Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/212
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Anno di | Cristo CCXII. Indizione V. ZEFIRINO papa 16. CARACALLA imperad. 15 e 2. |
CAIO GIULIO ASPRO per la seconda volta e CAJO GIULIO ASPRO.
Erano fratelli questi due consoli, e, per attestato di Dione1767, figliuoli di Giuliano Aspro, personaggio pel suo sapere e per la grandezza d’animo assai rinomato, e tanto amato da Caracalla, che tanto egli che i suoi figliuoli furono esaltati da lui a’ primi onori. Ma poca sussistenza ebbe il favore di questo bestiale Augusto. Giuliano da qui a non molto fu vituperosamente cacciato fuori di Roma ed obbligato a tornarsene alla sua patria. Un’iscrizione pubblicata dal Fabretti1768 ci fa vedere che sì l’un come l’altro portava il nome di Cajo Giulio Aspro: cosa nondimeno assai rara, e Dio sa se vera, non veggendosi distinto per alcun segno, come si usava, l’uno dallo altro. Nel viaggio a Roma dei due fratelli Augusti, Caracalla e Geta, diede negli occhi ad ognuno la comune lor diffidenza e discordia, perchè non alloggiavano mai nè mangiavano insieme; temendo cadaun d’essi di veleno. Più visibile riuscì poi in Roma il lor contraggenio, anzi l’odio vicendevole che l’un covava contro dell’altro, quantunque Geta, giovane di miglior cuore, solamente per necessità stesse in guardia, perchè assai persuaso del cuor fellone di suo fratello1769. Questa fiera diffidenza cagion fu ch’essi fecero due parti del palazzo cesareo, per istar ben separati l’uno dall’altro, con far chiudere le porte frapposte fra i loro appartamenti, e tenendo solamente aperte quelle delle sale, dove amendue davano pubblica udienza. Nè già ad alcun d’essi mancava veruna delle comodità, perchè il palazzo imperiale era più vasto, se Erodiano dice il vero, del resto di Roma stessa: il che un gran dire a me sembra, e nol so digerire. Andò tanto innanzi questa contrarietà e mutola guerra fraterna, che ognun d’essi s’ingegnava di tirar più gente nel suo partito; nel che Geta avea più destrezza e fortuna, perchè generalmente più amato che l’altro, a cagion d’essere giovane placido, cortese verso tutti, in una parola assai diverso dal barbaro suo fratello. Cadauno intanto volle la sua guardia separata, lasciandosi vedere di rado insieme, e questo nelle sole pubbliche funzioni. Fu dunque proposto da qualche amico e consigliere, per prevenir maggiori disordini, che si dividesse fra loro l’imperio. Erano come d’accordo i due fratelli su questo. Contentavasi Geta di aver in sua parte l’Asia, la Soria e l’Egitto, lasciando tutto il resto nell’Europa e nell’Africa al fratello, con pensiero di mettere la sua residenza o in Antiochia o in Alessandria, città che allora poteano gareggiare in grandezza con Roma. I senatori di nazione europea resterebbono in Roma; gli altri potrebbono seguitar Geta. Nel consiglio degli amici del padre, e alla presenza di Giulia Augusta lor madre, spiegarono i due Augusti questa loro risoluzione. Con ribrezzo e con gli occhi fitti nel suolo ciascuno gli ascoltò, nè alcuno osava di aprir bocca, quando saltò su Giulia, e pateticamente loro parlò dicendo, che potrebbono ben partire gli Stati, ma come poi partirebbono fra loro la madre? e qui con singhiozzi e con lagrime li pregò di piuttosto uccidere lei, che di lasciarla sopravvivere a questo sì lagrimevole spettacolo. Correndo poi ad abbracciarli teneramente amendue, gli scongiurò di vivere uniti in pace. Questo bastò perchè anche gli altri disapprovassero un tal fatto, troppo orrore sentendo ciascuno all’udire che s’avesse a dividere, e per conseguente da indebolir cotanto il romano imperio. Però nulla se ne fece. Ma le dissensioni, le gare e i sospetti andarono sempre più crescendo, ed ognun d’essi fratelli pensava alla maniera di opprimere l’altro1770. Venne in mente a Caracalla di sbrigarsi di Geta nelle feste Saturnali dell’anno presente, perchè in esse una gran licenza si concedeva agli schiavi; ma perchè ebbe paura che troppo pubblico fosse il misfatto, se ne astenne. Tutte le strade ch’egli andò meditando, parendogli sempre pericolose, perchè Geta stava molto bene in guardia, ed era ben voluto, massimamente dai soldati, dai quali, siccome anche da buon numero di gladiatori, veniva custodito, prese in fine il partito di valersi dell’inganno, che che gliene potesse avvenire. Fece dunque credere a Giulia sua madre di volersi riconciliar da dovero col fratello, e che si abboccherebbe con lui nella di lei camera segreta. Chiamato Geta dalla madre, buonamente corse colà. Quando fu dentro, secondo Erodiano1771, lo stesso Caracalla di sua man lo scannò. Dione1772, che scrive i fatti de’ suoi giorni, confessa che Caracalla dipoi consacrò a Serapide la spada con cui avea ucciso il fratello; ma con aggiugnere che sbucarono fuori alcuni centurioni, già messi da Caracalla in agguato,. che gli si avventarono anch’essi coi ferri nudi addosso. Altro non potè fare l’infelice giovane, che correre ad abbracciare strettamente l’atterrita Giulia, gridando: Mamma, mamma, aiutatemi, che mi ammazzano. L’ammazzarono in fatti nel seno dell’ingannata madre, che restò tutta coperta del sangue del misero figlio, e