e i Sarmati contra di Artabano. Lasciatisi corrompere i ministri di Arsace, già divenuto re dell’Armenia, tolsero a lui la vita; ed entrate in quel paese le truppe dell’Iberia sotto il comando del re Farasmane, presero Artasata capitale del regno. Allora Artabano spedì Orode altro suo figliuolo contra di Farasmane con parte delle sue forze4. I Parti, [p. 105 modifica]benchè inferiori di gente, vollero battaglia; ma o sia che Orode vi fosse ucciso, o che la nuova ch’egli fosse ferito passasse in credenza di morte, la vittoria si dichiarò per Farasmane, al cui fratello Mitridate re dell’Iberia fu conceduta l’Armenia. Diedesi dipoi una seconda battaglia da Artabano, ma svantaggiosa anch’essa per lui; e perchè nello stesso tempo seppe che Lucio Vitellio coll’armi romane si accingeva a passar l’Eufrate per entrar nella Mesopotamia, abbandonato ogni pensier dell’Armenia, si ritirò alla difesa del proprio paese. Era allora l’Eufrate il confine tra l’imperio romano e il partico o sia persiano.


Anno di Cristo XXXVI. Indizione IX.
Pietro Apostolo papa 8
Tiberio imperadore 23.


Consoli


Sesto Papinio Allenio e Quinto Plautio


Non è ben chiaro, se Lucio Vitellio, fabbricato un ponte sull’Eufrate, coll’esercito romano passasse in questo o nel precedente anno in Mesopotamia. Certo è bensì che passò, e all’arrivo suo i primati de’ Parti si scoprirono allora alienati dall’ossequio verso del re Artabano5, e congiunsero le loro armi coi Romani. Trovavasi con Vitellio anche Tiridate, parente del defunto re Fraate. Veduta così bella disposizion dei Parti in suo favore, per consiglio di Vitellio, prese il cammino alla volta di Seleucia, città potente, che gli aprì con gran festa le porte, ed Artabano, veggendosi abbandonato de’ suoi, se ne fuggì. Intanto Vitellio, contento di aver fatta la sua sparata con far conoscere a que’ popoli la possanza romana, e credendo già assicurato il regno a Tiridate, se ne tornò colle sue legioni in Soria. Fu coronato Tiridate in Ctesifonte, capitale del regno dei Parti. S’egli avesse proseguito il corso di sua fortuna con visitar tutto il paese, e ridurre chiunque titubava alla [p. 106]sua fede, interamente il regno sarebbe stato di lui. Ma essendosi egli impegnato nell’assedio di un castello, dove Artabano avea ridotto il tesoro e le concubine sue, alcuni di que’ grandi, che non erano intervenuti alla coronazione o per paura di Tiridate, o per invidia che portavano ad Abdagese, ministro favorito di lui, andarono a trovar Artabano per rimetterlo sul trono. S’era questi ritirato nell’Ircania, dove da povero uomo vivea, guadagnandosi il vitto con la caccia. Credette egli a tutta prima che fossero venuti costoro per assassinarlo. Rassicurato da essi, e presa seco una mano di Sciti, si mise con loro in cammino, e trovata la gente che senza difficoltà tornava alla sua divozione, ingrossato di forze, s’indirizzò verso Seleucia. Stette in forse Tiridate, se dovea andargli incontro per dargli battaglia. Prevalse l’opinion dei dappoco, il primo de’ quali era il medesimo Tiridate; e però egli si ridusse in Soria, con isperanza che l’esercito romano avesse da prestargli aiuto per ricuperare il perduto regno, di cui con tutta facilità Artabano ripigliò il possesso. Vitellio non volle altro impegno, ed all’incontro Artabano diventò più che mai orgoglioso, e poco mancò che non portasse la guerra nel territorio romano. Non è inverisimile, che questo fosse il tempo in cui egli scrisse una lettera di fuoco a Tiberio6, rinfacciandogli la sua crudeltà, la vergognosa libidine e la poltroneria, ed esortandolo ad appagar prontamente l’odio universale e giustissimo de’ popoli con darsi la morte da sè medesimo.

Due disavventure afflissero Roma nell’anno presente, cioè una fiera inondazione del Tevere, per cagione di cui in molte parti della città fu necessario l’andar colle barche, e un incendio che guastò gran copia di case nel monte Aventino e la metà del Circo7. Tiberio in questa occasione, dimenticata


Note

  1. Dio., lib. 58.
  2. Tacitus, lib. 6, c. 38.
  3. Tacitus, I. 6, c. 31. Dio., lib. 58.
  4. Joseph., Antiq. Judaicarum, lib. 18, c. 6.
  5. Tacitus, lib. 6, c. 42.
  6. Sueton., in Tiber. cap. 66.
  7. Tacitus, lib. 6, cap. 45. Dio., lib. 58.