Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/121
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Anno di | Cristo CXXI. Indizione IV. Sisto papa 5. Adriano imperadore 5. |
Consoli
Lucio Annio Vero per la seconda volta e Aurelio Augurino.
Fu Lucio Annio Vero avolo paterno di Marco Aurelio filosofo ed imperadore, di cui parleremo a suo tempo. Osservossi1 in tutte le maniere di vivere d’Adriano Augusto una continua varietà, e una costante incostanza. Ora crudele, ora tutto clemenza: ora serio e severo, ora lieto buffone: avaro insieme e liberale: sincero e simulatore. Amava facilmente, ma facilmente passava dall’amore all’odio. S’è veduto com’egli trattò l’architetto Apollodoro, e pure abbiam da Sparziano, che non si vendicò di chi gli era stato nemico, allorchè menava vita privata. Divenuto imperadore, solamente non guardava loro addosso. E vedendo uno che più degli altri se gli era mostrato contrario, disse: L’hai scappata. Tutto ciò può essere, se non che per testimonianza del medesimo storico, Palma e Celso consoli, stati sempre suoi nemici nella vita privata, abbiam veduto qual fine fecero. In quest’anno gli venne troppo a noia Celio Taziano, che già dicemmo alzato da lui al grado di prefetto del pretorio, in guisa che, come dimentico di averlo avuto per tutore, e[p. 446] per gran promotore della sua assunzione al trono, ad altro non pensava che a levarselo d’attorno. Non poteva sofferire la grand’aria di potenza che si dava Taziano; e perciò gli corse più volte per mente di farlo tagliare a pezzi. Se ne astenne, perchè era fresca la memoria dei quattro consolari uccisi, e l’odio che gliene era provenuto. Ma con tutto il suo guardarlo di bieco, non otteneva che Taziano chiedesse di depor quella carica. Gli fece per tanto dire all’orecchio, che era bene il chiederlo; ed appena ne udì l’istanza, che conferì la carica di prefetto del pretorio a Marzio Turbone, richiamato dalla Pannonia e Dacia. Creò senatore Taziano, dandogli anche gli ornamenti consolari, e dicendo che non avea cosa più grande con cui premiarlo. Anche Simile, l’altro prefetto del pretorio, siccome dissi all’anno 118, dimandò il suo congedo. Entrò nel suo posto Setticio Claro. Sì Turbone che Claro erano due personaggi di raro merito; ma anch’essi provarono col tempo, quanto instabile fosse l’amore e la grazia di questo imperadore. Per questa mutazion d’uffiziali parendo oramai ad Adriano d’aver la vita in sicuro, perchè di loro non si fidava più, andò a sollazzarsi nella Campania, dove fece del bene a tutte quelle città e terre, ed ammise all’amicizia sua le persone più degne ch’egli trovò in quel tratto di paese.
Ritornato a Roma Adriano, come se fosse persona privata, interveniva alle cause agitate davanti ai consoli e ai pretori; compariva ai conviti de’ suoi amici, e se questi cadevano malati, due ed anche tre volte il giorno andava a visitarli. Nè solamente ciò praticò coi senatori; si stesero le visite sue anche ai cavalieri romani infermi, e insino a persone di schiatta libertina, sollevando tutti con buoni consigli, ed aiutando chiunque si trovava in bisogno. Gran copia d’essi amici volea sempre alla sua mensa. Alla suocera sua, cioè a Matidia Augusta, nipote di Trajano, compartì ogni possibil onore, allorchè si faceano i giuochi de’ gladiatori, e in altre occorrenze. Ebbe sempre in sommo onore Plotina Augusta, vedova di Trajano, da cui conosceva l’imperio. E a lei defunta fece un suntuoso scorruccio. Gran rispetto ancora mostrava ai consoli, sino a ricondurli a casa terminati ch’erano i giuochi circensi. Anche con la più bassa gente parlava umanissimamente, detestando i principi che colla loro altura si privano del contento di mandar via soddisfatte di sè le persone. Con queste azioni prive di fasto, piene di clemenza2, si procacciava l’affetto del pubblico; e lodavasi nel medesimo tempo la continua sua attenzione al buon governo; la sua magnificenza nelle fabbriche; la sua provvidenza ne’ bisogni occorrenti, e specialmente nel mantenere l’abbondanza de’ viveri al popolo. Assaissimo ancora piaceva il non esser egli vago di guerre, che d’ordinario costano troppo ai sudditi. Tanto le abborriva egli, che se ne insorgeva alcuna, più tosto si studiava di aggiustar le differenze coi negoziati, che di venir all’armi. Non confiscò mai i beni altrui per via d’ingiustizie; troppo si pregiava egli di donare il suo ad altri, non già di far sua la roba altrui. In fatti grande fu la sua liberalità verso moltissimi senatori e cavalieri; nè aspettava egli d’essere pregato; bastava che conoscesse i lor bisogni per correre spontaneamente a sovvenirli. Se gli poteva parlare con libertà, senza ch’egli se l’avesse a male. Avendogli una donna dimandata giustizia, rispose di non aver tempo di ascoltarla. Perchè siete voi dunque imperadore? gridò la donna. Fermossi allora Adriano, con pazienza l’ascoltò, e la soddisfece. Un dì ne’ giuochi de’ gladiatori al popolo non piacea quel che si facea, e con importune grida dimandava all’imperadore, che se ne facesse un altro. Comandò Adriano all’araldo che gli era vicino,[p. 448] di dire imperiosamente al popolo che tacesse, come solea far Domiziano. Ma l’araldo fatto cenno al popolo di dovergli dir qualche parola a nome del regnante, altro non disse se non: Quel che ora si fa, è di piacere dell’imperadore. Non si offese punto Adriano, che l’araldo avesse contro l’ordine suo parlato con tal mansuetudine al popolo, anzi il lodò d’aver così fatto. Credesi ch’egli in quest’anno fabbricasse un circo in Roma. Comincia il Tillemont3 nell’anno 120 i viaggi di Adriano fuori di Italia; il Pagi4 nell’anno 121. Io mi riserbo di parlarne all’anno seguente.