Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/30
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Anno di | Cristo XXX. Indizione III. Pietro Apostolo papa 2 Tiberio imperadore 17. |
Consoli
Lucio Cassio Longino e Marco Vinicio
In luogo de’ suddetti consoli nelle calende di luglio succederono Cajo Cassio Longino e Lucio Nevio Sordino. Qui vien meno la storia romana, essendosi perduti molti pezzi di quella di Cornelio Tacito; e l’altra di Dione si scuopre molto digiuna, perchè assassinata anch’essa dalle ingiurie del tempo. Tuttavia è da dire essere stati sì in grazia di Tiberio i due suddetti consoli ordinarii, cioè Lucio Cassio e Marco Vinicio, ch’egli da lì a tre anni diede loro in moglie due figliuole di Germanico; a Cassio Giulia Drusilla, a Vinicio Giulia Livilla. Appartiene poi a quest’anno il funesto caso di Asinio Gallo, figliuolo di Asinio Pollione, celebre a’ tempi d’Augusto. Dacchè Tiberio dovette ripudiar Vipsania, figliuola d’Agrippa, sua moglie primiera, che già gli avea partorito Druso, per prendere Giulia figliuola d’Augusto, questa Vipsania si maritò col suddetto Asinio Gallo, e gli partorì dei figliuoli, i quali perciò vennero ad essere fratelli uterini di Druso Cesare, ed uno d’essi era stato promosso al consolato. Ma, per testimonianza di Tacito, Tiberio mirò sempre di mal occhio Asinio Gallo per quel maritaggio. Tanto più se la prese con lui1, perchè osservò ch’egli facea una gran corte a Sejano, e l’esaltava dappertutto, forse credendo che costui arriverebbe un dì all’imperio, o pure cercando in lui un appoggio contro le violenze di Tiberio. Dovendo il senato inviar degli ambasciatori a Tiberio, fece egli negozio per essere un d’essi. Andò, fu ricevuto con volto ben allegro da esso Tiberio, e tenuto alla sua tavola, dove lietamente si votarono più bicchieri; ma nel medesimo tempo ch’egli stava in gozzoviglia, il senato, che avea ricevuta una lettera da Tiberio con alcune accuse immaginate dal suo maligno capriccio, il condannò, con ispedir tosto un pretore a farlo prigione. S’infinse Tiberio d’essere sorpreso all’avviso di quella sentenza, ed esortato Asinio a star di buona voglia, e a non darsi la morte, come egli desiderava, il lasciò condurre a Roma, con ordine di custodirlo sino al suo ritorno in città. Ma non vi ritornò mai più Tiberio; ed egli intanto senza servi, e senza poter parlare se non con chi gli portava tanto di cibo, che bastasse a non lasciarlo morire, andò languendo in una somma miseria, con finir poscia i suoi guai, non si sa se per la fame o per altro verso, nell’anno 33 della nostra Era, siccome attesta Tacito. Eusebio2, che mette la sua morte nell’anno primo di Tiberio, non è da ascoltare. Anche Siriaco, uomo insigne pel suo sapere, tolto fu di vita non per altro delitto, che per quello d’essere amico del suddetto Asinio. In quest’anno appunto scrisse la sua storia, di cui buona parte s’è perduta, Vellejo Patercolo, con indirizzarla a Marco Vinicio, uno dei[p. 86] due consoli di quest’anno; però non merita scusa la prostituzione della sua penna in caricar di tante lodi Tiberio e Sejano. Le loro iniquità davano negli occhi di tutti; e quegl’incensi sì mal impiegati, sempre più ci convincono di che animi servili fosse allor pieno il senato e la nobiltà romana. Abbiamo da Dione, che sempre più crescendo l’autorità e l’orgoglio di Sejano, tanto più per paura o per adulazione crescevano le pubbliche e le private dimostrazioni di stima verso di lui. Già in ogni parte di Roma si miravano statue alzate in suo onore3. Fu anche decretato in senato, che si celebrasse il di lui giorno natalizio. E a lui separatamente, e non più al solo Tiberio, si mandavano gli ambasciatori dal senato, dai cavalieri, dai tribuni della plebe e dagli edili. Cominciossi ancora ne’ voti e sagrifizii che si facevano agli dii del Paganesimo per la salute di Tiberio, ad unir seco Sejano; si udivano grandi e piccioli giurare per la fortuna di amendue; il che era riserbato in addietro per gli soli imperadori. Non lasciava quell’astuta volpe di Tiberio, benchè si stesse nell’infame suo postribolo di Capri, d’essere informato di tutto questo; e tutto anche dissimulava, ma coll’andar intanto ruminando quel che convenisse di fare.