ne riportò anch’essa una ferita nella mano, per averla stesa affin di trattener que’ colpi. Questo fu il miserabil fine di Geta Augusto, nell’età sua di ventidue anni e nove mesi, probabilmente negli ultimi giorni di febbraio, o pur ne’ primi di marzo, essendo egli nato nell’anno 189 della nostr’Era. Erodiano non men che Sparziano1773 cel descrivono per giovane non esente già da difetti, ma pure alieno dalla crudeltà, amabile, e che teneva a mente tutti i buoni documenti del padre. L’indegno Caracalla, dopo così enorme misfatto, corse qua e là pel palazzo, facendo lo spaventato1774, e gridando di essere scampato dal più gran pericolo del mondo, e fingendo di non tenersi sicuro ivi, a gran passi (ed era la sera) marciò verso il quartiere de’ pretoriani. I soldati, che erano di guardia del palazzo, non sapendo come fosse l’affare, gli tennero dietro anch’essi, passando per mezzo alla città con ispargere un gravissimo terrore fra il popolo, che non intendeva il soggetto di tanto rumore. Allorchè arrivò Caracalla alla fortezza de’ pretoriani, andò diritto al luogo, dove stavano le insegne e gl’idoletti loro, fatto a guisa di cappella; e quivi prostrato a terra, fece vista di ringraziar il cielo che gli avesse salvata la vita. Corsero colà tutti i soldati, ansiosi di sapere che novità era quella; ed egli sempre parlando con parole ambigue di pericoli, d’insidie a lui tese, a poco a poco finalmente arrivò a far loro intendere che non aveano più se non un padrone. Poscia, per amicarseli, promise loro un regalo di duemila e cinquecento dracme per testa, e la metà di più del grano solito darsi loro: di maniera che in un sol dì egli dissipò tutti i tesori ammassati in diciotto anni colla crudeltà e rapacità da suo padre. Permise anche ai soldati di andare a spogliar vari templi delle cose preziose. Tanta prodigalità di Caracalla, ancorchè si venisse da lì a poco a scoprire il fratricidio, quetò gli animi di coloro, che non solamente proclamarono lui Imperadore, ma dichiararono nemico pubblico l’estinto Geta. Fermossi tutta la notte Caracalla nel campo dei pretoriani1775, e la mattina seguente accompagnato da tutto l’esercito in armi più del solito, portando egli stesso la corazza sotto le vesti, si portò al senato, facendovi anche entrare parecchi soldati con volere che sedessero. Parlò delle insidie in varie guise a lui tese dal nemico fratello, da cui anche ultimamente poco era mancato che non fosse stato ucciso a tradimento; ma che egli, in difendendo sè stesso, aveva ammazzato l’altro. Se crediamo ad Erodiano1776, parlò anche con asprezza e volto fiero contro gli amici di Geta. Dione1777 nol dice, e nè pure Sparziano. Amendue bensì attestano, che all’uscir della curia rivolto a senatori: Ascoltate, disse, una cosa che rallegrerà tutto il mondo. Io fo grazia a tutti i banditi e relegati nelle isole. Con che egli venne a riempiere Roma di scellerati e malviventi, per poi popolar quelle medesime isole di persone innocenti. Tornossene Caracalla dal senato al palazzo, accompagnato di qua e di là da Papiniano e da Fabio Cilone, che gli davano di braccio, e sembravano due suoi cari fratelli, ma per far in breve un’altra ben diversa figura. Comandò poi che al cadavero dell’ucciso Geta fosse fatto un solenne funerale1778, e che gli fosse data sepoltura nel sepolcro dei Settimii nella via Appia. Di là fu poi esso trasportato nel mauseleo di Adriano. Che egli allora fosse deificato, lo scrive taluno, ma non se ne trovano sufficienti prove. Tutto ciò fece Caracalla per isminuir, se poteva, l’universale odiosità che egli s’era tirata addosso con sì nero misfatto. Non istarò io qui a raccontare i presagii della morte violenta di Geta, che Sparziano, fecondo di tali osservazioni, poco per lo più degne di fede, lasciò scritti. Dirò bensì che Dio anche in vita punì Caracalla, perchè egli ebbe sempre davanti agli occhi l’orrido aspetto del fratello svenato1779, e dormendo se gli presentavano sempre, degli oggetti spaventevoli, e pareagli di vedere or esso suo fratello, ed ora il padre, che colla spada sguainata gli venivano alla vita. Scrive Dione, che, per trovar rimedio a questo interno flagello, ricorse fino alla magia, e che gli comparvero l’ombre di molti, fra le quali solamente quella di Commodo gli disse: Va, che t’aspetta il patibolo. Ne creda il lettor quel che vuole. Certo è bensì che questi tetri fantasmi gli guastarono a poco a poco la fantasia, talmente che il vedremo furioso. Ed egli non mancò di visitar i templi de’ suoi dii, dovunque egli andava, e di mandarvi dei doni per quetar pure tante interne agitazioni; ma tutto fu indarno. Il bello era1780 che non udiva mai ricordarsi il nome di Geta, non ne mirava mai il ritratto, o le statue di lui, che non gli venissero le lagrime agli occhi. Ma o egli fingeva questo dolore, o pur egli ad ogni soffio di vento mutava affetti e voleri. Io mi riserbo di parlare all’anno seguente dell’incredibil sua crudeltà contro la memoria del fratello, benchè più propriamente appartengano al presente anno tutte quelle sue barbare azioni. E qui dirò unicamente ch’egli fece rompere tutte le statue di lui, ed anche fondere la moneta, dove era il suo nome.